Una per i cinquanta di Mark Kozelek

 

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Arriva sempre il momento del cambio di velocità, di stile, di scena. Un dettaglio prende il sopravvento sul resto, il corso dell’esistenza slitta senza lasciare il tempo di accorgersene, fino a quando la situazione si assesta, la mutazione si arresta, e da lì in poi a posto così. Fattori esterni, quasi sempre connessi allo scorrere del tempo; inventario dei dolori, dell’attaccatura dei capelli, delle esigenze della vita. Scendere a patti, abbassare gli standard; in una parola, starci. Il più delle volte viene assimilato e digerito come un cambiamento in meglio; altre, il risultato un mix di accettazione, non potere o volere fare altrimenti, adattamento e/o resa incondizionata (variabili le percentuali). Comunque il risultato è sempre lo stesso: chi era qualcosa diventa qualcos’altro, il precedente qualcosa non tornerà mai più. Restano i ricordi in chi vuole o può ricordare.

L’incarnazione attuale di Mark Kozelek va avanti più o meno dal 2005; la deriva farsesca è affare più recente, coinvolge strettamente l’uso improprio di canali inutili, attaccare briga con nullità per motivi inesistenti e qualche pugno di clic, probabili implicazioni cliniche tenute a bada in modi che ignoro, una sfera virtuale che amplifica distorce deforma il reale in perfetta corrispondenza con i tempi che corrono. Un cerchio che comunque si chiude, da una forma di autismo a un’altra forma di autismo, cambiano il conto in banca e il battage mediatico.

Mark Kozelek nasce il 24 gennaio di cinquant’anni fa in un paese nella contea di Stark che ritornerà spesso nelle sue canzoni, come del resto qualsiasi altro luogo, persona o situazione abbia incrociato lungo la strada. A costruire il personaggio penserà fin dalle prime interviste, scostanti e imbarazzanti (per l’interlocutore) dal giorno uno, che restituiscono il totale di un James Dean in sedicesimi che resta vivo, senza patente e con la chitarra al collo: si dipinge tossico all’età di dieci anni, in contemporanea impara i rudimenti dello strumento che non abbandonerà più. A quattordici si disintossica, quel che verrà poi il risultato. A diciotto inizia a scrivere pezzi suoi, hardcore il veicolo primario; suona in giro, come piace dire; molti gruppi, poco o nulla di anche solo lontanamente rilevante. Fino al momento in cui rallenta i tempi più verso zona bradicardia, diminuisce progressivamente la distorsione fino ad assestarsi a livello Neil Diamond, a volte stacca proprio la spina. Red House Painters il nome della cosa; Down Colourful Hill, raccolta di tracce demo incise tra il 1989-90 recuperate senza editing di alcun tipo, esce su 4AD che nel 1992 più di un’etichetta era uno stato della mente. In qualche modo ha perfettamente senso si incastri tra Dead Can Dance e This Mortal Coil: l’umore è quello, l’attitudine è quella; continente, genere, formazione, questioni secondarie, comunque si resta al di là del blu oltre la soglia dentro il nero,dove qui più che altrove fa brutto vero. Il sentire comune catturato in copertine e artwork che tuttora dicono di standard mai più ripetuti, una linea comune che nessuno, mai, ha saputo anche solo sfiorare (da un certo momento in poi, nemmeno più la 4AD stessa, che comunque continua a sopravvivere).

 

I dischi successivi altre zone della mente limitrofe, variazioni su un tema che non si esaurisce mai, la dimostrazione che è più che sufficiente un giorno di vita per accumulare ricordi che un’intera esistenza non basterebbe per sviscerare, dove una gita in macchina fino a un parco di divertimenti non molto distante dalla base produce Grace cathedral park, quattro minuti in cui è racchiuso un intero universo, ed è solo il primo pezzo del primo album. Tutti i dischi dei Red House Painters sono un sacco a pelo psichico dove trovare rifugio ogni volta che ci si torna a sentire come soltanto lui ha saputo trovare il modo e le parole per dire: zitto all’angolo, paralizzato e in caduta libera. C’è un passaggio su major che incasina irrimediabilmente gli equilibri, un disco bloccato per tot anni, infine uscito a band già dissolta (Old Ramon), l’abbandono del nome per questioni burocratiche, due dischi solisti il cui materiale per l’80% sono cover, una nuova band che si chiama come un pugile coreano meno una “g” finale che aggiunge sottintesi esoterici, un primo disco agli stessi livelli dei precedenti, poi la nuova fase, che dura tuttora.

Il dischi dal 2005 in poi, in solo o come Sun Kil Moon cambia poco (spesso è solo lui comunque) massimizzano quanto distillato fino ad allora con rigore francescano. Da qui l’esatto opposto, nel segno dell’imperativo ‘minimo sforzo, massima resa’: etichetta propria, nessun filtro attivato al di là della questione alimentare, dischi su dischi su dischi, meno ispirazione più minutaggio, live registrati in presa diretta e via andare. Un loop che s’avvita e persiste, con esponenziale carogna, fino alla svolta che placa – in questo caso: consacrazione hollywoodiana definitiva per intercessione di Sorrentino, dopo qualche falsa partenza che aveva rimpinguato conto in banca e autostima solo momentaneamente (Almost Famous, Vanilla sky, Shopgirl), aumentando la carogna di conseguenza – da quelle parti si vive meglio, si incontra gente più interessante, i guadagni precedenti diventano spiccioli al confronto; annusare l’aria che tira, arrivare a credere di avercela fatta poi tornare nei bassifondi, unito a una personalità tra il passivo-aggressivo patologico e Asperger senza essere Steven Spielberg, questo il risultato.

La messe di colpi a vuoto, dissipazione, dischi sempre più improbabili e mettere in vendita la qualunque non conosce requie. Con una svolta inaspettata: per qualche imperscrutabile prodigio Benji nel 2014 riporta di prepotenza il nome sulle mappe che contano, folgorando simultaneamente sulla via di Damasco stampa di settore, vecchia guardia, ascoltatori casuali, chiunque. Parrebbe l’alba di una nuova era. Il suono si asciuga allo stesso modo in cui il brodo si allunga, i testi grandinate di parole il cui senso risiede nel grado di interesse che si è disposti a provare sentendo cazzate a raglio come dopo avere iniettato una dose massiccia di pentothal in vena a un ergastolano. La scritta sul retro di Bloody Kisses dei Type O Negative conosce un corrispettivo sonoro reale. O forse non fa più per me ma comunque non riesco a smettere di guardarlo questo film. O entrambe, o nessuna.

Poco più di di un anno dopo a ribadire, a spostare l’asse sul prossimo livello. Universal Themes la sua personale Prolisseide, con una sostanziale differenza: Kozelek non è Andrea Pazienza (e Sorrentino non è Devid Boiv). Per uno che sostanzialmente scrive quello che gli è successo, come portare per la prima volta al luna park un bambino. Mancano però il materiale umano e la testa in fiamme per saperne rendere conto. Conseguenza: l’elenco di personaggi famosi che lo hanno conosciuto è sterile, inane, interessante quanto la lista della spesa di un estraneo. Come Gassman quando declama gli ingredienti delle merendine ma credendoci sul serio. Nel complesso è fatto abbastanza bene di testa ma i particolari sono scarsi, come Jacopo Fo secondo Pazienza. Manca giusto qualcuno che lo pesti come ET a kendo.

Nel 2016 in dialogo con Justin Broadrick per dare in pasto altra inanità a chi ci crede; molti gli spunti di riflessione, tutti strettamente collegati a concetti quali tirare la carretta al fienile, Franza o Spagna purché se magna, cecità sordità ma non mutismo, alla base il rifiuto di farla finita unito alla cronica incapacità di rapportarsi con il presente (da entrambe le parti). L’amicizia angloamericana trova infine sbocco in un disco condiviso dopo anni di io registro-tu pubblichi, cover improbabili e attestati di stima si direbbe unilaterali; poco importa la dinamica, la sostanza quella resta. Globalmente l’ennesimo contributo a un quadro generale ormai da quel po’ configurato, solo un altro tassello in una storia che continua a cannibalizzare il passato bruciando il presente, a incarnare una fase di stallo che sembra durare all’infinito, cristallizzando il tempo, deformando lo spazio in un lungo rettilineo senza scosse che in un niente porta al finale di Soylent Green però dal vero.

 

Aphex Twin

 

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La prima volta che ascolti un disco di Aphex Twin non la scordi, mai. È come scoprire per la prima volta un universo. Il bello arriva dopo, quando ci si rende conto che al secondo come al trecentesimo ascolto l’intensità di quella folgorazione non cambia, il nitore accecante nello svelarsi di tali e tante epifanie non si attenua, e stupore, meraviglia, terrore, restano gli stessi di sempre.
Così è stato, per me, e così ha continuato a essere almeno fino a tutto il 1996, l’anno di Girl/Boy EP e del Richard D. James Album (per alcuni, adulti, avvezzi a tutto e annoiati a morte, allora Aphex Twin stava già alla frutta; punti di vista). Pezzo dopo pezzo, disco dopo disco, un ininterrotto susseguirsi di rivelazioni la cui portata e immensità restano semplicemente impossibili da descrivere, e così sarà sempre. Ogni nuova scoperta pura gioia per le orecchie, come per un bambino rimanere chiuso dentro una pasticceria dopo l’orario di chiusura: mistero, desiderio, eccitazione di fronte a qualcosa di proibito su cui si ha temporaneamente il pieno controllo, il tutto in quantità incalcolabile e disponibilità illimitata.
Mai ho trovato corrispettivi, nemmeno in quegli anni dove pure di roba “strana” e “altra” ne usciva perfino troppa (la Rephlex dello stesso James, l’intero catalogo Warp soltanto la punta dell’iceberg, parte infinitesima di un totale di cui ancora oggi solo una minima porzione è stata riconosciuta, catalogata e storicizzata come si conviene). Anche in un contesto mai altrettanto fervido i suoi pezzi svettavano sopra ogni cosa prendendo il volo immediatamente e senza sforzo alcuno, facendo sembrare tutto il resto ciarpame da pedonaglia in libera uscita. Un forziere che pareva inesauribile; i dischi, i pezzi, qualcosa di letteralmente inaudito, ognuno un mistero fondamentalmente destinato a rimanere tale, edificato con pazienza francescana, cura maniacale del dettaglio e conoscenza enciclopedica di ogni molla, ogni contatto, ogni ingranaggio che regola il più dimenticato, il più assurdo di strumenti analogici spesso fuori produzione, ancora più volentieri autocostruiti, in modo da poterne padroneggiare fino all’ultima delle variabili, deragliare il tragitto prestabilito e trasformarlo in qualcosa di completamente diverso come soltanto i geni o i nerd senza speranza possono arrivare a plasmare. Richard James era entrambe le categorie e molto altro ancora.

Se Baudelaire fosse stato suo contemporaneo, dopo avere ascoltato la raccolta Classics, entrambi i Selected Ambient Works o I Care Because You Do, Corrispondenze l’avrebbe scritta lo stesso, e senza conoscere le droghe. Di questo sono convinto.

E la magia pareva non finire mai: dopo le uscite “ufficiali” perdersi nella vertigine di dischi, EP, tracce su compilation dimenticate dal mondo, tutto pubblicato celandosi dietro pseudonimi irrintracciabili ai tempi, una caccia al tesoro dalla difficoltà direttamente proporzionale alla circolazione carbonara e alla quantità di informazioni lasciate trapelare al riguardo (zero, più o meno): una frammentazione consapevole del talento che conosce pochissimi precedenti (Prince, ATOM) e nessun successore. In tutti i casi, fatiche destinate a venire ampiamente ripagate. Sopra ogni cosa Surfing On Sine Waves, a nome Polygon Window, tra i dischi techno più impressionanti mai ascoltati, un’interzona dove Detroit si incrocia a un universo parallelo trasfigurato e maligno, la raccolta Compilation a nome Caustic Window, dove è il lato malvagio e perverso della sua personalità proteiforme a emergere, materiale di gran lunga più schizzato, inafferrabile e clamorosamente fuori asse rispetto alla grandiosità degli affreschi autografi, comunque sempre animato da furia iconoclasta al tempo stesso lucidissima e in pieno controllo della visione d’insieme. Un samurai.

La prima battuta d’arresto nel 1997: Come to Daddy, stanca ripetizione virata metallaccio di quarta categoria di cascami già abbondantemente sviscerati nell’insuperato (da chiunque) Richard D. James Album, il resto del disco una minestrina riscaldata, tempi spezzati, drill’n’bass fuori tempo massimo, su tutto un atteggiamento altezzoso da occhiatina nei bassifondi francamente inopportuno e sostanzialmente indigesto. La superstar era Chris Cunningham, per i videoclip quel che Orson Welles è stato per il cinema; grazie a lui Richard James è diventato Richard James per milioni di persone. Nel 1999 il colpo d’ala: Windowlicker, un’araba fenice, più impalpabile, radicale e definitivo della somma dei già sovrumani precedenti.

Poi il crollo, irreversibile. Intrappolato in un contratto-capestro con la Warp (ma questo verrà reso noto anni più tardi), reagisce da par suo spezzando a più riprese un silenzio stampa dalla seconda metà degli anni novanta fattosi quasi monastico rilasciando dichiarazioni sprezzanti a tutto campo, dove soprattutto ribadiva a più riprese di non sentire più alcuna esigenza di pubblicare quello che registrava, nessuna voglia di buttare fuori roba nuova, al tempo stesso lasciava intuire di stare continuando a produrre quanto e più rispetto agli archivi già stracarichi di materiale inedito degli anni aurei, alimentando negli introdotti reazioni che dire pavloviane è un eufemismo (il resto del mondo invece, giustamente se ne fregava alla grande). Altre dichiarazioni: i prossimi pezzi non sarebbero stati opera sua ma di ignoti smanettatori raccattati in giro per la Rete e pubblicati a suo nome. Erano gli anni della massima espansione del downloading illegale e uno dei modi per combatterlo (da parte delle major, ma non solo; in questo senso era davvero una lotta senza quartiere) era effettivamente mettere in circolazione pezzi scrausi di autori sconosciuti, rinominare i file con titoli di dischi in uscita e il gioco era fatto (io pure, convinto di stare scaricando Iowa degli Slipknot, mi ero ritrovato in cartella una schifezza sulla falsariga degli originali ma talmente inquietante e obliqua da disorientare). In quello specifico lasso di tempo elucubrazioni del genere trovavano terreno fertile proprio perché plausibili. Restavano comunque fumo negli occhi, roba da sottospecie di teoria del complotto interessante e appassionante quanto una crepa sul muro, perché intanto i pezzi non uscivano e su questo le chiacchiere stavano a zero. Come poteva essere altrimenti? Suoi o non suoi non uscivano, punto e basta.
È stato allora, quando ha preso a rimescolare le carte in tavola ben oltre l’umanamente sostenibile, che ho perso interesse. Del situazionismo in quanto tale mi frega poco quando il risultato finale è qualcosa di fiacco e sciatto qualunque sia la chiave di lettura “giusta” per decifrare il giochetto. Gli indovinelli hanno un senso se c’è qualcosa che valga la pena indovinare. Altrimenti, il piacere della scoperta vale quanto il tempo speso a fissarsi l’ombelico. Drukqs era questo: un’interminabile, inaffrontabile parata di numeri nati già vecchi, inerti, straordinariamente insipienti e mostruosamente inconcludenti. L’arte di non arrivare in nessun posto, ma arrivarci dando l’impressione di aver teorizzato una nuova rivoluzione copernicana, il tutto alternato a quadretti appena abbozzati per piano solo da uccidere di noia Erik Satie il solo e unico. A suo modo una folgorazione: era riuscito a ricreare quello che deve essere stato il preciso stato d’animo degli spettatori all’ultimo concerto dei Sex Pistols, quando Johnny Rotten per l’ultima volta Johnny Rotten ha pronunciato la frase. Ora ero io a sentirmi fregato.
Altro materiale d’archivio per onorare (si fa per dire) gli obblighi contrattuali con la Warp: 26 Mixes For Cash, il titolo dice tutto, e Analogue Auto Bulb, uscito a nome AFX, breakcore quei quindici anni buoni in ritardo.

Poi è arrivata la serie degli Analord, solo in vinile, una versione 2.0 dei dischi a diffusione carbonara degli anni novanta: ora se ne volevi uno lo pagavi e ti arrivava il vinile per posta, fine della storia. L’esclusività della cosa ora stava solo dentro la tua testa. Musicalmente l’autokaraoke di uno che ha già creato tutto e ora si ferma a contemplare la sua opera vedendo che ciò che ha fatto era buono; esercizi di stile, variazioni sul tema animate e motivate da un retrogusto nostalgico fino ad allora mai altrettanto lancinante. Ricognizioni a velocità di crociera su alcuni dei percorsi che lui stesso aveva disegnato, aprendosi forse per la prima volta in maniera così platealmente calligrafica ad antiche passioni mai sopite (la primissima acid techno di cui in altri anni aveva rappresentato la spinta principale nella catena evolutiva del genere), molto stanco e molto bene.
Infine è passato inequivocabilmente alla cassa, non tanto per i dischi nuovi quanto per i djset David Guetta style nelle arene, con cachet a sei zeri e un alone di leggenda che precede il personaggio di migliaia di miglia tanto da fargli acquisire valore in quanto tale, basta il nome. Tra lui e Steve Aoki un niente.

È uscito il disco fantasma di Caustic Window (altra storia manicomiale alle spalle, originariamente tirato nel 1994 in quattro esemplari, ricerche stile Indiana Jones, fundraising telematico per aggiornare il discorso ai tempi che corrono, il pacchetto completo). Partono le prime note e istantaneamente polverizzano tutte le stronzate: sembra roba incisa dopodomani, ma sembra anche di essere tornati indietro di vent’anni.

L’agendina dei concerti Emilia Romagna – 19-25 novembre 2012

 

Se siete in vena di gite fuori porta e avete voglia di continuare il trip martedì 20 gli Acid Mothers Temple suonano al Torchiera a Milano, qualcuno (al momento non ricordo né chi né quando) mi ha detto che questo è il loro ultimo tour, nel caso fosse vero (ma anche se fosse una stronzata) non dovete perderli… Mercoledì c’è Zerocalcare a MeryXM… Sempre mercoledì, DJ Balli in “Pizza Noise“, al SenzaNome dalle 21.30… Giovedì The Blues Against Youth torna in città, questa volta al Bar Wolf (dalle 21.30, è consigliata la prenotazione)… Venerdì 23 seconda installazione della serie “Drin Drone” alla galleria ONO, dalle 19 alle 23 elettronica spaccacervello a incasinare irreversibilmente le sinapsi, questa volta ai controlli Aquarius Ω, poi tutti all’XM24 a farsi disintegrare quel poco di materia grigia che era rimasto sano, suonano Space Chicks In Trouble (dalle 23.30 ad oltre, tra gli altri pure Good Cop/Naughty Cop dall’Olanda, vedi alla voce la droga in dotazione)… Un matrimonio in Paradiso: sabato Evan Dando e Juliana Hatfield al Covo (dalle 22), notizia in grado di far svoltare la giornata, e la settimana, e l’anno, e la vita, a chi ha un cuore e sa farlo funzionare… Domenica You Suck! + Shiny Brown + Alfatec al McQueen di Gaione, dalle 21… Dal 24 al 30 novembre i NoMeansNo sono in Italia, qui l’elenco delle date, non passano per l’Emilia Romagna ma non ci sono scuse comunque… Fino alla prossima: lagendinadeiconcerti(at)gmail(dot)com

CRASH OF RHINOS @ Circolo Valverde (Forlì, 19/11/2011)


Quello che guida lo conosco bene: siamo amici da circa vent’anni, praticamente siamo cresciuti insieme, ora non ci si vede più tanto spesso ma insieme ne abbiamo fatte tante e soprattutto ci si capisce ancora al volo, quasi senza bisogno di parlare. La migliore compagnia che potessi immaginare per un concerto come questo. Nell’autoradio una raccolta dei Face To Face, il sottofondo più appropriato per una gita fuori porta che ha il sapore cocente dell’amarcord, vedere scorrere giornate, mesi, anni ormai lontani, scanditi da una musica che contribuiva ad amplificare emozioni già in partenza devastanti: Quicksand, Jawbreaker, Still Life,  i misconosciuti Bad Trip che ho amato fino alla consunzione, poi certamente Texas Is The ReasonMineral, Sunny Day Real Estate, in Italia Eversor e Burning Defeat soprattutto, quel suono sempre in bilico tra emocore (quando ancora emocore era un termine legato quasi sempre a qualcosa di vivo e bruciante) indie rock (idem come sopra) ma pure hardcore e metal che è stato la colonna sonora della nostra educazione sentimentale e iniziazione alla vita. Un vissuto che, chissà come, i Crash Of Rhinos sono riusciti a reincarnare e rievocare alla perfezione, a dispetto di ogni possibile differenza geografica, anagrafica o di environment, del resto i temi e le sensazioni di cui si fanno portatori sono universali (perlomeno nella distanza tra le casse dello stereo e un cuore pronto a infiammarsi): essere adolescente negli anni novanta, la scoperta del mondo negli anni novanta. Anche la stagione è quella giusta, l’autunno dell’inizio dell’anno scolastico, dell’ora solare, degli affetti che cambiano, dove tutto trascolora e il freddo fa condensare il fiato, certo settembre sarebbe stato forse ancora meglio ma ora in compenso il gelo il buio e la nebbia favoriscono l’introspezione e il flusso di ricordi. Di nebbia stasera ce n’è pure troppa, la A14 sembra il ponte di un vascello fantasma, il casello di uscita il porto alla fine di una tempesta particolarmente arrogante. Per strada manco un cane, poche auto, ghiaccio sull’asfalto: è Forlì il sabato sera a novembre. Parcheggiamo di fronte a un minimarket sulla cui insegna (spenta) sta scritto “Simpatia” a caratteri rotondi e gommosi; le giacche le lasciamo nel bagagliaio, come facevamo da sbarbi, quando il freddo non ci faceva poi così paura (specie se a contrastarlo ci pensavano svariati litri di birra nello stomaco). Ad accoglierci al Valverde un tizio addetto al tesseramento con simpatici tatuaggi da ergastolano sul dorso della mano e Back In Black a volume moderato dal bancone del bar: splendido. È ancora presto; i ragazzi ci danno sotto con panini e birra ma io sono sulle spine, troppo emozionato al pensiero della mastodontica madeleine proustiana che sta per abbattersi su di me, e nemmeno ci penso a mandare giù qualcosa. Comincia ad arrivare gente. Arrivano altri vecchi amici con cui non capita spesso di incontrarci, da Ferrara, da Cesena, Renato addirittura da Brescia; siamo tutti qui per lo stesso motivo se vogliamo – ritornare indietro nel tempo – ognuno ha scelto la sua strada ma ogni volta che ci si rincontra non importa quanti anni sono passati, la certezza di rivedersi specchiati negli occhi dell’altro è la stessa di sempre, e le nostre strette di mano sembra vogliano esprimere orgoglio (d’altra parte, chissà). Inizia il concerto, la saletta al piano di sotto si riempie in fretta; tra il pubblico più vecchiacci che ragazzini, c’è perfino qualche ragazza, trascinata qui per chissà quale motivo, forse a tradimento. I Distanti sono il tempo che mi separa dai Crash of Rhinos: deve passare, e passa. Dal banchetto dei dischi direttamente sul palco i Crash of Rhinos, facce da working class dei bassi strati, magliette logore (a parte il mezzo cinese che è veramente sciccoso ed elegante), temibili ventri da birra o schiene piegate da programmatore rachitico, sembrano quelli che alle feste se ne stanno in disparte osservando le cose accadere. Due chitarre, due bassi, una batteria e quattro microfoni; sul corpo dello strumento uno dei bassisti (quello irsuto) ha attaccato un adesivo con scritto MINERAL, e già hai capito com’è la storia. Parte il primo pezzo ed è subito un tripudio di urla a tutta gola, le vene del collo prossime al collasso, un muro di elettricità innalzata come scudo contro l’immensa crudeltà del mondo. Avrei voluto pogare ma la letargia del pubblico forlivese non mi disturba poi più di tanto: tempo il secondo pezzo e divento uno zombie immobile io pure, travolto dal cortocircuito spaziotemporale accentuato dalle sfumature post-rock che i pezzi assumono dal vivo e che su disco non avevo colto. Ho di nuovo 16 anni, il tunnel di Underground come l’entrata di una chiesa, i cataloghi della Green Records mandati a memoria come fossero la Bibbia (e di sicuro mi hanno fatto meglio della Bibbia), le fanze lette in classe, le prime legnate ai concerti, i volantini in bianco e nero ancora puzzolenti di Rank Xerox, ingresso cinquemila lire, e fai girare ‘sto microfono, lunedì c’è la verifica di greco e non ho studiato un cazzo, meno male che settimana prossima vado a vedere i June of 44 al Link. E tutti intorno hanno la mia stessa età mentre in tre quarti d’ora i Crash of Rhinos srotolano tutto l’album più uno strumentale inedito che più che un pezzo è una sintesi di tutto ciò che musicalmente è accaduto tra il Midwest e il Kentucky in anni in cui eravamo più giovani ma manco per il cazzo più inesperti: è proprio vero che più le cose cambiano più restano le stesse. Non sempre la nostalgia è una brutta cosa. Non stasera, almeno.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 14-20 novembre 2011

però, andiamoci cauti perché, anche lì, bisogna non cadere dall'ottavo piano per facile entusiasmo. (Giovanni Trapattoni)

 
A meno di 48 ore dalle dimissioni di Berlusconi e quando tutto quello che veramente vorrei è drogarmi pesantemente da qui al 16 dicembre arrivano invece i Pulling Teeth, questa sera al Voodoo Club a Comacchio per una scarica di hardcore old school da bulletti muscolosi che i denti ce li spaccheranno a noi; aprono i bulletti introspettivi Seraphim e i revivalisti di certo screamo preso male che fa tanto anni Zero Gods And Queens (dalle 22, otto euro più tessera ARCI). Martedì un cazzo, ci si cura gli ematomi. Mercoledì Ahleuchatistas (Qui il nuovo disco in streaming) al Teatrino degli Illusi, MeryXM in assetto hip hop battagliero e per chi vuol morire lentamente c’è pure l’irsuto Josh T. Pearson al Locomotiv (ore 22, dodici euro più tessera AICS). Giovedì ultramegagay fattanza al Clandestino con il fantastico viaggio omosessuale dei Captain Ahab (dalle 22, gratis), ancora a Faenza con Cannibal Movie e amici al Tesco (Qui tutte le info, Qua il gigamegaflyer che a fissarlo intensamente ti cava via almeno un paio di diottrie), doppietta di gruppi con nomi orribili ma che musicalmente spaccano i culi all’Elastico, e nientemeno che Fabio Concato in jazzy associazione a delinquere al Bravo Caffè. Venerdì lasciatevi crescere la barba e rispolverate quei bei camicioni di flanella da taglialegna autistico che portavate nel 1993 (se nel 1993 non eravate ancora nei coglioni di vostro padre), arrivano i Pinback al Locomotiv (dalle 22.30, tredici euro con tessera AICS); oppure ancora Cannibal Movie ma questa volta allo Zuni. Sabato oltre alle solite cose (Fleet Foxes all’Estragon, Shigeto al Locomotiv, Paul Van Dyk al Link) meritano una segnalazione Wolves in the Throne Room (con Wolvserpent di spalla) nella location più improbabile di sempre (dalle 21.30, dodici euro) e i Crash of Rhinos che tanto piacciono a noi vecchiacci rincoglioniti in vena di amarcord di quando l’emo era qualcosa di rispettabile, assieme ai parimenti revivalistici Distanti al Valverde a Forlì (dalle 21.30, GRATIS con tessera Arci). Domenica di nuovo al Clandestino, c’è Andre Williams, imperdibile è dire poco, e si accelerano le pratiche per dedicare alla Morena una statua o una piazza davanti a un ipermercato…
Non bastasse, qui sotto i flyer di due bei festivalini che avranno luogo nel fine settimana tra Bologna e Carpi; cliccateci sopra per accedere alle relative info .