Promemoria.

c'è da dire che a far 'ste cose son bravi...

Stavo iniziando a disegnare una locandina finta per farci il post, ma perchè perdere l’occasione di inculare un’immagine ai ragazzi diversamente simpatici di SoloMacello? Venerdì sera al Bronson di Ravenna c’è

SHRINEBUILDER
(recupero della data rimandata lo scorso anno per l’eruzione del vulcano copia-incolla)

KARMA TO BURN
(terzo concerto dell’anno in due anni al Bronson)

e prima/durante/dopo i dischi li mettiamo noialtri di Bastonate. Davvero. Siateci. Al primo che si presenterà in consolle e mi dirà “ciao Franci, questo pezzo mi fa cagare” costringendomi a calci a metter su Lady Gaga (preferibilmente Bad Romance), offrirò uno shortino di Jagermeister di tasca mia. L’alternativa è di andarveli a vedere sabato nel milanese con -appunto- i tipi lassù a suonare, ma per prima cosa noi suoniamo dischi più belli e colti, secondo i milanesi ammazzano il sabato e terzo OPS sabato i Karma To Burn di spalla agli Shrinebuilder NON CI SUONANO. Suoneranno in culo a qualche posto a Brescia e voi dovrete rosicare e dividervi.
Lo dico con la consapevolezza di uno che indossa le magliette con sopra stampato un demonio femmina con il cazzo.

RUINS alone + SABOT @ Spazio SI (Bologna, 25/3/2010)


(foto presa da qui)

Serata nefasta per un concerto, c’è Santoro al Paladozza. Forse anche per questo sono pochi i temerari accorsi a un appuntamento imprescindibile per chiunque ami farsi massacrare i timpani con criterio: d’altronde non capita spesso che i Ruins (beh, metà Ruins per stavolta) passino da queste parti (l’ultima volta mi pare cinque anni fa a Reggio Emilia, se la memoria non falla), e ancora più raramente un’accoppiata così micidiale si legge sui cartelloni. Quando i Sabot attaccano, probabilmente Luttazzi ha appena cominciato a enunciare la sua teoria riguardante la corrispondenza tra quel che passa per la testa dell’elettore medio di Berlusconi e le tre fasi del sesso anale. Il duo statunitense da decenni ricollocatosi in uno squat nella repubblica ceca era già passato da Bologna diversi anni fa per una furiosa esibizione agli albori dell’xm24; molti dei presenti di allora sono di nuovo qui a rendere omaggio a una delle band più pure, integre e fieramente underground di sempre, al cui confronto persino i Fugazi diventerebbero azzimate rockstars. Il loro personalissimo sound, una strana fusione tra l’hardcore evoluto dell’asse Black Flag-Minutemen, noise jazzato e punk primordiale, un amalgama letteralmente indefinibile per il quale è stato coniato il termine bass’n’drums (in effetti, che altro vuoi dire?) e a cui gruppi come godheadSilo o i nostri Zu devono ben più di un po’, rende decisamente meglio in versione live piuttosto che intrappolato nelle restrittive maglie di un CD (ed è forse la ragione per cui la band stessa nel 2006 ha ristampato praticamente l’intera discografia – da tempo introvabile – in un unico cd di mp3 a 192k, come a ribadire l’importanza primaria del materiale eseguito in concerto rispetto al momento dell’incisione in studio). Temprati da innumerevoli performance (questo è il tour del loro ventesimo anniversario), da incalcolabili assi di palchi calpestati, da centinaia di migliaia di kilometri macinati su furgoncini scassati, i Sabot lavorano ai fianchi, con fulminea improvvisazione e impressionante fluidità, una setlist che comprende tanti loro superclassici (per chi li conosce) stravolti, trasfigurati, scorporati e riplasmati l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, come ectoplasmi deformi in un quadro di Francis Bacon. È incredibile quanto rumore si possa produrre con soltanto una batteria da quattro soldi e un basso con un solo pedale. Pochissime le pause e notevole la visione d’insieme: il bassista Chris Rankin (50 anni il prossimo 1° maggio, celebrati con una festa di compleanno a cui chiunque vorrebbe partecipare) imbraccia lo strumento con la svagata nonchalance di un pedofilo con l’impermeabile all’uscita di una scuola elementare, mentre l’androgina Hilary Binder – l’unico incrocio possibile tra un androide, Meira Asher e un camionista incazzatissimo in libera uscita – si accanisce sui tamburi come se non ci fosse un domani, tanto che a meno di metà scaletta la canottiera militare da Soldato Jane che indossa è già fradicia di sudore. Musica nata per essere marginale, per risuonare tra le pareti dei centri sociali più fetidi dopo lunghe notti di passione e rabbia. Speriamo che i Sabot possano tenerci compagnia per molti altri anni ancora.


(foto di Offset)

Tatsuya Yoshida ha l’aria di un programmatore di software sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Indossa una maglietta arancione più grande di un paio di taglie e pantaloni militari del colore della merda di coccodrillo; si muove con la calma innaturale e la furia trattenuta di un serial killer a riposo che soltanto a costo di sforzi sovrumani riesce a mantenere un contegno. Porta sulle spalle ossute tutto il peso delle deliranti architetture sonore progettate nel corso di una carriera che ha già oltrepassato il quarto di secolo, e ha problemi con la pedaliera e un microfono. Durante il soundcheck si agita e smania e comincio a temere il peggio quando mi rendo conto che userà la stessa cenciosa batteria dei Sabot, e per giunta lo vedo scagliare esasperato una bacchetta sul rullante e andarsene dopo l’ennesimo capriccio della spia che sembra proprio non voler saperne di funzionare. Miracolosamente viene risolto l’inghippo e l’uomo torna sul palco. Si siede dietro le pelli, schiaccia un pedale e… dà inizio a una delle dimostrazioni di violenza e devianza mentale più radicali e agghiaccianti che io abbia avuto modo di testimoniare in tutta la mia vita. Free grind, noise, jazz, polka, opera lirica (…), industrial, prog, math rock, thrash metal e, beh, più o meno qualsiasi altra cosa sia mai stata prodotta da uno strumento qualunque viene triturata passando attraverso quel colossale frullatore umano che è Yoshida, uniche armi braccia gambe la batteria e un Kaoss Pad azionato seguendo criteri manicomiali. Ogni tanto lancia qualche acuto raccapricciante tra una rullata schizofrenica e l’altra ed è tutto lì, il senso di tutto quanto sta proprio in quei terrificanti gorgheggi da castrato strafatto di assenzio che sembrano parlare un’altra lingua, magari la lingua di qualche orribile mostro lovecraftiano che, sommerso nell’abisso più insondabile, da eoni dorme il suo sonno millenario. È roba pericolosa. Roba che risveglia gli istinti più animaleschi e inconfessati. Che istiga a commettere una strage. Va avanti per venticinque minuti, al termine dei quali nessuno oserebbe pretendere di più, e il silenzio arriva quasi come una ricompensa. Un gigante.

Melvins @ Estragon, Bologna (1/12/2009)

(foto di Kekko)

La ragione per cui i Melvins sono ancora qui mentre tutti i loro compagni di strada prima o poi hanno mollato è che la loro visione è più forte di tutto. Più forte del tempo, che passa per tutti ma evidentemente non per la loro musica, sempre sgradevole e sbilenca e opprimente, sempre meravigliosamente ottundente e pervicacemente uguale a sé stessa. Più forte della vita, con tutti i suoi scomodi ostacoli che vanno dalla fame agli stenti alle bollette da pagare alla droga ai mille bassisti che vanno e vengono all’invecchiamento precoce al bisogno intrinseco di trovarsi un lavoro dignitoso. Più forte perfino dei Melvins stessi, che pure ci hanno provato a domarla, ad addomesticarla a uso e consumo di major, network tv e platee avide di marionette cenciose da spremere fino all’ultimo brandello di umanità nei favolosi anni novanta: dischi per Atlantic, videoclip e improvvise manie di grandezza dello scriteriato Joe Preston (d’un tratto convintosi di essere diventato una rockstar) non hanno intaccato l’inossidabile attitudine respingente, molesta e anti-umana che da sempre è il motore del gruppo. Brutti come la fame, pesanti come un macigno da dieci tonnellate rivestito di cemento armato, lenti e implacabili come la morte in un ospizio, i Melvins hanno attraversato indenni oltre un quarto di secolo di storia della musica pesante, creando scene, lambendone di striscio altre, comunque tracciando un segno indelebile in discipline tra le più diverse e disparate tra cui (almeno) metal, noise, doom, ambient, stoner, sludge e ovviamente “grunge”. Continuano a incidere dischi di cui non frega un cazzo a nessuno (a parte il solito nugolo di irriducibili più dissociati di loro) e a portare i loro grugni inguardabili e i loro temibili ventri da birra a spasso per il mondo a una media di un disco-tour all’anno, inarrestabili come un carrarmato pilotato da un mongoloide. Probabilmente soltanto la morte li fermerà. Quella di stasera è soltanto l’ennesima tappa del viaggio. Sul palco iniziano in due; sembra di vedere (e sentire) due spastici al saggio di fine anno. King Buzzo è bruttissimo. Voglio dire, più del solito. Chiunque ha accostato fino alla nausea la sua improponibile zazzera a due modelli: Robert Smith e Telespalla Bob, ma la verità è che lui somiglia piuttosto a una gattara totalmente andata di cervello, una di quelle vecchie svalvolate senza denti che vedi aggirarsi nei rioni blaterando cazzate a caso. Indossa una vestaglia nera con un grosso pentacolo cucito all’altezza delle gambe e probabilmente nella sua mente questa è una trovata simpatica. Il colpo d’occhio provoca il vomito. Dale Crover, da par suo, tracima tessuto adiposo da ogni piega di una maglietta troppo stretta, sbuffa e ansima e sfoggia con strafottenza un quadruplo mento da camionista baffuto da far sembrare marmoreo un budino créme caramel dentro la lavatrice. Ma è quando si aggiungono i nuovi innesti, il bassista-cantante Jared Warren e il secondo batterista Coady Willis, che la serata entra nel vivo. Lo show è diviso in due set dalla durata quasi identica (entrambi attorno ai tre quarti d’ora), il primo incentrato sulle cose più recenti, il secondo sui vecchi classici; i volumi sono impressionanti, il suono di chitarra qualcosa di difficile da immaginare, figuriamoci da sentire: magmatico, ribollente, schiumante, il suono di una fossa di liquami tossici dotati di vita propria. L’incedere delle batterie un meccanismo infernale che ridefinisce il concetto stesso di “metronomico”. L’aria si fa pesante, il pavimento trema: è come se il terreno si preparasse da un momento all’altro a spalancarsi in una voragine senza fondo né scopo. Sembra di assistere a un rituale pagano di cui soltanto gli officianti conoscono le regole; la sensazione, incancellabile, è di qualcosa di pericoloso, tenebrosamente imponente, malsano, qualcosa di profondamente sbagliato che si insinua inesorabile fin dentro alle ossa, a cui è del tutto inutile opporre resistenza. Come rimanere, ammaliati, immobilizzati, a contemplare l’abisso. Quando l’ultima nota si dissolve nell’aria è come se una mano invisibile avesse allentato la stretta alla nostra gola. Concerto dell’anno, se non fossimo sul pianeta Terra ma in qualche universo parallelo lovecraftiano, agghiacciante a partire dal nome, tipo R’lyeh. Terminale.

P.S.: l’inizio del concerto tre quarti d’ora prima dell’orario indicato ci ha impedito di assistere alla performance dei Porn. Bestemmie a iosa.

(foto di Kekko)

Pan Sonic + Martin Rev @ Locomotiv, Bologna (28/11/2009)

(foto di deSna B.)

In origine il cartellone di stasera prevedeva il solo Martin Rev, senonchè la data di ottobre dei Pan Sonic è saltata perché uno dei due (Mika Vainio, quello pazzo) era finito in coma etilico per l’ennesima volta. Dunque, recupero in extremis ora con conseguente reboot della serata da happening per squilibrati e reduci bolliti a evento mondano dell’anno per galleristi froci, intellettuali con gli occhiali, gente che ne sa di musica, esponenti della scena e in genere tipi giusti che vanno nei posti giusti. Locale pieno con fila all’ingresso, c’è chiunque deve esserci: è l’ultimo tour dei Pan Sonic (ma sarà poi vero?), mancare significherebbe scomparire dalla scala sociale. A Martin Rev di tutto questo, comunque, non frega un cazzo. Maglietta con supereroe e occhialoni da sole da cyborg scervellato, magro come un chiodo e scavato come una scultura di Giacometti, avanza caracollante portandosi dietro quasi quarant’anni di leggenda, marciume e marginalità rigorosamente newyorkese; sul palco una tastiera e un microfono, nient’altro. Solleva per un attimo gli occhiali per configurare qualcosa sulla plancia di comando rivelando occhi enormi e neri scintillanti nel vuoto, due fari di tenebra a squarciare la luce. Schiaccia un pulsante e parte una base che non riconosco, dev’essere un pezzo dal suo album nuovo, Stigmata, che non ho ancora ascoltato (è uscito il giorno prima); contemporaneamente comincia a percuotere la tastiera con pugni e gomitate, come un bambino suonerebbe il pianoforte dei nonni, premendo tutta la pianta della mano su tasti a caso e producendo soltanto caos dissennato. Poi afferra il microfono, e ci urla dentro un testo che, con buona approssimazione, fa più o meno così: HEY! HEY! HÙA! HÒE! HÈAH! HÙH! HÒAEY! per alcuni minuti, il tutto alternato ad altri pugni e gomitate sulla tastiera e occasionali coreografie da ballerino spastico strafatto di crack. La base è martellante e implacabile, i volumi sono assordanti, insensati. Il brano finisce senza che ci sia tempo di chiedersi perché, di cercare di razionalizzare quanto abbiamo appena visto, e subito parte quello successivo, che identifico immediatamente: è In your arms, il secondo pezzo di To Live (2003, probabilmente il miglior album della sua carriera solista), schitarrate anfetaminiche e drum machine assillante alla Ministry del periodo cyber-metal primi anni novanta. Tempo pochi istanti e Martin riprende ad avventarsi sulla tastiera rendendo il tutto un delirio cacofonico impressionante nella sua demenziale casualità; non prova nemmeno a fingere di ricordarsi il testo, si limita a emettere a pieni polmoni suoni a caso, grugniti scimmieschi, agghiaccianti belati, poi un balletto, alza le braccia al cielo, batte perfino le manine, poi ancora pugni e gomiti. Al quarto brano ho i timpani che implorano una tregua e dalla prima fila mi sposto verso il centro del locale. Incontro un’amica che non vedevo da molto tempo e le chiedo come sta. Mi risponde: “stavo molto meglio prima di sentire questo cialtrone“. Il concerto va avanti, la dinamica non cambia: parte la base, pugni alla tastiera, versi al microfono, con Martin via via sempre più febbrile e frenetico. Tra la fine di un brano e l’inizio del successivo descrive un semicerchio attorno al microfono a passetti veloci, poi schiaccia un tasto e tutto ricomincia di nuovo. Prima di iniziare il penultimo pezzo azzarda addirittura un “hey!“, che nel suo linguaggio significa certamente “grazie”. Conclude con una To live di oltre dieci minuti, accanendosi sui tasti stremati generando sul finale un allucinante, lunghissimo drone che è probabilmente il suono di quel che si ascolta all’Inferno. Un’ora esatta di performance in perenne bilico tra sublime e patetico, tra titanico e gratuito, a stagliarsi netto il profilo impassibile di uno dei più grandi catalizzatori di depravazione, decadimento e alterazione mentale di tutta la storia del rock.
I Pan Sonic, che pure hanno inciso due dischi con il compare di Rev – il non meno disturbato e deviante Alan Vega (che da anni pare occuparsi più di arte che di musica), hanno in serbo tutt’altra roba: a volumi minimi, decisamente fastidiosi ma stavolta al contrario (mi permettono di udire chiaramente tutte le cazzate che la gente dice intorno a me), srotolano una serie di rumorini microtonali, singultini da digestione laboriosa, pulsazioni da elettrocardiogramma di un novantenne, scariche elettrostatiche tipo la radio quando non prende, vrrrrrrrr frrrrrrrr di trapano del dentista e altri glup glip glop glap glep assortiti da far scendere la catena al più volenteroso degli ingegneri del suono; è tutto molto affascinante e i suoni indubbiamente ben curati e spesso anche belli, almeno per quanto l’incessante blaterare del pubblico – molto chic ma assai poco educato – mi permetta di distinguere, ma è anche roba che la coppia potrebbe tirare fuori agevolmente con la mano sinistra e gli occhi bendati, qualcosa di simile al concetto di b-side, di out-take o di cazzeggio domenicale spippettando sui marchingegni con gli amici fonici nerd, comunque qualcosa di decisamente non all’altezza di quello che vorrebbe essere un commiato ufficiale e definitivo. La portano avanti per cinquanta minuti, poi decidono che è abbastanza. Seguiranno dj-set adeguatamente raffinati. Simulazione di orgasmo.

(foto di deSna B.)