Neurosis – Honor Found in Decay (Neurot/Relapse) (il pezzo serio)

Ho rimesso su Through Silver in Blood dopo un sacco di tempo, son dischi che li metti tra quelli che ti hanno svoltato di più ma chiedono ancora uno sforzo troppo intenso per imbarcarcisi a cuor leggero. Mi fa ancora lo stesso effetto, ma non so se a impressionarmi sia la musica in sé o l’idea di me che lo ascoltavo per la prima volta e ci credevo. C’è un periodo nella vita di quelli come noi (siete come me, fatevi pure il segno della croce) che i dischi dei Neurosis ce li hai dentro e li godi come un cane perché magari non hai mai sentito parlare di Steve Von Till ma tutte le mattine ti svegli guardi fuori dalla finestra e borbotti sono ancora a Saigon. La cosa brutta dei Neurosis è che ascoltare Enemy of the Sun quando usciva, ma anche solo Times of Grace o quello dopo, ti metteva talmente a disagio da pensare che venisse da una condizione umana oscura e scomodissima e talmente poco sensata e accomodante da fugare ogni dubbio sul fatto che fosse vera. Al confronto di quei dischi tutto il death metal di questa terra era roba da conigli. Stessa cosa vedere il gruppo dal vivo con le luci minacciose e l’incazzo generale e quei volumi eccetera: non so nemmeno se ci siano dei corrispondenti odierni, di sicuro non sono io a doverli trovare. I Neurosis solleticavano la ciclica rinascita di una condizione umana innata che dopo qualche anno la gente in genere supera buttandosi in esperienze ancor più totalizzanti e spaventose della continua visione di un’apocalisse imminente (il sesso monogamo e regolare, stirare i propri panni, quaranta ore lavorative la settimana, le chiavi di ricerca del proprio statcounter, il club del libro il giovedì sera, il corso da sommelier, i moduli per le tasse eccetera) lasciando perlopiù la frequentazione del lato più oscuro e viziato della psiche umana al facile compitino di ascoltarsi il nuovo disco dei Neurosis un paio di volte ogni dieci anni, cioè una volta ogni disco nuovo, berciando assieme ai pochi che (ci) danno ancora ascolto di esperienza totale, musica trascendente e tutte quelle cazzate da adolescenti.

La triste verità è che in questo continuo rimettersi in marcia del meccanismo ad ogni nuovo disco dei Neurosis, ci sono un sacco di vincitori. Le nuove generazioni di ascoltatori hanno ancora uno specchio credibile per le loro ansie, le etichette discografiche continuano a vendere angosce sotto forma di (sempre meno) dischi e viceversa, i concerti continuano ad essere rituali esoterici di violenza pura e le riviste continuano a piazzare in pagina foto dei Neurosis (sempre più obesi peraltro) su sfondi corvini e nebbiosi piazzando sottotitoli a tema. Gli unici perdenti sono (1) i fan di lunga data e (2) i Neurosis. I primi, noi, ci approssimiamo al disco con il solito misto tra paura, pregiudizio e cieca fede nel gruppo, sperando che sì probabilmente gli ultimi duecentomila dischi di post-hardcore copiati dai Neurosis ci hanno fatto tutti cagare in blocco compresi quelli a nome di singoli membri del gruppo ma LORO NO, loro sono una cosa più alta perfetta e inattaccabile e usciranno vincitori da questo dolorosissimo processo d’autoanalisi. I secondi, i sei membri del gruppo o quanti sono, si ritrovano relegati da almeno dieci anni (il disco con Jarboe, The Eye of Every Storm, Given To The Rising) nella spiacevole condizione di dover accontentare un pubblico incontentabile e facilissimo da accontentare allo stesso tempo, e che (qualunque sia il giudizio di ognuno di noi sui dischi dal 2000 in poi) chiede un’esperienza invece che un disco di musica o quantomeno qualcosa che solletichi i nervi pur se suonato da gente con venticinque anni di musica sulla groppa.

E insomma sì, anche a questo giro uno s’approccia al nuovo disco dei Neurosis ponendosi le domande chiave A se sia un buon disco in sé, B se sia un buon disco considerato l’andazzo degli ultimi dischi dei Neurosis e C se sia un buon disco rispetto alla media dei dischi alla Neurosis usciti tra Given to the Rising e questo album. E se anche questo Honor Found in Decay sembra avere un paio di momenti meno lucidi del solito si potrebbe persino arrivare a rispondere sì in tutti e tre i casi, ma questa cosa non ci dovrebbe né stupire né distogliere dall’idea che nel caso concreto dei Neurosis le domande A, B e C sono domande stupide. Quindi alla fine l’ultimo disco dei Neurosis è il disco di un gruppo che ha bisogno di portare avanti una visione che non è più sua -anche se appartiene di tutto diritto ai loro fan dell’ultima ora e ai giovani gruppi che li copiano perché non han trovato di meglio da copiare, essendo tutto sommato i Neurosis dei gran fighi. Ed è il disco di una sigla che (almeno in parte) continua a fare dischi per continuare a dar lustro a progetti alternativi di respiro molto più ampio e vitale (su tutti lo Scott Kelly dei due dischi solisti). E suona come il disco di sei persone che se potessero scegliere la musica da suonare avrebbero fatto un disco totalmente diverso e per niente metal (lo testimonia abbastanza eloquentemente il fatto che il gruppo marcia con molta più tranquillità nelle parti più rilassate). Non potrei dire che questa cosa mi sorprende, ma capisco comunque sia il gruppo che coloro che anche a questo giro preferiranno continuare a parlare di condizione umana precaria, apocalisse sonora e (peggio ancora) evoluzione continua negando sia l’evidenza che il sacrosanto diritto dei Neurosis a rincoglionirsi con l’età.

Gruppi con nomi stupidi “the Christmas edition”: SKITLIV

 

Il disco delle feste 2010 (ma anche del 2009, e del 2011, e del 2012, e se il mondo non sarà andato a puttane del 2013, e… insomma, avete capito) è stato senza dubbio Skandinavisk Misantropi di Skitliv. Skitliv (che significa “vita di merda” in norvegese) è il progetto principale di Maniac; per chi ha avuto un’adolescenza normale, Maniac è stato il cantante dei MayheM (sai, quei norvegesi matti che si ammazzavano tra di loro) dal 1986 al 1988 e dal 1995 al 2004. Pare sia stato cacciato dalla band perché costantemente ubriaco o strafatto di medicinali che avrebbero dovuto fargli passare la voglia di bere (al suo posto è rientrato il temibile ungherese tossico Attila Csihar, già negli psicotropi Plasma Pool, cantante per caso su De Mysteriis D.O.M. Sathanas poi sfruttatissimo dai Sunn O))) ogni volta che sentono il bisogno di vocals maligne) . Il vero nome di Maniac è Sven Erik Kristiansen; vive a Oslo, ha due figli, il corpo disseminato di tatuaggi più o meno da ergastolano e somiglia vagamente a Marco Materazzi. Soprattutto, canta in un modo assolutamente spaventoso, malsano e profondamente perturbante, impossibile da replicare quanto da raccontare; ci si è avvicinato più degli altri Malfeitor Fabban quando nella recensione di Wolf’s Lair Abyss scrisse che la voce di Maniac sembra provenire da un essere deforme incapace di aprire la bocca per bene (le parole precise non le ricordo ma il concetto era questo). Da quelle corde vocali indistruttibili prendono forma i latrati più raccapriccianti che mente umana possa concepire; dopo il trattamento-Maniac, ogni frase diventa un incubo senza fine, ogni periodo la strofa di una poesia in una lingua sconosciuta il cui suono delle parole basta a fare impazzire di terrore.
Insieme al problematico (Niklas) Kvarforth degli Shining svedesi (quelli depressi, non i segaioli jazz) ha dato vita a Skitliv poco dopo la cacciata dai MayheM (la line-up comprende anche tale Ingvar alla seconda chitarra, Tore Moren al basso e una serie già piuttosto lunga di batteristi avvicendatisi in puro Spinal Tap style). Skitliv è la proiezione del marcio universo interiore dell’artista, della sua squilibrata visione del mondo e delle cose del mondo; musicalmente si articola in un black doom metal strisciante, affilato e implacabile, indolente come un pluriergastolano la domenica pomeriggio e gradevole come un appestato che viene a bussare alla tua porta alle quattro del mattino. Ma la componente in assoluto più straniante è costituita dai testi, spesso chilometrici, in cui l’autore si mette a nudo con una brutalità e una totale mancanza di sovrastrutture perfino imbarazzante; il fatto è che il più delle volte le liriche di pezzi dai titoli già di per se emblematici (Slow pain coming, Hollow devotion, Towards the shores of loss, ecc.) sembrano riflessioni private dal diario segreto di un liceale particolarmente problematico dopo la prima pippa con Baudelaire, un devastante incrocio tra inettitudine cronica e intuizioni fulminanti, atroci velleità da poeta maledetto e dolore puro, affettazione sgangherata e disagio tangibile e tagliente come lame, su tutto il riflesso di un ego ipertrofico e straripante, frenetico e sgraziato e probabilmente rimasto imprigionato in un’età mentale che si aggira intorno ai quindici-sedici anni. Veramente micidiale. Forse soltanto i deliri poliglotti dei Worship del terminale Last Tape Before Doomsday sono riusciti a evocare parte degli stessi scenari (tanto per capire di cosa stiamo parlando, poi il gruppo – perlomeno la prima formazione – cessò di esistere dal momento in cui il cantante-batterista-compositore principale Max Varnier si suicidò lanciandosi da un ponte). Skandinavisk Misantropi è il disco che risveglia il peggiore lato oscuro dentro ognuno di noi, ricordi di emozioni che il subconscio si affanna quotidianamente a sotterrare. Pochi dischi, in questo senso, sanno essere altrettanto molesti. Dal 2009 in poi (anno di uscita di Skandinavisk Misantropi), probabilmente nessuno.
Messe di ospiti più o meno ininfluenti alla riuscita del tutto; tra gli altri un catacombale Gaahl, l’amico Attila Csihar e un esagitato David Tibet che declama stronzate nell’intro di Towards the shores of loss.