live: PERCHE’? // Death In June, Qube, Roma, 20 ottobre 2011

N'è a foto è popo ccosì 🙁

Che lavoro fanno? Voglio dire: va bene il look (cioè non va bene, ma va bene lo stesso se è il prezzo da pagare per non avere i soviet), ma quando si superano i venticinque, o addirittura si raggiungono i quaranta, quale chance di procacciamento di cibo resta a chi porta una enorme cresta (rima: 10 punti-coione per me), o ha rasata metà testa (20), o invece di pensare ai figli e alla cucina veste come una sado-masichist-total-horror bitch?

Alla risposta a questa domanda, se la si è capita, sono davvero interessato; non credo invece sia possibile dare soddisfazione al vero, grande interrogativo della serata: perché? Sì, perché, chiedo soprattutto a me stesso, non ho colto la prima serata del secolo con la Lazio in tv in chiaro (no sky no fun), il tepore casalingo con quell’odorino selvatico di cane appallottolato sul divano, mia moglie a cena fuori e perciò zero sensi di colpa, perché non l’ho colta e ho strappato me stesso al benessere per andarmi a mischiare a strani vampironi nel locale più brutto del mondo?

Già, che poi, perché? Perché il Qube? Non chiedo il perché dei Death In June al Qube: chiedo proprio il perché del Qube. Lo conoscete? In una zona deep ugly di Roma, inficiata purtroppo dalla recente vicinanza del Pigneto (che c’era già prima, ma non era fico) e da quella storica con l’università più zozzona d’Europa (La Sapienza, che visti i livelli accademici la si potrebbe ribattezzare: Er Cazzo), c’è questo vecchio rudere cubico da cui l’astuto nome, ahah, orrendato ulteriormente da infissi argentati o a specchio, dotato di un personale di trucibaldi e malstrutturato su vari piani dove si svolge una – credo – quotidiana discoteca e, talvolta, dei concerti rock.

La sala dei concerti rock: perché? Perché fare dei concerti rock in una sala (quadrata) caratterizzata da una selva de pilastri (quadrati e specchiati), e circondata da du bare (nel senso: bar in romano, non casse da morto) e da una balconata da cui vecchi dark e grasse mignotte incombono sulla bolgia dei dannati. Al centro della sala, pende dal soffitto una ENORME palla da discoteca tipo Studio 77. E in tutto ciò, il fior fiore della malagioventù (20-50) di Roma, cioè una sorta di metallari-goth-lesbo chiaviconi, o spacciatori consumati dal mestiere, o sfigati random (tra cui io e i miei amici, che per l’occasione – non si sa perché – ci eravamo vestiti come dei bori, e quindi chiunque si sentirà offeso da tutto ciò ed era presente sa chi cercare), tutti che attendono (a lungo) un concerto de du vecchi.

I vecchi salgono a un orario assurdo, tanto la mattina nessuno c’ha un cazzo da fa’, ve’? (e questo forse risponde alla mia prima domanda), patetici, sconclusionati, vestiti come i tecnici AMA che la mattina erano andati in giro a svuotare le fognature allagate, e cominciano a infliggere la loro sorryIcantplay/sorrygotnotalent-music a questi giovani problematici che si sono bevuti la storia del “folk apocalittico”, che nun ha mai detto, né vorà mai, dì un cazzo. E poi! Oh, se siete nazisti non c’è da vergognarsene, eh, sono dei vostri, ma per cortesia, metteteci direttamente le svastiche, sui vostri vessilli (du tovaje appese storte sul retro). E poi ancora, oh! Può anche andar bene aver scritto un solo pezzo in tutta la carriera – voglio dire, lo hanno fatto anche i Ramones, i R.E.M. o Jay Reatard -, ma per Dio, che almeno quel pezzo sia bello.

E invece no: una nenia svociata reiterata in eterno su una chitarraccia da cento euro scordata. Ma che è? Ma è questo il motivo per vestirsi così, sentirsi epici e riottosi e attratti dal male e dall’oscuro? E io, soprattutto, rimango qui a chiedermi: perché? Non lo so, il perché: so che dopo quarantacinque eroici minuti mi sono dato per vinto e me ne sono andato. Pare che Kozak abbia sfiorato un goal nel finale: ma i punti restano due, e la notte non è mai stata così buia.