Musica è / l’amico che ti parla / quando ti senti solo

Il Darby Crash italiano, morto per noi peccatori. Buona Pasqa! Buona Pasqa a tutti, frateli e sorele!

Che cosa vuol dire musica di qualità?

(a questo punto parte istantaneamente Musica è di Eros Ramazzotti, dieci minuti di puro delirio psichedelico per un Eros mai più così coraggioso)

Quale metro di giudizio devo usare per capire se la musica è di qualità oppure no? Dico, quando un artista propone musica di qualità e quando invece propone roba non di qualità? Come posso giudicare se la musica è di qualità oppure no? Mi devo basare sulla qualità della produzione? Sulla freschezza della scrittura? Per essere di qualità la musica deve proporre per forza soluzioni sonore inedite oppure se una cosa è fatta bene lo è a prescindere dalla novità della proposta? Ed testi, devo considerare anche quelli o non importa? E se un artista inizia a vendere tanto ed ha successo smetterà automaticamente di fare musica di qualità oppure no? Un disco registrato artigianalmente con mezzi di fortuna può essere ugualmente di qualità?

Queste ed altre mille domande mi sono sorte spontanee domenica scorsa nel momento esatto in cui ho acceso la tv ed ho visto ospite a Domenica In un Franco Califano mai così simile ad una salma. Non c’è un nesso preciso tra Califano e la musica di qualità (semmai c’è un nesso preciso tra Califano e la coca di qualità, ma essendo contrario all’abuso di droga non dovrei permettermi di scriverlo), però la questione resta aperta ed io ho riflettuto a lungo per trovare una risposta e chiarire una volta per tutte a me stesso cosa è musica di qualità e cosa è musica di cui si può fare tranquillamente a meno (leggasi musica di merda). Credo che sia un dubbio comune a tanta altra gente, o forse no. Beato chi non ha mai dubbi perché vive bene.

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MATTONI issue #5: Goldie

 

L’avevamo promesso ed eccolo, Mother, il punto di non ritorno, il Grado Zero della musica elettronica, l’ultimo pezzo di musica elettronica possibile, il testamento definitivo dell’uomo nato Clifford Price poi ribattezzatosi Goldie, qualcosa di molto simile a un codice segreto senza però il relativo John Nash completamente folle da qualche parte nel mondo a disposizione per decifrarlo. In un’intervista a Simon Reynolds del 1995, con la sua consueta modestia Goldie aveva definito il suo brano-monstre Timelesscome un Rolex: perfetto nei meccanismi ma anche bellissimo da vedere“, o qualcosa del genere (non ricordo le parole precise ma il concetto era quello). Con Mother, l’uomo sposta l’asse di qualche sistema solare più avanti; magari da fuori sembra ancora un Rolex, ma di sicuro il tempo che segna non è quello di questa terra. Forse di Plutone, o di Saturno (come il titolo del CD in cui Mother è incluso). E gli ingranaggi interni non sono più frutto della chirurgica, tranquillizzante, affidabile precisione svizzera bensì di un’ipotetica session di brainstorming tra M.C. Escher, HR Giger, Stephen Hawking e Abdul Alhazred, con Philip Glass da qualche parte nella stanza a monitorare il lavoro. Comunque la si giri, il pezzo è impressionante; non soltanto in termini di durata (67 minuti), ma anche e soprattutto per la portata e la quantità di suggestioni e possibilità che contiene, riuscendo a teorizzare una fusione fino ad allora intentata (e, nonostante i numerosissimi e più o meno blasonati tentativi, tuttora ineguagliata) tra jungle, minimalismo, drum’n’bass, techno, musica concreta,  psicanalisi e musica impressionista, e rappresentando di fatto un ponte tra il mondo alto della classica contemporanea e il basso dei capannoni abbandonati, dei magazzini dismessi, dei tunnel della metropolitana in disuso farciti di sudore e anidride carbonica in eccesso e umori corporali di ogni tipo al termine del più colossale dei rave illegali di quegli anni. In tanti hanno poi provato a battere lo stesso terreno, a scandagliare simili universi; dal Trent Reznor del massimalista e debussiano The Fragile, all’Aphex Twin di Drukqs, all’orchestra siderale di “Mad” Mike Banks fino a Carl Craig & Maurizio, ognuno con la propria visione e il proprio tocco. Ma Goldie li aveva già bruciati tutti sul tempo, lui era già altrove, padrone creatore e sovrano assoluto di un universo la cui entrata era preclusa – probabilmente – a chiunque non facesse parte della sua schiera privata di fantasmi. Bisognerebbe davvero poter tornare a parlare di Mother tra qualche eone; di sicuro verrebbe voglia di suonarla, ininterrottamente e senza soluzione di continuità, dal 1998 a oggi e oltre.

Dinosaur Jr. @ Estragon (Bologna, 10/9/2009)

Piccola premessa obbligatoria: J Mascis sono i Dinosaur Jr. Quella con Lou Barlow e Murph è solo una formazione, e nemmeno la migliore. Di solito chi pensa che Dinosaur Jr = J Lou e Murph sono le stesse teste di cazzo che ritengono “banali” dischi come Where You Been o Hand It Over (il vero capolavoro misconosciuto del marchio, uno di quei dischi di cui si può solo sperare di poter arrivare a comprenderne parte della grandezza), gli stessi microcefali che liquidavano con un’alzatina di spalle le uscite a nome J Mascis + The Fog atteggiandosi a chi è ormai avvezzo a tutto e annoiato a morte, gli stessi mongoloidi che ora si spellano le mani a furia di applausi e accorrono a frotte all’obbligatoria reunion accontenta-idioti di tempi recenti. Gente, in ogni caso, che sembra faccia un vanto della propria intrinseca coglionaggine nell’insistere a non voler capire che le sole differenze tra You’re Living All Over Me e Free So Free sono il nome sulla copertina e due canzoni brutte in meno. Che Dinosaur Jr significa J Mascis, gli altri sono solo braccia intercambiabili dietro allo strumento. Per questo, il fatto che un concerto potenzialmente perfetto sia stato in parte rovinato da due gregari del cazzo che per chissà quale motivo (che non so né voglio sapere) avevano poca voglia di suonare è qualcosa che, a posteriori, è capace di toglierti il sorriso per settimane. A posteriori, perché lì sul momento l’Estragon era talmente pieno che era già tanto se riuscivi a renderti conto di stare al mondo: la collocazione dell’evento all’interno dell’usuale “Summer Festival” (dieci concerti compresi in una tessera dal costo di dieci euro) ha reso la serata decisamente appetibile anche per via del prezzo ribassato (contando che le altre date viaggiavano a una media di diciotto euro – più prevendita – a botta), e l’entrata con tessera rende anche la sola ipotesi di un controllo degli ingressi pura utopia. Il locale è stipato da far spavento, la temperatura interna è tale da far sembrare il clima su Mercurio “temperato”, farsi strada tra la calca diventa più arduo di un decimo livello di Tetris; chiunque fosse dotato di un paio di orecchie funzionanti c’era. Se anche solo tre anni fa aveste detto a J Mascis che un giorno avrebbe visto l’Estragon così pieno, probabilmente lui stesso vi avrebbe dedicato uno dei suoi inquietanti risolini da autistico, prima di andarsene affanculo altrove; sta di fatto che il più carico di tutti è proprio lui. Alza il sopracciglio, addirittura sorride, a fine concerto bofonchia perfino “grazie” in italiano agitando la manina. Ma soprattutto sgrana assoli come fossero rosari in mano a una vedova siciliana; è incontenibile, inarrestabile, fosse per lui ogni brano si trasformerebbe in una jam senza fine. Ma evidentemente Barlow e Murph non sono della stessa idea, visto che su I don’t wanna go there e Thumb smettono di suonare mentre J è ancora in estasi mistica, perso nei suoi deliri chitarristici eterni; li perdoneresti pure se solo non troncassero sul finale perfino Freak scene, il pezzo con cui da sempre Mascis chiude i suoi live. Suona come un affronto, la rivolta degli schiavi. Mentre la folla placidamente si disperde, chi a guadagnare l’uscita chi ad attardarsi davanti all’esosissimo banchetto merchandising, il pensiero nella mia testa è uno solo: ridateci Mike Johnson, per Dio.