Il più grande gruppo da quando esiste il campionatore

Questa non è una copertina
Questa non è una copertina.

È fuori Frankenstein Goes to Holocaust, ad oggi l’ultimo misfatto di Riccardo Balli. Non semplicemente un libro sulla storia del mash-up: una ricognizione alla Balli maniera dentro alle viscere del saccheggio sonoro e oltre, dalla nascita del genere più invendibile di sempre ai suoni di domani, in parallelo a varie forme di ibridazioni letterarie con relative conseguenze (più altre cose, come diceva Elvis Presley nel racconto “E hanno una band dell’altro mondo” di Stephen King).
Ho contribuito con un pezzo sui KLF. Per chi li ricorda, il titolo di questo pezzo ha un senso e un valore precisi, da cui prendere le distanze è più che insensato: del tutto inutile. Finché è durata, fino a quando hanno scelto di farla durare, innovazione e eversione hanno camminato fianco a fianco, di pari passo, con effetti indissolubili nel tempo, impossibili da replicare. Loro un equivalente elettronico dei Velvet Underground in versione ultrapotenziata: chiunque abbia ascoltato i loro dischi è poi a sua volta diventato musicista, spargendo il contagio. Con esiti identici (prototipo mai eguagliato, a fronte di miliardi di tentativi nessuno più ha saputo ricrearne parte della grandezza, ad andar bene una pallida copia) e una sostanziale differenza: Lou Reed è poi diventato Lou Reed, John Cale è ancora John Cale, mentre per Bill Drummond e Jimmy Cauty la mossa successiva ha significato autoannullamento, repentino e inderogabile, a fama planetaria raggiunta. Non esistono equivalenti ai KLF, in ogni senso; soprattutto in termini di radicalità, coerenza, fedeltà assoluta ai propri princìpi, per quanto (o forse proprio perché) incomprensibili a chiunque altro. Conta il gesto, contano i fatti (se il senso venga poi recepito, una questione irrilevante). Non importa quanto alto il prezzo da pagare. Per adesso la damnatio memoriae prosegue: silenzio stampa totale, nessuna eccezione, niente reunion, non li troveremo a tradimento nel cartellone del prossimo Primavera performing the album Chill Out in its entirety. Così vieni dimenticato, la sola via per sparire completamente. Passare all’atto è semplice, basta volerlo.
Nel libro è rimasta fuori la prima parte del mio intervento. Eccola.

È stato come spalancare di colpo un portale che si affaccia su un universo del tutto ignoto. Come fissare per la prima volta il sole. Il velo di Maya nell’esatto istante in cui si squarcia. Il momento in cui nulla sarà più come prima elevato alla N. Una volta imparato qualcosa non puoi più fingere che non esista (o meglio puoi anche, in linea teorica, ma non funziona sempre e non funziona con tutti – certo non con me); in cinque minuti scarsi erano state racchiuse troppe rivelazioni, tutte insieme, concentrate in troppo poco tempo. Il più potente degli allucinogeni iniettato direttamente nel cervello, al confronto, un vago prurito dopo una puntura di zanzara. Per assimilare la portata di quel che avevo visto e sentito, per elaborare gli strumenti concettuali necessari alla comprensione di parte del tutto (il quadro completo, quello nessuno arriverà mai a saperlo maneggiare, a parte – forse – i diretti interessati) sarebbero passati anni, letteralmente. A ogni acquisizione di nuovi elementi il mosaico diventava via via più decifrabile, comunque mai del tutto visibile. Non è ancora finita: la strada è lunga, il tragitto tutt’altro che lineare, e non so dove porta.

Esisteva un canale televisivo chiamato Videomusic, di solito (non necessariamente) corrispondeva al tasto 9 del telecomando: il portale del portale. Ogni pomeriggio mandava in onda On the air, flusso ininterrotto di videoclip presentati dalla voce piacevolmente impersonale di uno speaker che parlava sopra l’inizio e la fine di ogni blocco, introducendo il blocco successivo; lì ho intercettato per la prima volta il video di America: what time is love? a casa di un amico, finiti i compiti.
Avevo nove anni, nessun televisore in casa: la scatola magica stava dai nonni, dal cugino, dagli amici; l’effetto, su di me, qualcosa a metà tra Tutti amano l’Ipnorospo e una droga di cui non puoi sapere quando avverrà la prossima somministrazione. Questa volta era diverso, al netto dell’ipnosi: qualcosa di molto più vero del vero, è stato chiaro dal primo fotogramma. Un Natale avevo visto a dai nonni una versione de “I Miserabili” in bianco e nero che avrebbe tolto la voglia di vivere a un miracolato; tetrissima, claustrofobica, deprimente oltre ogni parametro conosciuto da un bambino di cinque anni. Il video di America mi aveva fatto rimbalzare in testa, con amarezza e virulenza centuplicate, la scena iniziale della nave, con i prigionieri in catene stipati da qualche parte sotto coperta che supplicavano di venire liberati mentre fuori dalla prigione di legno infuriava una tempesta indescrivibile. Per anni non l’ho più rivisto, bastava e avanzava il ricordo. Quando è ricapitato, molti anni dopo, ulteriore dimostrazione di quanto la mente umana possa distorcere la percezione delle cose: un delirio ma preso bene, anche se (ma questo l’avrei imparato poi) le riprese erano state effettuate a temperature polari – lo si nota dalla condensa nel fiato di quasi tutti i figuranti – con l’intero cast a bagnomaria.

Girato in un austero bianco e nero, tanto simile alle tonalità intercettate pochi mesi prima nel trailer di Europa di Lars Von Trier (responsabile di generose porzioni di sonno sottratte lungo interminabili notti trascorse a occhi sbarrati nel buio), nel video viene messa in scena una ricostruzione anfetaminica, sovreccitata, deformata, della scoperta dell’America da parte dei vikinghi, secoli prima di Cristoforo Colombo (come dice il testo, del resto: We came a long time ago/ Nine Nine Two – but you did not know): furia iconoclasta e sarcasmo in parti uguali (mastodontiche, incalcolabili), un rapper nero e un’amazzone in topless con i capezzoli coperti da due ‘X’ scotchate come nella riproduzione virtuale di un film porno visto da un citofono, flash abbaglianti da crisi epilettica, sopra ogni cosa il ghigno allucinato di uno sconvolto Glenn Hughes pre-rehab (indubbiamente il particolare più perturbante, il featuring più grottesco e inconcepibile di sempre) mentre scandisce bene le parole del ritornello, oltre a un ‘I wanna see you sweat‘ che visti i trascorsi è veicolo di cortocircuiti mentali che sanno dirsi interessanti – per chi da un punto di vista psichico già sta sull’orlo del precipizio e ha bisogno della spinta per passare allo step definitivo. Parole che allora già mi disorientavano, nonostante una conoscenza dell’inglese da quarta elementare (perché facevo la quarta elementare): What time is love? Che poi in fondo è la domanda delle domande, a saperla interpretare. Lo sentivo che c’era qualcosa che non quadrava, che la frase, messa giù com’era, non aveva alcun senso, sintatticamente parlando.

Quella notte prendere sonno è stato più difficile del solito. Non avevo mai ascoltato roba del genere, ne volevo ancora. Sarei stato presto accontentato: i KLF erano famosi, molto famosi, più o meno qualsiasi emittente radiofonica li trasmetteva quotidianamente. Ritrovare America sulle frequenze di Radio Deejay dopo pranzo una questione di giorni, di ore. A cinquecento anni da Colombo, pochi mesi prima di Ridley Scott, questo era il tributo. Privo dell’apparato iconografico, senza immagini, rimaneva il pezzo dance più divertente, violento, aggressivo e coinvolgente avessi mai sentito; la situazione non si è spostata di un millimetro da allora. L’impressione: come venire catapultato in mezzo a uno stadio stracolmo, ben oltre il limite consentito, nel pieno del rave più coinvolgente del mondo. Era il culmine dell’era aurea, l’esplosione più colossale prima dell’inizio del collasso. Il concetto di ‘rave’ era stato ampiamente assimilato e digerito dalla casalinga quanto dal pensionato quanto dal bambino; per depotenziarne gli effetti eversivi, per addomesticare la portata assestandola a livelli inoffensivi per le masse, stava rapidamente prendendo forma l’eurodance, bieco carrozzone che avrebbe tenuto banco per altri quattro anni almeno, dove in un’ipotetica scala di valori i 2 Unlimited avrebbero finito per diventare gli esponenti più illuminati.

Altro campionato: i KLF venivano da un altro pianeta, dove presto sarebbero tornati. Con la terza rilettura di What time is love? il penultimo assalto psichico prima dell’implosione. Costruita su un sample di Ace of spades dei Motorhead, America preconizza in blocco quel che sarebbe stato: tastieroni, base campionata da qualcos’altro e ricontestualizzata, rap ignorante a esprimere concetti basici (non per questo deleteri, non nel loro caso), dribblandone sul nascere qualsiasi deriva avesse anche solo minimamente a che fare con l’abbrutimento e la morte neuronale, superando il futuro sul nascere. Ciao baraccone: ecco servito il prossimo lustro senza lo schifo, per chi non ha saputo vedere ci sono i Twenty 4 Seven. Ecco perché da qualche parte ancora salta fuori I can’t stand it (nomen omen se mai locuzione abbia avuto un senso); perché What is love? è diventata una hit planetaria. Non un caso: manca la parola time nel titolo.

promesse da mantenere
promesse da mantenere

Una per i trentacinque anni di “Closer”

 

jd

Del Corvo ho letto prima il fumetto, il film l’ho visto dopo. Niente TV, poche stazioni radio, in proporzione una bella dose di informazioni inutili con cui sono stato riempito negli anni formativi viene dai fumetti. Mi piacevano i fumetti, senza distinzione. Da Dylan Dog a Tank Girl più tutto quel che stava in mezzo e oltre. La mia mente era una spugna, assorbiva tutto. Il problema era riuscire a metterci le mani una volta esaurita la paghetta, che era misera e finiva sempre troppo presto in proporzione al bisogno. A volte ho rubato, a elaborare il senso di colpa mi aiutava Kevin: se ti serve tanto una cosa e tu non hai i soldi, la puoi anche prendere in prestito. Ripensavo a quelle parole e mi passava. Il Corvo l’ho comprato. Due numeri a tremila lire – il terzo.tremila e cinque, quei bastardi – in mezzo un numero zero a duemila e stop: una spesa affrontabile. Mai nemmeno considerato l’edizione limitata, mai collezionato roba; nessuna fascinazione per l’oggetto in quanto tale, contava il contenuto, e mille lire in più o in meno per me erano soltanto mille lire in più o in meno. Mezzi per un fine, tanto per restare in argomento. È stato bello finché è durato e per molto altro tempo ancora Il Corvo. Troppo breve (ma non è sempre così per tutto?), quando è finito ci ho messo un po’ a elaborare la perdita. Avrei voluto continuasse. Quasi ogni capitolo portava il titolo di un pezzo dei Joy Division; così li ho scoperti, senza averne ascoltata una sola nota. Pochi anni più tardi, Closer mi è esploso in faccia.

È stato il primo, non sono andato in ordine cronologico. Copie bootleg orrende giravano in vinile a prezzi sostenibili, tanto bastava; una bella copertina e un vago ricordo le spinte finali per entrare nel tunnel. Mai sentito altro prima di Atrocity exhibition, il primo pezzo. Da lì il resto, combustibile per un fuoco che non ha smesso di ardere da allora. Avevo fotocopiato i testi tradotti a scuola. Senza sarebbe stata solo bella musica, strana e vagamente respingente, vagamente ostile. Altra cosa con le parole sotto gli occhi nero su bianco, condizione necessaria per dare un mio senso a quei lamenti. Entrarci, come una mano dentro un guanto nuovo, dell’esatta misura. Raramente è stato più facile, più chiaro; una verità ovvia.

Se ci arrivi presto è come se ci arrivi tardi: burocrazia, atto dovuto, comprare un vestito senza averlo provato e farselo andare bene; disfarsene senza rimpianti quando smette di fare il suo. Ma se ci arrivi al momento giusto è una rivelazione in grado di svoltare un’esistenza, di determinarla. Abitarlo per mesi o anni o una vita la logica conseguenza. Non viverla benissimo comunque, come per ogni altro classico personale, sempre in trincea: chiunque ne oltrepassi la linea di confine un invasore, la certezza che il disco parli a te soltanto, parole che nessun altro al mondo potrà comprendere mai, non allo stesso grado di intensità (semplicemente inaccettabile formulare il pensiero). Trip del genere. Rain Man al quadrato. Incidentalmente potrei dire lo stesso per una marea di altri dischi, per altri motivi, tutti validi secondo il mio sistema di valori. E come altrimenti.

Quando qualcosa è parte di te la porti dietro sempre, non importa il contesto. Continua a farmi strano vedere più di una persona in un locale dimenarsi sulle note di un loro pezzo – di solito Love will tear us apart (chissà perché sempre quella poi) – incastrato a viva forza tra una prescindibile merdata e la successiva. Lo stesso imbarazzo di seconda mano che mi assaliva per Smells like teen spirit sparata a tutta birra alle feste del liceo, decontestualizzata con violenza e brutalità paragonabili a uno stupro di gruppo moltiplicato all’infinito. Un riempipista. Quando il fastidio ha oltrepassato il livello di guardia ha coinciso con quando ho smesso di farne una questione. I dischi esistono per essere ascoltati.

Per anni non ho visto una foto di Ian Curtis. Per anni ho pensato fosse nero, nel senso di africano. Il suono della voce unito a nessun supporto visivo a confermare o smentire mi aveva portato a tracciare l’obbligatoria conclusione, a esserne convinto. Lo immaginavo bluesman deragliato, lo stato mentale che mi arrivava era quello: stare male, molto male, dentro qualche baracca gelida in nessun posto in particolare. Il resto sfumature.

Poi è arrivato il momento in cui un dettaglio del quadro generale è entrato a gamba tesa nel vissuto personale penetrando dall’esterno, mi ha invaso. All’improvviso e per sempre è diventata una questione privata; uno slittamento di piani ha dato un preciso significato, un peso specifico, una consistenza a tutti i giorni e anni precedenti vissuti nell’attesa del momento ora raggiunto, il momento del crollo. La colonna sonora più appropriata girava già dentro di me, da anni.

Closer è uscito trentacinque anni fa. Francesco me l’ha ricordato. Mai celebrato l’anniversario, sempre ignorato mese e giorno. Contrappasso definitivo, ironia suprema: dopo decenni a tenermi compagnia, miliardi di ore spese a scandagliarne ogni piega alla ricerca di nuovi elementi che rafforzassero un legame comunque fin dal giorno uno profondo più dell’oceano, del tutto ininfluente la mole di film, libri, contributi di ogni provenienza e natura sull’argomento (scansati di default o entrati da un orecchio e usciti dall’altro), a sopravvivere più a lungo nella memoria e nelle budella niente e nessuno dei suddetti, in molti sensi la nemesi assoluta. Una cover.

Le cover sono croce senza delizia il più delle volte. Con i Joy Division poi la possibilità di fallire miseramente diventa invariabile certezza – oltre che spietato indicatore del grado di assoluta incoscienza e straordinaria presunzione degli autori dello scempio – senza passare dal via, matematico. A parte un paio passabili (Nine Inch Nails, Dead souls; Codeine, Atmosphere) riconosco una sola eccezione: Transmission rifatta dai Nomeansno, in qualsiasi forma, esibizione e contesto. Mai smesso di ascoltarla, mai ascoltata troppo. La preferisco all’originale. Non saprei spiegare perché, ancora oggi per me non esiste nient’altro che anche solo le si avvicini. Un detonatore. Appena parte il giro di basso le lacrime rotolano giù (come dicevano i Tears For Fears), è incontrollabile. Mi ricordano che sono ancora vivo, non importa per quanto, non finché i fratelli Wright si sgolano ripetendo ossessivamente dance dance dance dance dance to the radio come fosse la sola cosa sensata da urlare con quanto fiato un corpo possa contenere, fino al collasso; di colpo ogni casualità acquista un senso mentre le torsioni di Ian mi rimbalzano nel cervello come un flash maligno, innescando cortocircuiti seri.