L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 23-29 maggio 2011

no more Happy Mondays...

Inizio settimana nel segno del bong ribollente dei trip senza ritorno e delle tante tante belle pastiglie colorate che si sa dove si comincia ma non dove e quando (e se) si finisce: all’XM24 in una botta sola le legnate di drone psichedelico degli irsuti Barn Owl più le bordate di shoegaze psichedelico dell’ex-Tarentel Jefre Cantu-Ledesma, aprono How Much Wood Would a Woodchuck Chuck che solo dal nome ti mandano in paranoia il cervello (dalle 22, tre/quattro euro), mentre se siete in vena di scampagnate tossiche fuori porta all’Hana-Bi suonano gratis gli Akron/Family con tanto di barbe e camicioni che manco alla Caritas (dalle 21.30).
Domani se non siete a farvi venire due coglioni così con Sufjan Stevens a Ferrara (comunque i biglietti sono esauriti) potrete comunque venire alle Scuderie a farvi trapanare i timpani dagli überricchioni Matmos più l’ubiquo John Wiese (pare ci sia anche il redivivo J. Lesser, per ogni informazione fare riferimento al suo sito ufficiale), dalle 22, dodici euro. Mercoledì se cercate un pretesto convincete per farla finita eccovi serviti: Black Heart Procession in acustico al cinema Perla (dalle 21, diciotto euro, se poi si decidessero a fare qualche altro pezzo vecchio oltre Blue Tears magari è la volta che si torna a piangere…). A MeryXM tornano i ragazzi da Gaza, bordate ultranoise a strafottere alla Barberia (flyerqui sotto), al Clandestino arriva Vincenzo Vasi con le sue basette assassine e un progetto dal nome inquietante: Molestus (gratis dalle 22.30). Giovedì gran legnate con i The Faceless in data unica al Rock Planet (più altri gruppi ugualmente ipertecnici e pestoni, dalle 20.30). Il concerto degli Happy Mondays spostato a questo venerdì è stato definitivamente CANCELLATO (si vede che l’agenda del pusher era particolarmente piena in questo periodo) quindi si può tranquillamente fare serata al Musica nelle Valli senza alcun rimpianto; sabato Assalti canta e non manda in letargo le menti al TPO (di spalla Inoki direttamente dal tavolo verde, prezzo n.p.), lo stiloso Toro Y Moy smazza la sua cosa al Sì (dieci euro, dalle 21.30) e il redivivo Tom Warrior porta i suoi arcigni e mentali Tryptikon al Rock Planet (dalle 20.30, prezzo n.p.). Domenica a martellarsi i maroni all’Estragon con gli Explosions in the Sky (dalle 21.30, diciotto euro) o all’XM24 a farsi sfracellare i timpani courtesy of Jucifer e Orange Man Theory (dalle 22, max cinque euro) l’ardua scelta.

Il juke-box del suicidio

L’altro giorno Reje mi ha scritto che era uscito il nuovo dei Canaan. È una specie di rituale: Canaan e Colloquio sono i nostri Beatles e Rolling Stones, e la data esatta di uscita del nuovo disco è un evento da segnare sul calendario. In questo, Reje è sempre stato sul pezzo molto più di me, controllando quotidianamente il sito della Eibon – unica fonte per notizie di tal genere – e guai a sgarrare, con la perseveranza e la devozione che solo chi è stato un fan maniacale può conoscere. Quando è uscito l’ultimo dei Colloquio mi ha addirittura telefonato. Io, onestamente era da un po’ che avevo mollato il colpo, anche solo per una banale questione di autoconservazione: avessi continuato a sottoporre la mia mente e il mio fisico all’ascolto reiterato di quei dischi, a quest’ora non sarei qui a scrivere ma sotto un cipresso a farmi divorare anzitempo dai vermi. La ragione è che i Canaan (e i Colloquio, e i Neronoia, che è un progetto in cui confluiscono Canaan e Colloquio, il che è come dire morte più morte) avevano (hanno) il potere di amplificare ben oltre il limite dell’umanamente tollerabile una gamma di sfumature della tristezza virtualmente inesauribile.
Chi non ha mai sentito una canzone dei Canaan finora si è perso una delle colonne sonore migliori per i momenti (o giorni, o mesi, o anni, o vita) di disperazione più nera e dolore mentale più puro, senza filtri né barriere di sorta. Il leader e compositore principale del gruppo, Mauro Berchi, è un professionista della depressione; la sonda, la misura, la abita probabilmente da sempre, l’ha analizzata e vivisezionata instancabilmente, per anni, in lunghe interviste che somigliano piuttosto a esaurienti trattati di psicanalisi, l’ha plasmata a proprio piacimento (si fa per dire) lungo canzoni e dischi che sono la voce di chi la speranza l’ha già persa da un pezzo ma che comunque, per ragioni che ignoro, non riesce a farla finita, l’ha incanalata, attraverso una serie cruciale di uscite-chiave, in una piccola etichetta discografica che è stata un autentico faro nella notte senza fine degli afflitti, i deboli e gli umiliati (ma solo quelli con gusti musicali tendenti al dark più tetro, all’ambient più opprimente e al power electronics più molesto). Dopo aver subito un disco dei Canaan anche aver vinto alla lotteria sembrerà una disgrazia insormontabile. È roba pericolosa, roba che avvelena l’anima, che entra dentro la carne come una coltellata, ed è roba a cui – vai tu a sapere per quali masochistici motivi – non riusciamo a fare a meno.
Credevo di essermi liberato dell’allucinante cappa oppressiva dei Canaan dopo The Unsaid Words, disco che stranamente sentivo ‘distante’, che non mi rispecchiava al 300% come gli altri, e allora avevo lasciato perdere, avevo cercato altrove, ero perfino arrivato a dimenticarmi della loro esistenza dopo il secondo Neronoia; per alcuni mesi sono sicuro di non avere mai, nemmeno per un istante, pensato ai Canaan. Ma è impossibile cambiare quel che siamo, ecco perché non appena Reje mi ha scritto che sul sito della Eibon erano stati caricati due samples del nuovo album dei Canaan mi ci sono precipitato, e poi ho ritirato fuori l’intera discografia e me la sono sucata tutta dall’inizio alla fine, da Blue Fire a The Unsaid Words (che peraltro mi ha dilaniato come mai prima), un tour de force assolutamente scriteriato nelle pieghe dello stare male gratis, l’ultima idea che dovrebbe venire a un essere umano anche solo parzialmente sano di mente se non come anticamera del suicidio. Il prossimo step si intitola Contro.Luce, ed è una tortura a cui non vediamo l’ora di sottoporci. Non lo consiglio soltanto perché non vorrei cadaveri sulla coscienza, però insomma, sapete cosa fare.

Rozzemilia issue #6: MAHATMA/MOTHER PROPAGANDA

(foto di Maria Ambra Silvi)

L’estate 2009, come del resto gran parte delle estati nei dieci anni precedenti, era cominciata anzitempo: già a metà maggio si crepava di caldo fin dalle prime ore del mattino, una cappa di umidità asfissiante e impenetrabile avvolgeva costantemente la città come un sudario e gli unici momenti di tregua erano – quando andava bene – quelle due-tre ore nel pieno della notte in cui, se si era particolarmente fortunati, arrivava pure ad alzarsi una lievissima brezza. Nel tentativo di tornare a respirare per un po’, scappavo al Lazzaretto ogni volta che potevo. Il Lazzaretto è stato la mia seconda casa, oltre che il migliore centro sociale che Bologna abbia mai avuto (di quelli che ho fatto in tempo a vivere perlomeno; ero troppo piccolo e troppo pavido per varcare l’ingresso dell’Isola nel Kantiere quando c’era): una vecchia casa colonica sopra un pezzo di terra che era quasi campagna, da una parte il deposito dei treni e dall’altra il verde, nessun vicino a rompere il cazzo per i volumi, concerti e dj-set quasi tutte le sere, prezzi bassissimi, orari indefiniti, clima temperato e la compagnia di persone con gli stessi interessi. È stato lì che ho visto per la prima volta all’opera i Mahatma. La cornice era una maratona di otto ore di concerti – prevalentemente crust-hardcore – organizzata i primi di giugno come costola del Festival delle Culture Antifasciste, che si teneva in un posto dove invece di problemi con il vicinato ce n’erano eccome: a mezzanotte bisognava chiudere e quindi la serata si spostava al Lazzaretto. Dopo una serie di gruppi grind tutti identici, intorno alle 5 di mattina hanno cominciato a suonare i Mahatma; la formazione era il classico power-trio chitarra basso batteria con un paio di pedali a supporto per rendere il suono (ancora più) crasso e pastoso come un tocco di hashish quando ti si sfalda tra le dita. Esteticamente sembravano una frangia ribelle di hippie appena scappati dalla comune dopo aver sgozzato tutti gli altri: altissimi e dinoccolati, macilenti come una scultura di Giacometti, calzoni sdruciti, magliette sformate che neanche l’esercito della salvezza, capelli lunghi a coprire il viso. Non ci voleva un genio per capire che la musica sarebbe stata diversa, molto diversa, dal precedente bailamme antagonista ipercinetico. E infatti bastarono un paio di riff in cadenzata successione per catapultare la mente in un universo parallelo deformato e deformante, popolato da visioni spettrali, lo stesso luogo che nei decenni precedenti è stato zona franca di spericolati corrieri tossici delle più svariate origini ed estrazioni, unico comune denominatore la propensione naturale all’esplorazione delle zone più oscure del subconscio, preferibilmente con i sensi alterati da dosi robuste di sostanze psicotrope: dai Black Sabbath ai Blue Cheer, dai Saint Vitus agli Electric Wizard fino alle cavalcate stupefacenti (in senso chimico) degli Hawkwind e le risacche acide dei primi Monster Magnet, tutta roba che convergeva nelle micidiali jam semi-improvvisate dei Mahatma, ognuna un diverso microcosmo maligno a sé bastante, sulfureo come una vecchia cava siciliana e spaventoso come una corsa a perdifiato nel buio. Non ero drogato quella notte, ma già dopo il primo pezzo mi sentivo come se avessi tirato a più non posso per ore e ore da un chillum grosso e grasso come una bottiglia di minerale. Trattandosi di un trio di doom rock interamente strumentale la prima associazione mentale a scattare è stata quella – assai prevedibile – con i Misantropus, grandissimo e misconosciuto trio di Latina autore di un paio di splendidi album pubblicati tra il 2000 e il 2002 e tirati esclusivamente in vinile; ma rispetto a loro i Mahatma inglobavano nel loro suono una componente lisergica autenticamente minacciosa e insidiosamente inquietante, pur conservando al tempo stesso una condivisa propensione alla concisione e al controllo. Il risultato, ipnotico e destabilizzante, era una serie di brani (relativamente) brevi e totalmente privi di sbracate divagazioni ad minchiam (che restano il rischio maggiore di qualsiasi musica anche solo vagamente improvvisata), un blocco di suono compatto, magnetico, atemporale.
All’uscita il sole era già alto; intercettando il gruppo per i doverosi complimenti sono venuto a sapere che quello era stato il loro secondo concerto in assoluto (o qualcosa del genere). Da allora non li ho più visti suonare; ogni tanto incontravo casualmente il bassista o il batterista da qualche parte in giro (o l’uno o l’altro, raramente tutti e due insieme), soprattutto all’Atlantide o all’XM24, spesso a orari disumani. Ho poi imparato che il chitarrista Eugenio si è trasferito a Roma, il bassista Tommy è passato alla chitarra e insieme col batterista Carlo hanno proseguito cambiando il moniker in Mother Propaganda. In questa veste li ho sentiti venerdì scorso all’XM24, in una situazione praticamente speculare alla precedente: festival lunghissimo e inizio del loro set intorno alle 5 del mattino. Nemmeno stavolta ero drogato, però non mangiavo da circa 24 ore e i visuals allucinanti (un mix di scenari ultrapsichedelici in computer grafica alternati a scene da Il mostro è in tavola barone Frankenstein) facevano il resto; la musica non è cambiata rispetto ai Mahatma, sempre lo stesso trip velenoso e deragliante e allucinatorio ma la cura nei suoni è maggiore e i pezzi più incarogniti e il groove mentale e assassino assolutamente impressionante. Una macchina da guerra, Tommy con il suo arsenale di pedali (alcuni dei quali autocostruiti) e Carlo che sente ogni colpo sulle pelli come fosse l’ultima cosa da fare prima dell’apocalisse. Come Mahatma hanno inciso due CD-R (l’omonimo e Gilgamesh, entrambi in free download sul loro myspace) ma per ora il vero viaggio è live; con qualche altro concerto all’attivo e un ingegnere del suono coi coglioni potrebbero far piangere parte del catalogo Southern Lord. In ogni caso, musica che farebbe diventare tossico anche Ian MacKaye. Una benedizione.