Tra i principali cancri della critica musicale contemporanea ci sono quelli del quieto vivere, quelli che pensano che i dischi siano l’unica cosa importante da analizzare per capire la musica. Quelli che dicono “sì, questo si è fatto finanziare il disco dalla Nestlè però la 4 e la 6 sono carinissime”, o brutture simili. Gli anni duemila sono segnati dal sostanziale trionfo di questo genere di parere critico ed acritico allo stesso tempo, secondo il quale un musicista si può permettere qualsiasi nefandezza etica, o quantomeno che siamo disposti a perdonare qualsiasi nefandezza etica in cambio di tre pezzi che sian buoni per un dj-set. Uno dei motivi principali per cui questa cosa succede credo sia che chi scrive oggi ha letto le cose sbagliate, o si è fatta troppi amici nel giro, che abbia deciso di partecipare al banchetto o che semplicemente non abbia mai pensato valesse la pena porsi questo genere di problemi. I paradossi legati a questo approccio sono due: il primo è che concentrarsi sulla qualità della musica non ci ha dato musica di qualità superiore, il secondo è che esiste una manciata di gruppi a cui non viene più dato ascolto (musicalmente) in quanto sputtanatisi in tempi remoti*. Scavando negli archivi mentali dagli anni duemila in poi è difficile trovare gruppi che incarnano questo paradosso peggio degli Strokes. Il paragrafo sotto contiene la mia recensione di Angles, la scrissi per Vitaminic ai tempi dell’uscita del disco.
Non dev’essere facile essere Julian Casablancas, anche se un musicista medio preferirebbe senz’altro essere lui piuttosto che, non so, Agostino Tilotta. Voi ricordate quanto e come gli Strokes cambiarono il mercato del rock con il loro disco d’esordio? Partirono con un EP su Rough Trade, scatenarono una guerra tra le major per accaparrarseli, uscirono con un bellissimo album di vintage-pop e vendettero un disastro di copie. La gente iniziò a gridare al ritorno del rock’n’roll in modo talmente violento e ripetitivo che ci ritrovammo in casa dischi di Vines e Jet prima di riuscire a renderci conto che qualcosa non andava. Gli Strokes andarono incontro ad una fine molto più indegna: la gente aspettava al varco il loro secondo disco per capire che via dovesse imboccare il mondo del rock, ma la band si ostinò –forse stupidamente- a fare l’unico disco che potesse concepire invece di tentare un altro ripescaggio a caso o non realizzare nulla, cadere in disgrazia ed alimentare una di quelle leggende del rock’n’roll tipo The La’s. Quello che è sicuro invece è che gli Strokes sono destinati ad una carriera stile Pearl Jam, vale a dire perdere con ogni nuovo disco un’altra fetta di fan della prima ora senza guadagnarne nessuno dei nuovi. È un atteggiamento rispettabile e parsimonioso. Cinque anni di break, anticipazioni sparse, la voglia di tornare in studio e tutte le chiacchiere hanno dato fondo alle modeste risorse di Casablancas e generato un disco nuovo chiamato Angles che poco prima dell’uscita era già bollato come un aborto paraculo di improbabile ascendenza anni ottanta (nel senso proprio di new romantic), opinione a caso che ha infettato i circoli di chi benpensa fino a generare un passo indietro della band, che parla già di tornare in studio in fretta per fare uscire un altro disco –mentre Angles ancor oggi è in streaming integrale sul loro sito. In tutto questo, presto o tardi anche i benpensanti (e la band) prima o poi dovranno ASCOLTARE il disco, rilevare che è tutt’altro che imbarazzante ed accettare con un briciolo di onestà e malinconia che nonostante un paio di peccati veniali (l’apertura p-funk di Macchu Picchu et similia) il disco c’è. Loro sono senza dubbio un gruppo finto, costruito, terribilmente alla moda, noioso nelle uscite pubbliche, senza basi, composto da musicisti mediocri, troppo attento agli aspetti extramusicali e senza così tanta botta dal vivo, ma nel 2011 hanno ancora i pezzi. Non tutti e non sempre, magari, ma non credo di essere così stronzo se dico che la maggior parte delle sensazioni NME da tre minuti dell’ultimo decennio una Taken for a Fool o una Gratisfaction non ce l’ha nemmeno nel disco d’esordio.
Il punto fondamentale, nell’analizzare gli/the Strokes, è che questa sensazione che abbiano rotto il cazzo e insistano non si sa su quali basi a fare uscire saltuariamente un nuovo disco** si è diffusa così tanto oltre la qualità dei dischi del gruppo da rendere in qualche modo la musica di dischi come First Impressions of Earth o Angles un atto politico di per sé. La principale colpa degli Strokes è quella di non essere stati i Nirvana: il loro primo disco ha mosso così tanto le acque da creare un genere musicale a sé (fatto perlopiù di gruppi garage senza basi e senza talento) e la gente si è accorta solo un anno dopo che tutto sommato si trattava di un normalissimo (buonissimo) disco pop molto citazionista e molto fatto di canzoni. Lo riascolti oggi e ti irrita per il fatto di averlo ascoltato troppo in giro nel 2001/2002. Per i dischi successivi hanno continuato a citare e fare canzoni, non buoni quanto il primo e non brutti quanto la quasi-totalità dei dischi di qualsiasi altro gruppo con l’articolo nato sull’onda del botto di Is This It. Li hanno stroncati tutti senza pietà, stroncando implicitamente non tanto la musica degli Strokes quanto il loro aver affidato le speranze di una improbabile “rinascita” del rock’n’roll (decretato morto sulla base del fatto che era passato di moda) a un gruppo abbastanza buono da stare in piedi con le proprie gambe ma non abbastanza da tenere in piedi da solo tutto il discorso critico ad esso legato; ma sfido chiunque a sostenere che in qualche modo Casablancas e soci siano stati incoerenti o abbiano disconosciuto in qualche modo la loro musica. Il risultato è che da dopo Room On Fire ogni nuovo disco degli Strokes con le sue canzoncine vintage leggere e tutto sommato ben scritte è la dichiarazione orgogliosa di un nucleo di artisti che rivendicano il loro diritto a fare le cose nonostante il mondo abbia voltato loro le spalle. E anche l’implicita ammissione che un gruppo possa rimanere di successo anche se chiunque abbia una reputazione ne scrive sostanzialmente male. E da un’altra parte pone tutta un’altra serie di problemi etici legati alla valutazione critica di certi gruppi. Lo stesso scegliere se il gruppo sia stato eccessivamente coccolato ai tempi del primo disco o eccessivamente stroncato dal secondo disco in poi è un discorso più interessante di qualsiasi han fatto i soldi perché eran costruiti e avevano i soldi. Voglio dire, li stroncò pure la Maugeri*** nei suoi pipponi su Virgin Radio…
Sarà comunque un piacere, per tutti coloro che non si sono mai posti questo genere di problemi e continuano a sostenere la linea del costruiti e dell’hanno rotto il cazzo, sapere che dopo quattro dischi anche gli Strokes, con l’ultimo Comedown Machine****, sono arrivati al giusto e sensato appuntamento col destino, cioè il primo autentico disco orribile della loro storia. Un pasticcio di pezzi di generica ispirazione “wave” (per quanto easy listening) nati morti e senza quel briciolo di scintilla che ha più o meno sempre caratterizzato la scrittura di Casablancas, per molti versi il grande assente dell’album. Le linee vocali si avviluppano in modi per nulla avvincenti nella maggior parte dei pezzi con uno sgradevole retrogusto di storia morta e sepolta, tipo una Ibiza decaduta con vecchi ex-dj al bancone del bar che si raccontano storie di figa non interessanti e comunque avvenute vent’anni prima. Rimangono alcuni sporadici barlumi di classe pop tipo la vagamente neonindiana Chances, ma il resto è un guazzabuglio imbarazzante anche solo rispetto ad Angles. Quel che è peggio, non è la parte di ispirazione (diciamo) anni ottanta del disco a deludere di più, quanto piuttosto le rare incursioni di chitarrine plin plin alla Strokes di pezzi insipidi come All The Time, dei quali davvero nessuno si sarebbe lamentato se fossero rimasti nella penna del gruppo.
Ma anche a questo giro c’è qualcosa. Dietro l’orribile patina da disco mal-scritto e per molti versi sbagliato di Comedown Machine si riesce ad avvertire (già dal primo ascolto) un cuore grande così che batte, una sensazione esaltante da all-in che un gruppo del loro status (voglio dire, potrebbero fare un disco di poppettino lo-fi con pezzi rubati in giro e portare a casa la pelle almeno su Radio Deejay) avrebbe potuto tranquillamente lasciar fuori dalle composizioni. E invece niente. Anche a questo giro, nel suo non salire sul carro di nessuno, nel suo mettersi in gioco, nel suo stesso franare rovinosamente, il nuovo disco degli Strokes suona come uno dei più politici della contemporaneità. O quantomeno rivelatori di una nostra responsabilità come ascoltatori che continuiamo a non assumerci facendo finta di niente, o (peggio) di essere professionali e mandarli in pasto ai cani evitando, noi sì, di metterci in gioco.
*(ne conto un terzo, ed è che se scrivi un pezzo tipo l’ultimo disco dei Baustelle è bellissimo ma i testi sono odiosi offensivi e ideologicamente sospetti arriva qualcuno e ti dà pubblicamente del nazista, ma ammetto che sarebbe più un modo di togliermi dei sassolini dalle scarpe)
**detta anche Sindrome di Noel e Liam Gallagher
***piuttosto figo tra l’altro (as usual) il suo modo di pronunciare il nome del gruppo, tipo SCHWOWCKS.
**** il disco è in streaming su Pitchfork Advance.