La chiusura dei manicomi in Italia per effetto della legge Basaglia fu un grave errore; sarebbe stato molto meglio aprirli al pubblico come scuole di vita.
(Valerio zecchini)
Francobeat non è Sparklehorse ma il disco ha comunque un suo senso, che va ben oltre l’exploitation o il saggio di fine anno di “Titicut Follies” (o entrambe le cose). fanciullesco, sghembo, laterale. qualcosa di molto simile ai dischi dei Kids of Widney High (per quel che mi riguarda, il precedente verso cui l’associazione mentale scatta spontanea – il primo disco è uscito su Ipecac quando compravo/ascoltavo a prescindere qualsiasi cosa buttasse fuori) ma più obliquo, meno conciliante. stessa metodologia di lavoro, stesso inevitabile senso di spaesamento innescato, stesso sguardo compassionevole senza pietismi, stesso quadro disperatamente umano che restituisce. La vera guerra non si fa con le armi, si fa con il cuore, per questo i ragazzi sono sempre in trincea.
Ogni disco di Edda lo ascolto una volta sola, dall’inizio alla fine in un’unica tirata, poi non lo riprendo più. Si incastra da qualche parte nell’ipotalamo, in un punto imprecisato tra il sonno e la termoregolazione, e lì resta. Quell’unico ascolto me lo faccio bastare per il resto della vita. Un’eredità impegnativa: il ricordo di una parola, una frase, il modo in cui la dice e l’intonazione con cui viene detta, torna fuori a tormentarmi nei momenti più impensabili, come se mi fosse appena esploso in faccia, ogni volta la prima volta; non smette di sgretolarmi, di disorientarmi riattivando sinapsi di cui il più delle volte nemmeno sospettavo l’esistenza, non ha mai smesso, mai smetterà. Un grimaldello lanciato nei buchi neri più insondabili della memoria, dove ristagnano incubi incancellabili, derive impegnative (spesso ingestibili) e pessime vibrazioni in genere. La potenza di fuoco inalterata – sempre nell’ordine di trilioni di megatoni o giù di lì. I Ritmo Tribale li ascoltavo da ragazzino, senza particolare trasporto; esistevano, questo è quanto. Ricordo Mantra, i passaggi su Videomusic tra tanta altra roba italiana con le chitarre distorte, una cover di Standing in the rain che lasciava il tempo esattamente come l’aveva trovato, Psycorsonica tra i dischi dell’anno nelle playlist individuali dei collaboratori di Metal Shock (Alessandro Verdelli, chissà che fine ha fatto), poi spariti dal tracciato e via. Non mi aveva detto molto Semper Biot, nato e sviluppatosi sulla scorta di premesse a me fondamentalmente aliene, onde che non ho mai attraversato se non di striscio, da osservatore, con stupore analfabeta e occhi ingenui di bimbo: storie abissalmente distanti, mai vissute, un precipitato verso cui sarebbe stato profondamente ingiusto, perfino disonesto, per me sviluppare empatia. Odio I Vivi in compenso mi ha disintegrato. Annientato. In un periodo della mia vita in cui letteralmente non sapevo se né in quali condizioni sarei arrivato a vedere sorgere il sole il mattino dopo, probabilmente lo spigolo più acuminato contro cui andare a sbattere. Le rivelazioni le trova chi le vuole trovare, la predisposizione è necessaria, molto più e molto prima della rivelazione in quanto tale: in questo senso, Odio I Vivi è stato per me l’incontro più lacerante nel momento più sbagliato. Tutto, ogni giro di chitarra, ogni lamento, ogni piega della voce, fino alla più disastrata delle inflessioni, mi urlava in faccia la stessa cosa: memento mori.
L’abisso non era mai stato così vicino.
Per mesi non ho ascoltato altro, intendo letteralmentenient’altro. Il che significa, nella pratica, niente musica. Bastava il ricordo, cristallizzato e immutabile; era più che abbastanza, lo è ancora. Non credo ne riascolterò mai più una singola nota. Solo ripensarci mette a fuoco e amplifica particolari di ricordi ancora troppo freschi, sempre troppo vicini. Giorni che piuttosto che rivivere da capo mi sparerei in gola all’istante, che rievocare è puro masochismo, del tutto inutile peraltro: sono parte di me, nessun bisogno di promemoria, accompagnano ogni istante della mia vita da sveglio (e pure nel sonno, se ricordassi ancora quello che sogno – non succede più da anni, il che francamente è un sollievo e una gran gioia). Forse se avessi ascoltato un disco di Bing Crosby al suo posto mi avrebbe preso uguale, forse avevo semplicemente bisogno di essere salvato (o affossato, da chi o cosa stessa differenza) in un momento in cui mai altrettanto prima mi era necessario aggrapparmi a qualcosa, e invece che sul fondo di troppi bicchieri la verità la cercavo tra le pagine di un libro o tra le righe di un testo. Quale che fosse la meccanica, ha funzionato; il processo, irreversibile.
Ray Banhoff – writeandrollsociety.com
Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per cancellarlo. Fra miliardi di secoli, la sofferenza e la solitudine di mia mamma, provocate da me, esisteranno ancora. Ed io non posso rimediare. Espiare soltanto.
(Dino Buzzati, I due autisti)
Ha vinto già dal titolo Stavolta come mi ammazzerai?, hands down. Deflagra fin dalle prime parole: Tutte le volte che vedo mio padre esco di casa con la voglia di ammazzare/ e un giorno voglio anche essere Dio, tanto per mettere in chiaro l’aria che tira. Mai come ora verrebbe da dare retta a Henry Rollins: non farlo tutto in una volta, l’esplosione potrebbe fermare il traffico. E invece, in qualche modo. Il resto, tutto il resto, è sulla stessa lunghezza d’onda, lo stesso livello di intensità ben oltre l’umano, lui pansessuale come manco Genesis P. Non cambia la sostanza, né la portata della cosa, né gli effetti sul lungo periodo. Un altro viaggio al termine della notte, un altro giro nel subconscio che porta lacerazioni insanabili, un punteruolo a slabbrare altri punti nevralgici: dal generale (i vivi) al particolare (il nucleo famigliare). Penso che se una persona veramente ama, allora non fa figli, non condanna altri alla stessa pena se solo ha un minimo di decenza. Mi viene quasi da dire meglio chi ti dà la morte, di sicuro è più misericordioso di chi ti mette al mondo. E sono altre bombe in faccia per chi le sa captare; uscirne con la coscienza pulita e i nervi intatti, ben altro affare. Raccogliere i pezzi a questo punto non è più un’opzione: diventa una priorità.
Obsolescente qual sono e fui, meno che prodigo di benemerenze per/pro chicchessia, viene da rammentarmi solo di partenze onorarie dei neuroni che furono. Non c’ho cazzi, insomma. Ho finito davvero di domandarmi chi diavolo me lo faccia fare di sbavare dietro eterne mobili uscite discografiche/cinematografiche/[…]-iche: ché basta le ciance sul tempo che manca – o il più probabile eghezzi pensiero del “siamo noi che manchiamo al tempo” (o al tempio?) – e piuttosto ci si guardi in faccia, nostra o altrui, e si dica finalmente che, sì, cazzo, lasciate che ognuno si gratti l’emorroidi sue. Perché con la scusa dell’espressione, del abbiamo-dentro-tante-cose-universali-da-dirci, ci siam dimenticati anche solo di come parlare di un cazzo (non del) o delle gravidanze in/desiderate. E tuttavia no, giù tutti a sdilinquirsi di parole e ri-trovarsi tra gentechescrivedimusica e parlare, indovina, di musica. E se becchi chi, dottorante o scribente o stante cinema, toh, non si parla d’altro che di quello. A meno che, ovviamente, non sia il momento di dire “tette-froci-italiasuca-domenicacinquepappine” e cose così. Non un progetto coerente, completo, coeso, personale, radicale all’orizzonte; non uno, dico. Ché inevitabilmente anche la cosa migliore e davvero valevole (e ce ne sono, ah se ce ne sono) deve per forza autoriflettersi su di per zine, collettivi, scene, distro, promo, maldicenze e robe del genere. E’ un po’ il problema generale di guardare in faccia gente che, obiettivamente, spacca il culo, sia a risultati che a impegno, e finire poi per chiedersi perché anche questi non escono da una teoria dei sistemi che vede quattro culi e una capanna come limite massimo. Altresì detto, a che pro? La risposta io ho smesso di cercarla tra dischi, film, jpeg, libri, poesie e quel cazzo che volete voi. Mi son detto che effettivamente fermarsi a guardare il panorama ha più senso. Lo si dice sempre, dai, ma poi davvero chi si ferma mai a farlo? Questo nonostante il fatto che vivendo nell’anno domini xx (jamie) ci si debba forzatamente relazionare con l’ambiente para-networkista, con il disco che ancora non è ma già si sa (cfr. Accento Svedese qui), con le musiche che ci sfuggono tra i padiglioni auricolari e manco le ritroviamo più. Il messaggio, da parte di uno che vuole la luna di Gianni Togni, sogna di sodomizzare se stesso, pensa che l’hauntologia sia più cosa di un Mignola o di Bioshock (design spettacolare, gameplay noia), non riesce a finire l’ultimo Baronciani perché gli viene il magone, tenta di evocare Cerebus, è:
BASTA, più che Bastonate. Tabula rasa, Kaput, amabile Seppuku con le viscere in mano per eliminare additivi critici, chimica ricreativa, complessi narcisistici e scappatoie sonore. Che ognuno Non ascolti quel cazzo che gli pare, venendosi addosso. Come si diceva altrove: magari sto esagerando. Magari anche no.
Fino a domani, tra un’ora, un minuto, ora, quando si ricomincia con CM Von Hausswolff, Zona MC, Rival Schools, Parts & Labor..
Le collaborazioni di Alan Vega non è che differiscano poi tanto dai suoi dischi solisti o in coppia con Martin Rev: qualcuno gli fa le basi (in senso musicale), possibilmente sferraglianti, ripetitive, alienanti, cibernetiche e acuminate, e lui ci delira sopra cose a caso esattamente come ha sempre fatto in tutta la sua vita. È il flow a fare la differenza: non esiste voce umana al mondo capace di competere con Alan Vega e i suoi streams of consciousness irraccontabili, in cui è racchiusa tutta la paranoia e la forza e la fede e il delirio e la fame di vita del mondo. Una volta che l’hai sentito “cantare” non lo scordi più. A volte il suo flow è appannato (i dischi solisti dal ’90 al ’95 e Why Be Blue), altre volte sono le basi che non vanno (l’agghiacciante Just a Million Dreams dell’85 e il mediocrissimo progetto Revolutionary Corps of Teenage Jesus, dove però Vega era in gran forma), ma la sua visione e la potenza del suo sguardo rimangono indistruttibili e necessarie ora come quaranta anni fa, quando assieme a Martin Rev e al suo Farfisa scassato dipanava i primi farneticamenti in un sottoscala putrido infestato di artisti barboni. Sniper non si discosta (e come potrebbe?) dalle esperienze precedenti. Ai controlli questa volta c’è Marc Hurtado, metà degli inossidabili terroristi multimediali Étant Donnés (con cui Alan aveva già collaborato nel tonitruante Re-Up del ’99), che garantisce ai suoni un grado di ferocia e obliqua devianza di poco inferiori a Station, capolavoro dell’ultima fase del Vega solista che questo disco non riesce a superare. Da par suo, Alan è in flow assassino come nelle migliori occasioni, vaticinante, velenoso, febbrile, incarognito, mugghiante, ossessionato, digrignante, profetico, impossessato da demoni invisibili e portatore e generatore di allucinanti visioni e accecanti squarci di luce. Impossibile segnalare qualche brano a discapito di altri in quello che è ancora una volta un unico ininterrotto flusso di coscienza paranoide e dissennato, mi limito a dire che per ora le mie preferenze vanno all’esagitata Juke Bone Done, in cui un Alan in speaker’s corner fattanza sentenzia che “heroes are always cowboys” con la carogna addosso. C’è anche una nuova versione – la terza – di Saturn Drive, con una base che è stata usata anche dai ‘nostri’ Post Contemporary Corporation (il pezzo era Onnagata). Lydia Lunch rantola depravata e arrancante nell’ultimo pezzo, Prison Sacrifice, un raggelante numero da Lee Hazlewood & Nancy Sinatra dei sociopatici. Se già lo amavate continuerete a farlo con ulteriore convinzione, altrimenti continuerà a sembrarvi un povero mentecatto un po’ partito di cervello; anche questo fa parte del gioco.
Per ora l’album sta su Deezer, ma bisogna vedere chi ce l’ha messo e se gli autori approvano; nel frattempo fatevi sotto.