MATTONI issue #13: ELUVIUM

 
Matthew Cooper è il punto di incontro tra i Mogwai e Ludovico Einaudi. Nei suoi dischi puoi trovare con la stessa facilità tanto le scariche di feedback grondanti malinconia dei primi quanto il minimalismo alla buona da compilation new age nel cestone dell’ipermercato del secondo. Fino a qualche anno fa nei suoi dischi Cooper si dedicava alternativamente all’uno o all’altro aspetto, nel senso che un suo disco era solo chitarra lancinante ipereffettata o solo piano melenso da sala d’attesa dal dottore, ed erano i suoi dischi migliori (nello specifico, l’etereo Talk Amongst the Trees per quel che riguarda strati su strati di chitarre distorte che generano amarezza e chiamano rimpianto, e An Accidental Memory in the Case of Death per l’Einaudi-karaoke però preso male e autenticamente dolente). Da quando ha deciso di fare entrambe le cose contemporaneamente ho perso progressivamente interesse per la sua musica sempre più tetra e svenevole come un armadio polveroso pieno di bambole di ceramica, sarà anche perché inconsciamente lo ricollego a un periodo della mia vita in cui compravo a scatola chiusa qualsiasi disco Temporary Residence, roba che a posteriori probabilmente non rifarei (mi risparmierei così una buona dose di orchiti fulminanti e prese a male assolutamente gratuite).
Quando però sono venuto a sapere che il nuovo album di Eluvium prevedeva in scaletta un’unica traccia di 50 minuti un barlume di attenzione si è riacceso in me. Impossibile anche solo pensare di comprarne una copia fisica: la prima (e unica) tiratura di 200 esemplari assemblati a mano è andata bruciata in meno di 48 ore. È in compenso possibile ascoltare Static Nocturne (questo il titolo del tour de force cooperesco) integralmente su Bandcamp ed eventualmente acquistare l’mp3 al prezzo di otto dollari, ma è una mossa che personalmente non consiglierei a meno che non sentiate il disperato bisogno di un sottofondo vagamente fastidioso mentre sbrigate le faccende di casa più monotone, tipo dare la cera alle piastrelle del cesso; ci sono in realtà circa sei-sette minuti di chitarra languida all’inizio ed altri cinque-sei di piano lacerante verso la fine che sono tra le cose migliori mai incise dall’introverso polistrumentista, il problema è che nei restanti quaranta e rotti non accade assolutamente nulla a parte un continuo e irritante sciabordio di rumore bianco, e comunque anche quel poco di (ottima) musica è sepolto da strati di feedback ondivago e scariche elettrostatiche che rendono l’insieme soltanto lontanamente intellegibile. Io il disco l’ho ascoltato sotto Natale assieme al Christmas EP di Jesu, la neve sulle strade e tutto il resto, e l’effetto nel complesso è stato pure abbastanza deprimente (nel senso buono), e magari finché continua a fare freddo e a venire buio presto Static Nocturne può pure avere un suo perché, ma per ora non ho nessuna voglia di ripetere l’esperimento e difficilmente me ne tornerà in futuro. Peccato, a mettere insieme quei dieci minuti celestiali ne usciva il pezzo più bello di Eluvium, così invece è soltanto poltiglia sfrigolante per semiautistici e lunatici solipsisti irrimediabili.

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MANCARONI: Nebelung – Mistelteinn

nebelung - mistelteinn - outside

IL DISCO
Rilasciato, bisogna dire con scarso tempismo, nel pieno dell’estate 2005, Mistelteinn è tuttora uno dei dischi più tristi che possiate mai immaginare. Ne sono autori due emeriti sconosciuti di Bonn, Stefan Otto (pelato con barba) e Thomas List (moderatamente capelluto), il primo alla voce (stentorea), entrambi alla chitarra (acustica), come prassi nitidissima e cristallina; si fanno chiamare Nebelung, che – si peritano di farci notare – significa “Novembre” in tedesco antico, tra le principali fonti di ispirazione vantano “le foreste, le foglie che cadono, la pioggia e l’inverno, il bosco, la notte“. Non ingannino tali dichiarazioni, di naïveté assoluta, né tantomeno i testi (rigorosamente in madrelingua) che vanno avanti a furia di citazioni da Nietzsche, Baudelaire e Von Hofmannsthal, o la copertina anonimizzante, con un bel tronco d’albero in primo piano e uno sfondo color verde vomito che perfino un ragazzino che smanetta a caso con una copia crakkata di Photoshop si vergognerebbe; il disco è veramente lacerante. Aiutati da una serie di ospiti ora al violoncello, ora al violino, ora al flauto, ora all’accordion (che è un modo meno plebeo per dire “fisarmonica”), i due dipanano una brevissima serie di pezzi (cinque escludendo l’intro che peraltro non è nemmeno indicato nella tracklist) assolutamente commoventi per ispirazione e rigore, dalla semplicità disarmante (pochi e ripetuti come tanti piccoli mantra gli arpeggi in ogni brano), pari almeno all’intensità delle sensazioni sprigionate. In pochi sono riusciti a dire così tanto con così poco; tra quei pochi ci sono sicuramente i Forseti del povero Andreas Ritter, a cui i Nebelung senza alcun dubbio devono ben più di un po’. Ma la sofferenza, il dolore, il senso di autentica e insanabile disperazione di cui queste poche indifese tristissime canzoni sono portatrici e generatrici è innegabilmente autentico, è reale, e fa male. Pericolosissimo accostarsi a Mistelteinn se si è anche solo lontanamente presi male; dura meno di mezz’ora, ma è di quelle mezze ore che non si dimenticano.

PERCHÈ NON STA NELLE CLASSIFICHE DI FINE ANNO
Innanzitutto è uscito in tiratura ultralimitata (la prima stampa, 500 pezzi, è andata presto esaurita; ne è seguita una seconda di 300. Copie del disco sono ora facilmente reperibili via mailorder, ma a prezzi non esattamente popolari). Poi: il genere di cui i Nebelung fanno parte, il neofolk schiettamente e fieramente europeo, è materia di cui alla critica che conta non potrebbe fregare di meno. Totalmente ignorato (quando va bene), irriso o comunque guardato spesso dall’alto in basso con un bagaglio di pregiudizi grosso quanto l’Everest, da sempre è appannaggio esclusivo di pseudonazi con gravissimi problemi comportamentali o monomaniaci totali che conoscono a menadito ogni singola uscita e ignorano beatamente tutto il resto. Salvo rarissime eccezioni il neofolk non è ancora stato “storicizzato” a dovere, e probabilmente non lo sarà mai.

PERCHÈ STA QUA DENTRO
Perché vale la pena ascoltarlo. I primi due pezzi, Heimsuchung e Abel und Kain, sono tra le cose più belle e struggenti incise negli ultimi dieci anni. E poi, tolto il respingente cantato baritonale in tedesco, le similitudini con suoni e personaggi più potabili sono più di quante siate disposti a credere. Voglio dire, le stesse cose le fa Steve Von Till con Amber Asylum ospite e tutti (giustamente) a sborrare nei pantaloni; le fanno due crucchi dissociati e restano patrimonio per soli nazistelli particolarmente introspettivi. Questo non è giusto.