suonare.

Mentre scrivo esplode a bomba il caso Berlusconi del giorno. Il caso Berlusconi del giorno, che ogni giorno diventa un caso sempre più casuale, è che attaccato da Famiglia Cristiana ha fatto fede sull’unico appiglio cattolico rimastogli, buttando una battuta al microfono sul genere “meglio essere appassionati di belle ragazze che gay”. Così almeno si becca ancora i voti dei tre o quattro omofobi rimasti in Italia, alcuni dei quali -peraltro- nostri commentatori fissi. Tra l’altro una battuta omofoba nell’anniversario dell’omicidio di Pasolini vuol dire che ormai tra Bunga Bunga e Waka Waka non c’è più distinzione, senza contare il fatto che apprezzare le belle ragazze è la cosa più gay del secolo in corso. A noi invece piacciono TUTTE le ragazze, quasi tutti i ragazzi e pure una manciata di animali a quattro zampe. E oggi per puro principio ci faremo sodomizzare da qualcuno entro sera, tanto l’azienda a pomeriggio sta chiusa e a visitare i miei nonni morti ci sono andato ieri.

(trivia: ieri pomeriggio ho appunto accompagnato mia mamma al cimitero per la prima volta da sedici anni a questa parte. Mia madre, che quando va in giro con me si stima un sacco, ha deciso di fare come quando hai un figlio di dieci anni e gli dici di fare l’offerta per i morti, così è andata al banchetto e ha messo il mio nome su un ex-voto mettendo il nome di chi paga, cioè il mio, al posto di quello del morto. Facendola semplice ho pagato cinque euro per beccarmi una sfiga di prima classe.)

Così insomma, nell’attesa che qualche gruppo di maschi omosessuali venga a casa mia per stuprarmi in gruppo, ho saputo che giovedì prossimo Bastonate (nella persona di me e non so chi altri) curerà gli ascolti della serata più sgrattoa-rusty dell’anno, vale a dire il concerto dei Pontiak al Bronson di Ravenna (special guest Zeus!, hai mica detto caizzi). Il dj-set sarà intitolato -del tutto a caso- Red Medicine e sarà la prima puntata di un folle viaggio itinerante alla riscoperta di indierock vero e certificato ISO9001, quasi tutta roba che avete scaricato dopo averla letta su scaruffi e non ancora ascoltato perchè era uscito anche il leak del prossimo disco dei No Age, probabilmente e ironicamente inciso assieme a Bob Mould (grande icona dell’antiberlusconismo militante).

Finito il nostro compito di scopritori dell’indie ad ogni costo, rimane da prendere il coraggio a quattro mani ed ammettere che nonostante piaccia a tutte le persone sbagliate il nuovo disco dei Kylesa è davvero MOLTO figo, ha un suo senso e me lo sto risparando nel momento esatto in cui scrivo, proprio ora. Mentre ora sono tornato indietro dopo aver scritto e cancellato qualche riga e sto ascoltando il cover album dei Lemonheads. E ora una versione scrannissima di Dance in the Dark di Lady Gaga, una specie di remixone con intro italo-disco fatta per il tour, che tra poco toccherà l’Italia senza che io abbia la possibilità di esserci, e per questa cosa sto rosicando così tanto che al confronto l’invidia del giro indiesfiga nei confronti del successo di Vasco Brondi è puro mestiere.

Assieme a Pontiak mi sento almeno di consigliare domani al LegoCafe di Cesena il concerto di tale Tom Greenwood, cioè l’unico musicista di nome Greenwood che non suona nei Radiohead (bensì nei dronosi ambientosi follettosi Jackie-o-motherfucker), organizzato da Stereofonica, e un festival di musica avant giappa al museo della ceramica di Faenza che si terrà venerdì e sabato e a cui se non ho capito male parteciperà pure Kawabata Makoto. Siateci, siatelo, sapevatelo, etc. Ultima segnalazione, la puntata di Halloween di Community è un capolavoro. The Walking Dead non l’ho ancora iniziata, ma arrivano le prime voci sconfortanti. ABBASSO L’HYPE PER GLI ZOMBI, tra l’altro, o ridateci gli ultimi due capolavori di Romero al cinema. O come scriveva uno dei nostri principali fiancheggiatori giusto ieri, the walking dead lo stronco prima di vederlo, essendo un serial sottointende un messaggio di speranza per continuare le stagioni – WRONG -. Ultimissimissima, in questi tempi di disincanto postmoderno e decadenza il nostro Dio ci ha permesso di ottenere il secondo speciale Halloween a cura del collettivo Carmine e ben due nuovi post su Indie Passere. Diteci voi.

STREAMO: Bachi da Pietra – Quarzo (Wallace)

 
Parte con Pietra della Gogna, che non è Servo ma è un pezzo della madonna lo stesso, cronometrico stomp bluesy e crescendo di un lirismo e un’arroganza tipicamente metal, un incrocio tra March of the Pigs di Reznor memoria e un brano sludge a caso di uno di quei gruppi catramosi e laterali dispersi negli anni novanta della suburra americana più alienata e alienante, nomi tipo Mindrot, Luca Brasi o It Is I, nomi in ogni caso che Bruno Dorella, che è una testa metal vera, dovrebbe conoscere bene, e si chiude con l’arrancante e codeinico (nel senso del gruppo) incedere di Fine Pena, sorta di inconsapevole reboot lessicale di Insetti dei Massimo Volume virato Madrigali Magri nella narcosi e nella sonnolenza e nella nausea che trasmette. Il primo e l’ultimo sono i due pezzi migliori del disco, il cui unico vero problema sta nel fatto di venire (quasi) direttamente dopo Tarlo Terzo (nel mezzo c’è stato un live registrato con macchinari antidiluviani), ovvero il più importante radicale e brutalmente politico album italiano degli ultimi dieci anni (e di quelli prima, e di quelli dopo), un disco impossibile da replicare per chiunque, di questo devono essersene accorti i Bachi da Pietra stessi che infatti prima temporeggiano con stile (il live di cui sopra) poi la buttano sul disimpegno. Quarzo è l’album easy listening dei Bachi da Pietra. Waitsiano, verrebbe da dire, ma del Waits post-nozze con Kathleen Brennan: melodie a più ampio respiro, la voce perfino comprensibile rispetto all’inesausto biascicare dei dischi prima, arrangiamenti curati, perfino un pianoforte che spunta di tanto in tanto. Il rischio – ed è la prima volta – è che il rigore diventi maniera di rigore (che è una bella differenza), soprattutto nella parte centrale dove la tensione si respira a momenti alterni (Zuppa di Pietre, Notte delle Blatte, Pietra per Pane), cedendo spesso il terreno a un autocitazionismo rassicurante nella sua solida funzionalità che però proprio per questo appassiona un po’ meno rispetto allo stato d’assedio totale fino ad ora permanente. Comunque loro rimangono dei giganti e il rispetto, infinito, resta inalterato.

Clicca qui per ascoltare l’album.

Bruno S. – 1932-2010

L’11 agosto un attacco di cuore ha posto fine alla tribolata esistenza di Bruno Schleinstein, meglio conosciuto come Bruno S.
Figlio indesiderato di una prostituta, che lo massacra di botte fino a renderlo temporaneamente sordo in tenerissima età, Bruno trascorre l’infanzia, l’adolescenza e parte della vita adulta tra orfanotrofi (prima), manicomi (poi) e galere (durante), un percorso di vita che avrebbe suscitato l’invidia di Edward Bunker e lo sdegno di Franco Basaglia, al termine del quale si ritrova a guidare il muletto in una fabbrica di pezzi di ricambio metallici per sbarcare il lunario; alla sera e nei fine settimana gira per bar suonando e cantando le sue canzoni – in larga parte autobiografiche – con l’ausilio di fisarmonica, xilofono e una serie infinita di strumenti autocostruiti in puro Moondog style (ma senza i deliri cosmologici). Ultraquarantenne viene scoperto da Werner Herzog, in quel periodo in pieno trip lavorare con personaggi ‘estremi’ (voglio dire ancora più del solito: nel giro di un paio d’anni aveva girato, nell’ordine, un documentario sulla vita di una sordocieca, uno su un istituto per bambini gravemente handicappati, il primo film con Klaus Kinski con annessa minaccia di morte nel caso quest’ultimo decidesse di abbandonare il set, e per finire un’intervista al campione mondiale di salto con gli sci). Prevedibile reazione di fronte all’ipotesi di poter lavorare con un matto vero: lo scrittura immediatamente come protagonista nel terminale L’Enigma di Kaspar Hauser. Il film viene inserito in concorso al festival di Cannes 1974; vincendo le iniziali ritrosie da parte di Herzog, Bruno parteciperà alla premiazione (Kaspar Hauser otterrà il Grand Prix Speciale della Giuria) e conseguente circo mediatico di interviste, servizi fotografici eccetera, diventando così la riproduzione reale della parabola di John Merrick nella seconda parte di The Elephant Man: un predestinato ai bassifondi in libera uscita, giocattolo anche un po’ repellente da mostrare a milionari annoiati, turisti incuriositi e spettatori casuali in genere. Curiosamente, è pure la stessa sorte che tocca al personaggio da lui interpretato nel film, un cortocircuito che annulla definitivamente ogni residua barriera tra messa in scena e realtà: Bruno S. è Kaspar Hauser, e viceversa.
Il sodalizio con Herzog prosegue nell’ancora più radicale, negativista e spietato La Ballata di Stroszek, scritto dal regista in quattro giorni, pare, per compensare Bruno della mancata partecipazione alla rendition cinematografica di Woyzeck, allora in fase embrionale (il ruolo poi andrà a Klaus Kinski); ancora una volta Bruno interpreta sostanzialmente sé stesso, un emarginato in lotta costante contro la società infinitamente crudele da cui cerca di difendersi ogni giorno, guerra che si riconosce impari fin dal primo momento. Stroszek è il ruolo che proietta la figura di Bruno S., e quindi la sua vita, nell’olimpo dei massimi credenti bastonati dalla sorte in ogni tempo e in ogni luogo, dei Robert Neville, degli R.P. MacMurphy, degli Umberto D., di tutti quelli che riescono a trovare la forza, giorno dopo giorno, di rappresentare sempre e nient’altro che il proprio Io disperato.
Il problema con Herzog è che, non appena si rende conto di avere esaurito le motivazioni dietro un progetto, dunque sente il bisogno di correre dietro a qualcos’altro – possibilmente ancora più folle e scriteriato – ha un modo decisamente sgradevole di chiudere i rapporti: all’improvviso e in maniera irrevocabile, senza alcuna spiegazione. Convinto (chissà, magari pure a ragione; comunque non lo sapremo mai) che la partnership con Bruno avesse esaurito la sua spinta propulsiva, il volitivo bavarese molla gli ormeggi e abbandona il matto miracolato al suo destino senza pensarci due volte. Da par suo, Bruno viene lentamente dimenticato da tutti (cinefili e addetti ai lavori in primis) e torna – bisogna dire con la dignità intatta – a fare quel che sa, dove sa: riprende l’inesausto errare tra bar e baretti suonando le sue fragili canzoni piene di orrore. Col tempo guadagna anche una certa fama come pittore nel campo dell’outsider art.
È in qualche maniera un cerchio che si chiude l’ultima apparizione in video di Bruno S.: un documentario, proprio come agli inizi (Herzog infatti lo scoprì grazie al fantomatico Bruno der Schwarze, pellicola di tale Lutz Eisholz su una banda di musicisti di strada capitanata – per l’appunto – da Bruno ‘Il Nero’). Bruno S. – Estrangement Is Death racconta la vita dell’uomo dopo che le luci della ribalta hanno smesso di brillare, senza patetismi ma anche senza alcuno sconto; vedere il degrado in cui Bruno conduce la sua esistenza è un rospo difficile da mandare giù in qualunque modo la si voglia mettere.
Cercando notizie sulla sua morte mi sono imbattuto in questo articolo (il sito è in tedesco); nell’ultima foto Bruno indossa una t-shirt di J Mascis & The Fog. Mi venga un colpo se riesco a spiegare perché, ma secondo me questa cosa ha un senso.

Tanto se ribeccamo: Count Raven

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Da sempre, dire Count Raven equivale a evocare un culto sotterraneo, quasi dimenticato dai più quanto, al contrario, sempre vivo e presente nei cuori degli iniziati; di quel minuscolo fuoco ardente che fu la scena doom dei primi anni novanta i Count Raven erano la fiamma che bruciava con più convinzione nelle retrovie, lontani dagli onori giustamente tributati ai colossi Saint Vitus e Obsessed quanto dalla (comunque spesso apprezzabilissima) manovalanza di meteore quali Unhorthodox, Wretched o Year Zero. Fieramente detentori di un suono ultraclassico, immediatamente catalogabile eppure allo stesso tempo personalissimo e inimitato, riuscirono a isolare la componente più ancestrale, sulfurea e perversamente esoterica dell’heavy rock sintetizzato dai Black Sabbath nei primi cinque dischi amplificandone a dismisura l’effetto straniante e la portata angosciosa, grazie anche alla voce (dal secondo disco in poi) del leader, chitarrista e compositore unico del 99% del materiale, Dan “Fodde” Fondelius, che dell’Ozzy più sguaiato, smodato e intemperante era qualcosa come il clone maligno e spietato. Quattro album emessi tra il 1990 e il 1996 sono le pietre angolari del culto, a svettare tra essi High On Infinity (1993), che porta in sé le stimmate del capolavoro: in una spirale senza fondo di angosciose visioni e fantasie malsane, il gruppo forza la mano a una serie di suggestioni morbose dell’animo rendendole realizzabili (e realizzate), ridefinendo in toto il concetto stesso di “ossianico”. Nel 1996 l’ultimo atto Messiah of Confusion, penalizzato da una copertina francamente rivoltante (una foto virata in rosso di un teschio umano intasato di vermi e sterpaglie, accanto al titolo un’immagine di Charles Manson ripetuta tre volte in diverse tonalità), comunque efficace nel riproporre una nuova galleria degli orrori con efficacia e persuasione del tutto intatte, tra invocazioni ad allucinanti divinità addormentate e deliranti profezie da fine del mondo imminente. Poi più nulla, a seguito del tracollo di Hellhound, la storica etichetta berlinese che in quegli anni fu un vero e proprio faro catalizzatore dell’intero movimento, e di cui i Count Raven erano finiti per diventare le “teste di serie” più importanti subito dopo Saint Vitus e Obsessed. Lo stesso doom sound oscuro e irrimediabilmente “fuori dal tempo” di cui quelle band erano state portabandieta per più di un lustro quasi sparisce dalla circolazione, sorpassato a destra dallo sludge di scuola americana e a sinistra dall’allora nascente ma già virulenta scena stoner; sembra siano passati secoli. Nel 2003 la macchina torna a funzionare grazie a un’inaspettata reunion per una brevissima serie di date live. Si direbbe poco meno di un estemporaneo revival, senonchè Fondelius rientra in possesso dei master originali e, tra il 2005 e il 2006, ristampa l’intera discografia (cambiando il solo artwork di Messiah of Confusion, sostituendo l’immagine di copertina con una più canonica panoramica cimiteriale), nel frattempo totalmente scomparsa dalla circolazione; iniziano a circolare voci riguardanti un nuovo album sotto la sigla Count Raven (Fondelius aveva nel frattempo formato una nuova band, Doomsday Gouvernment, di cui fisicamente esistono giusto un paio di tracce incluse su compilation letteralmente introvabili), ma il marchio scompare di nuovo a metà 2006, e il silenzio sembra questa volta definitivo. È recente la pubblicazione per I Hate Records di Mammons War, inatteso e in un certo senso imprevisto ritorno con un lavoro di inediti, il quinto, proprio quando ricorre il ventennale della band – che ormai è un’esclusiva del solo Fondelius, unico superstite della formazione originale. Il disco è BELLO, di quella bellezza che deriva dalla ripetizione di un canovaccio la cui comprovata efficacia non teme lo scorrere del tempo; nuovamente capace di trasportare l’ascoltatore in una dimensione parallela, onirica e misticheggiante, punteggiata delle solite farneticanti divinazioni (Seven days, The poltergeist), allucinanti visioni (la sconvolgente title-track, To kill a child, che pure torna sul luogo del delitto, dove in Children’s holocaust – da High on Infinity – si parlava di “sodomizzare i propri figli“…) e sgangherate dichiarazioni d’amore a entità non si sa quanto evanescenti (Nashira, uno dei momenti più belli dell’intero album), Mammons War nel suo incedere poderoso e meravigliosamente prevedibile perpetua in sé l’incrollabile tenacia e tutta la fiera austerità dei culti minori.

Inizia oggi una nuova rubrica di Bastonate, si chiama Tanto se ribeccamo e parla di reunion strampalate, rabberciate, inattese.

Daddy’s little girl ain’t a girl no more (no, quella è un’altra)

creep

Non è che non mi faccia cagare la cover di Creep fatta da Vasco Rossi, sia chiaro. L’ho sentita alla radio l’altro ieri ed è stato davvero piuttosto terrificante -anche vista tutta la questione di contorno, gente che va, gente che viene, vuoto spirituale, revisionisti in fila indiana, gente che argomenta a favore su temi del genere “ora finalmente in italia si cagheranno i Radiohead”. Non voglio nemmeno dire che i fan di Vasco Rossi siano belle persone (anche se con molti ho avuto cene e bicchieri di birra più che decenti).
è solo che in questi giorni sta andando fortissimo un’argomentazione, cioè che in qualche modo anche solo pensare di cambiare il testo di Creep e renderlo in italiano, ammesso e non concesso che quello di Vasco Rossi sia italiano, sia una sorta di omicidio a sangue freddo di uno degli immaginari generazionali chiave degli anni novanta. E niente, mi preme solo ricordare a chi se lo sia fatto passare di mente che il testo originale di Creep è una delle cose più barbaramente stupide e insulse che il pop grosso degli anni novanta abbia prodotto al di fuori del giro Natalie Imbruglia -parla in effetti di quanto faccia schifo non essere una persona figa e farsi notare dalle ragazze fighe, e non considera l’ipotesi di cambiare vestiti, discografia o taglio di capelli invece di starsene seduti a lagnarsi. Ecco, dico solo che se esce una cover del cazzo non devi per forza sentirti stuprato a sangue. Puoi semplicemente non ascoltarla, e magario dio del cristo puoi perfino non ascoltarti l’originale. O almeno non sentirtelo dentro.

Come spin-off metto un bel cazzo di video di Negative Creep, che non avrà ‘sto testo da premio nobel ma almeno il riff spacca il culo.