Dischi stupidi: Seeking Major Tom

Se ci sia o ci faccia ormai non ha più importanza, ammesso che ne abbia mai avuta: a ottant’anni compiuti, più di due terzi dei quali spesi a intrattenere alla grande miliardi di esseri umani soprattutto via tubo catodico (ma senza disdegnare fulminee incursioni nel mondo del cinema, della musica registrata e dell’editoria), William Shatner può permettersi qualunque cosa. Anche di uscirsene con un triplo concept/cover album tra i più balzani, sconclusionati, improbabili e farneticanti di sempre per un’etichetta nota ai più come dispensatrice di metallaccio di ultim’ordine, punk orribile e rockettaccio gotico per tamarri di periferia in anni in cui portavamo ancora i calzoncini corti; Cleopatra Records era il marchio che associavo ai dischi brutti dei Christian Death, al limite a qualche ciofeca random con ragnatele e tizi truccati da puttana in copertina, comunque roba da evitare come la peste se non volevi sprecare i soldi quando i dischi ancora si compravano; oggi, non so se è più forte l’effetto nostalgia provocatomi dall’aver rivisto un logo che credevo sepolto per sempre nei recessi più inutili della mia memoria o lo sgomento di fronte a un disco che travalica di diverse galassie il concetto di so bad it’s good, disintegrando in un sol colpo intere gerarchie di abbruttimento, rimodellando di fatto nuovi standard in termini di perturbante e gratuito, e rendendo ogni possibile termine di paragone una stronzatina assolutamente normale e nemmeno divertente. Seeking Major Tom è, nei fatti, una raccolta di cover di brani spesso famosissimi riassemblati e in qualche caso riadattati (cambiando gli arrangiamenti o perfino alcune linee di testo, alla maniera degli Slayer di Undisputed Attitude) in modo da delineare una continuity che sta tutta nella testa di Shatner, una storia vera e propria con un inizio, uno svolgimento e una fine, protagonista il “maggiore Tom” del titolo, che assurge a vita propria prendendo le mosse dal pezzo di David Bowie via il seguito apocrifo di Peter Schilling e si muove nel tempo e nello spazio attraversando – in ordine sparso – U2, Steve Miller Band, Deep Purple, Elton John (Rocket Man, c’era da chiedere?), Thomas Dolby, i Police (indovina? Walking on the Moon), Norman Greenbaum, i Queen, naturalmente gli Hawkwind, K.I.A. (robaccia famosa solo in Canada), The Tea Party, perfino Frank Sinatra (e non Fly Me to the Moon ma la sua versione di Lost in the Stars di Kurt Weill), Pink Floyd, Byrds, Golden Earring, Black Sabbath (Iron Man, agghiacciante) e Duran Duran (coerentemente, Planet Earth), il tutto rivisitato per l’occasione da un esagitato Shatner, convinto di stare recitando il ruolo della vita in una cornice che più camp non si potrebbe; roba che al confronto l’opera omnia di Meat Loaf diventa il demo autoprodotto di una cover band dei Discharge. Lo stuolo di ospiti poi è qualcosa di inimmaginabile, da Michael Shenker a Wayne Kramer, da Bootsy Collins a Lyle Lovett, da Peter Frampton a Dave Davies passando per Sheryl Crow e Zakk Wylde, e verrebbe da riportare per intero la lista dei guests tanto non ci si crede. L’insieme è impossibile da raccontare a parole, bisogna passarci in mezzo; per meno di 24 ore l’album è stato in streaming integrale su Soundcloud ma ora la pagina sembra sia stata rimossa o qualcosa del genere. L’edizione in doppio CD sta a quattordici dollari su Amazon americano e potrebbe essere il miglior regalo che decidiate di farvi così come una valida alternativa alla lobotomia frontale (e non è detto che i due concetti debbano escludersi a vicenda); io, è da un paio di giorni che sto pensando a come uscirne. Non è che abbia ottenuto buoni risultati finora, anzi.

 

non credo di avere le parole per dirne.

DISCONE: Blanck Mass – s/t (Rock Action)

Benjamin John Power è metà Fuck Buttons, dei due quello non cinese. Blanck Mass è il nome sotto cui ha raccolto una serie di pezzi prodotti ed eseguiti in solitudine a casa sua tra l’estate e l’inverno scorsi, per citare le parole dell’autore una raccolta di brani vagamente incentrati sul tema dell’ipossia cerebrale e la splendida complessità del mondo della natura. Una gran puttanata new age per ipocondriaci? Bedroom-pop da cameretta dei più beceri e improponibili? Col cazzo: un disco che è un capolavoro straordinario di trascendenza e celebrazione dell’estasi, frontale e spirituale come negli ultimi anni soltanto Stigmata di Martin Rev, vibrante come la vita nei momenti importanti, immaginifico come il miglior trip da LSD ma più potente, viscerale come un pianto che nasce e cresce dalle più intime profondità dello stomaco. Un monumento all’analogico mastodontico, dirompente, una cattedrale la cui imponenza spaventa, ipnotizza e attrae come magneti. Nessuna meraviglia che il disco esca per l’etichetta dei Mogwai, del resto la materia è la stessa delle loro cose migliori: sangue, budella, lacrime, il groppo in gola che sale inesorabile. Il cuore oltre ogni ostacolo. In più c’è la visione, il misticismo totale, lo sguardo ascendente, jodorowskiano. Una droga.

una per Keith Caputo che sta cambiando sesso.

Keith Caputo 2011

 

 

I Life Of Agony erano un luogo della mente dove mi rifugiavo ogni volta che stavo male e sapevo e sentivo che nell’immediato futuro sarebbe andata ancora peggio. Non so cosa avesse fatto scattare l’empatia (il fatto che condividessero il batterista con i Type O Negative probabilmente ha aiutato), ma quei quattro italiani bruttissimi capitanati da uno gnomo che assomigliava tanto a un galoppino mafioso preso male erano entrati nella mia vita come una coltellata nella pancia, e non ne sarebbero mai più usciti. Musicalmente erano un incrocio tra hardcore, metal, dark e sludge mai sentito prima né tantomeno poi; nei momenti veloci pareva di essere finiti in mezzo al pogo più violento e cattivo del mondo con la certezza che il soffitto sarebbe crollato da un momento all’altro, in quelli lenti era come farsi succhiare via il sangue da un’aspirapolvere mentre un rullo compressore ci sbriciolava gli ossicini. Il primo disco, River Runs Red (1993), è un concept sul suicidio; gli interludi Monday e Thursday sono registrazioni di messaggi dalla segreteria telefonica del protagonista, viene lasciato dalla ragazza e licenziato dal lavoro, in Friday – la traccia conclusiva – si ammazza. Nel mezzo alcuni tra i pezzi più dolorosi di sempre, indipendentemente da generi musicali e gusti personali di sorta; in pratica è l’esorcismo privato del bassista e paroliere Alan Robert, figlio di divorziati, il padre alcolizzato violento che gli menava. Al microfono c’è lo gnomo triste di cui sopra, Keith Caputo, un altro che quanto a infanzia disastrata non scherza manco per il cazzo (orfano a un anno, madre morta di overdose, padre mai conosciuto): la sua voce, un lamento carico di rabbia o l’urlo più triste del mondo a seconda di come consideriate il bicchiere (che comunque è sempre mezzo pieno ma di lacrime, per citare il poeta), è quel che rimane impresso più di ogni altra cosa, più ancora della musica, che è quanto di meglio il gruppo scriverà mai. Per il successivo Ugly (1995) la stesura dei testi viene divisa 70/30 tra Robert e Caputo, i tipi sì che ne hanno viste: i primi cinque pezzi in blocco sono roba da stendere un elefante. Seasons, I Regret, Lost at 22, Other Side of the River, Let’s Pretend (primo dei sei miliardi di pezzi di Caputo dedicati alla madre morta) toglierebbero la voglia di vivere anche al più arrogante fottuto pornodivo miliardario sulla faccia della Terra. Rapidi colpi di rasoio sulla carne viva come diceva Tamburini, impossibile azzardare un paragone che non implichi il concetto di soffrire gratis come cani senza alcuna speranza di riscatto. Il resto del disco non è altrettanto buono, ci sono anzi un sacco di filler orrendi (inclusa una cover al di là del bene e del male di Don’t You (Forget About Me) posta in chiusura) ma sticazzi, i Life Of Agony la loro storia l’hanno già scritta, marchiata a fuoco per sempre nei cuori dei deboli e degli umiliati. Soul Searching Sun (1997) è UNA MERDA. Spazzatura alternative rock (erano gli ani novanta, questa definizione aveva un senso) da far vergognare la più infima delle band da classifica generalista di allora e di sempre, un susseguirsi inesorabile di pezzi insulsi il cui vuoto pneumatico emerge in maniera anche perturbante; l’ansia di non avere un cazzo da dire. Unici momenti da salvare Weeds (comunque una cosetta rispetto alla roba vecchia) e le bonus tracks incluse nella versione digipack (a spiccare una rendition triphopeggiante di Let’s Pretend che in piena notte con un cannone gargantuesco è la morte sua). Nel mezzo del tour però Caputo lascia adducendo scuse, e il gruppo momentaneamente si sfalda; dovevano venire anche a Bologna, al Covo, a fine ottobre ’97, un trauma dell’abbandono che non ho mai superato. Rientrano in pista l’anno dopo con il sostituto più improbabile che si potesse immaginare: l’abbronzato Whitfield Crane dei relitti “divertenti” Ugly Kid Joe. Tempo un paio di tour e fortunatamente capiscono che non è cosa. Nel frattempo esce la raccolta di demo e B-sides 1989-1999, che contiene probabilmente il pezzo migliore mai scritto dai Life Of Agony, Coffee Break: cercate di procurarvelo a ogni costo, fosse anche l’unico loro brano che ascolterete mai. (Continua a leggere)

L’apoteosi.

 

La gente non ricordava più l’età d’oro
del XX° secolo.
Non ne ricordava la prodigiosa tecnologia
nè le spaventose guerre.
Non ricordava più quando i Jugger
avevano fatto la prima partita al “GIOCO”
nè per quale motivo si giocasse
con un teschio di cane…

 
Giochi di Morte (in originale Salute of the Jugger o, per l’appunto, The Blood of Heroes) è I Cancelli del Cielo della fantascienza postatomica: scritto da David Webb Peoples nel momento di massima fama post-successo tardivo di Blade Runner (un flop al botteghino, sbancò nel mercato delle videocassette diventando in breve tempo il film più noleggiato di sempre), massacrato da una lavorazione travagliatissima (almeno sei anni dall’inizio della pre-produzione) e più volte rimontato, non si sa ad oggi quante versioni del film esistano né tantomeno quale sia (se ci sia) il director’s cut. L’unico dato certo è che la versione americana è più corta di almeno dieci minuti rispetto al cut europeo (un’ora e ventisei contro un’ora e trentacinque circa), anche se l’arrivo del formato DVD ha spalancato nuovi e inquietanti interrogativi (è spuntata fuori una fantomatica versione giapponese di 104 minuti) destinati con ogni probabilità a rimanere insoluti, per due ragioni principalmente: primo, Giochi di Morte è stato un tale fiasco sotto il profilo economico (costato dieci milioni di dollari australiani, ne ha tirati su poco più di 188.000) da rendere improbabile qualsiasi ipotesi di recupero filologico a posteriori come è stato invece, ad esempio, per Demoniaca di Richard Stanley (altro film maledetto per quanto decisamente più famoso), e secondo, dell’esistenza di Giochi di Morte pensavo di essere rimasto il solo essere vivente sulla faccia della terra ad averne conservato memoria.
Mi sbagliavo.
A ricordarsene  sono anche Justin Broadrick, Bill Laswell, Enduser e Dr. Israel, rispettivamente chitarrista, bassista, beat-maker e MC in The Blood of Heroes, progetto che prende le mosse da quel che probabilmente resta il migliore postatomico dopo Mad Max. L’album omonimo è uscito la primavera scorsa, e per chi ha passato l’infanzia a perdersi tra le pareti del videonolo e l’adolescenza in capannoni e centri sociali balordi a spaccarsi le orecchie con tutte le declinazioni possibili della drum’n’bass più marcia un disco come questo ha il sapore del regalo. Ma a parte la questione privata (capire di non essere il solo ad aver lasciato un pezzo di cuore nelle spire magnetiche di VHS dimenticate da Dio è qualcosa di prezioso di questi tempi) c’è proprio il fatto che The Blood of Heroes è un disco della madonna anche qui e ora, anche senza bisogno di tirare in ballo nostalgie e vissuto personali; è come dovrebbe suonare un disco sempre, unico, inafferrabile, misterioso, vivo e pulsante, portatore e generatore di autentica passione e stimolante ulteriori e infiniti percorsi. Un disco che ti lascia con il desiderio irrefrenabile di sviscerare ogni piega di un suono che incorpora jungle, elettronica, metal, industrial e hip-hop illbient di quello peso (giusto per dire le prime cose che richiama alla mente), di ripassare tutta (e dico TUTTA) l’epopea dei Godflesh con interminabili annessi e connessi, quindi via con gli Scorn e l’Earache degli anni belli, e i diecimila progetti di Laswell che sono un vortice da cui diventa difficile uscire, e tutta la roba dark e imparanoiata inglese di cui parla Simon Reynolds nei capitoli di Energy Flash post-rave di Castlemorton, e poi Goldie e tutto il catalogo Metalheadz, e DJ Olive, e DJ Spooky, e The Horrorist, e Isolationism, e chissà quanto altro mi sono dimenticato o non ho ancora ascoltato e ascolterò anche grazie a questo disco che è tra le cose più belle e formative e importanti che possano capitare se non siete sordi. A impressionare più di tutto il fatto che The Blood of Heroes arrivi dalla testa di gente con decenni di carriera e centinaia di uscite alle spalle (Laswell e Broadrick, nello specifico), comunque ancora in grado di partorire un disco che sembra inciso dopodomani. Che gli dèi li conservino.

Solomon Burke 1940 – 2010

 

Se ne va uno dei pilastri più imponenti (non solo in senso fisico) di negritudine alla vecchia in quasi tutte le sue incarnazioni, dal gospel al funk, dal blues al soul fino al rock’n’roll e perfino al country (numerose le sue cover di classici del genere, che invariabilmente dopo il Burke-trattamento diventavano roba da schiavo nelle piantagioni di cotone). Nella sua voce pastosa e potentissima convivevano slancio verso il Divino e pulsioni che più brutalmente terrene non si potrebbe, come due facce dell’identica medaglia. Grande amante di Cristo, del buon cibo e della figa, lascia una ventina di figli e altrettanti album nei quali ha esplorato buona parte dello scibile musicale negro e non; ma era dal vivo – dove a stento si muoveva dal trono di volta in volta posizionato in mezzo al palco – che “The King” sprigionava fino in fondo il suo devastante, ipnotico carisma, nel corso di esibizioni fluviali a base di completini sgargianti ed ettolitri di sudore mandate in orbita dalla sua ugola baciata da Dio. Ed è adempiendo la sua missione che è morto, nella hall di un aeroporto olandese; avrebbe dovuto suonare il 12 ottobre ad Amsterdam assieme ai De Dijk con cui aveva recentemente collaborato.