I National, i tempi dispari e il mito dell’androgino.

Del mito dell’androgino non si parlerà però.

Mi piacevano i National. Non sono un gruppo che mi fa venire, né li ascolterei mai due volte dietro fila. Però in auto mi garbano assai. Per la strada che collega Pavullo a Zocca sono perfetti. Mi sa che li ho ascoltati esclusivamente in auto. Ci sono alcune cose che mi piacciono più di altre. La batteria e la voce. Questa faccenda di avere la batteria in faccia che non molla mai; e la voce. Voce che scavalla le battute, che sembra far fatica a finire un verso, lasciarlo andare e riprenderlo come capita, ma non come farei io.
I National anche solo voce e batteria sarebbero ok per me.

Poi succede questa cosa, che l’ultimo disco si apre con un giro di chitarra in 9/8, e la cosa mi ferma un attimo. Secondo pezzo dell’ultimo disco: 7/8. Mi fermo di nuovo.
Fermiamoci un attimo.

Pari e dispari. Puoi fare una canzone usando un tempo pari, e lo fanno circa il 90% dei gruppi. Puoi fare un pezzo epocale usando un tempo pari. Ed è ok. Non sto dicendo che un tempo dispari sia meglio di un tempo pari. Si capisce cosa intendo quando parlo di un tempo dispari? Voglio dire: tendenzialmente una canzone ha un ritmo, che è quello che segui quando muovi la testa su e giù. Se lo fai con regolarità, dove il su e giù segue l’inizio e la fine dei giri senza intoppi, è un tempo pari. Tendenzialmente il tempo pari è il 4/4. Conti fino a 4 e il giro di basso riparte.
Pensa alla prima canzone che ti viene in mente. Molto probabilmente è un tempo pari.
Idem con patate se parliamo di battute. La maggior parte dei giri è strutturata su 4 battute, che molto spesso significa 4 note di basso. Pensa a una canzone, conta le note del basso del primo giro, molto probabilmente sono 4. Possono essere due, chiaro, oppure 3 se una nota si ripete per due battute. Esempio ad usum cazzones: Love will tear us apart, canta il ritornello, 4 note, 4 battute, tempo pari, ci siamo capiti.

Ora ascolta la seconda traccia dei National, Demons, che è pure il primo singolo uscito, fai su e già con la testa, e a un certo punto zoppichi, il giro va per i fatti suoi, devi riprenderlo, è un 7/8.

Fare un pezzo dispari è più difficile. È come far stare in pari un tavolo in cui metti gambe di diverse altezze. No, ho sbagliato, mi spiego meglio: è più difficile fare un pezzo pop con un tempo dispari.  Perché per un certo verso spiazzi l’ascolto, lo decentralizzi, il battito del cuore è regolare, le pause durano sempre lo stesso tempo, il battere idem, un tempo dispari è un’extra sistole, destabilizza qualcosa, non fa chiudere il cerchio del ritmo nella maniera che ti aspetteresti. Se ascolti prog questi problemi non sussistono. Ma stiamo parlano dei National. E mi viene da pensare che non ci sarebbe nessun motivo per i National di far partire l’ultimo disco con dei tempi dispari. Di fare dei pezzi con dei tempi dispari.

Ma il disco si apre con questo pezzo, che si chiama I should live in salt

Il giro di chitarra è fatto da una prima parte in 9/8 (che è un tempo assurdo, è come aggiungere della pasta cruda a un piatto di pasta già in tavola, aggiungi un colpo ad un giro che era a posto così) e da una seconda parte in 8/8. Poi parte il ritornello che invece è pari.
Perché?, mi chiedo. Non so. Però è figo. Cioè, voglio dire: i National, aprono l’ultimo disco, il pezzo in realtà stava in piedi tranquillamente senza quel 9/8, senza quel giro sghembo che non sembra tale – perché quando usi i tempi dispari con un po’ di manico non li fai sentire, li amalgami e quasi li nascondi, ma ci sono -, e non è una cosa basilare, e certamente non è una cosa che trovi spesso in un gruppo di quel livello, eppure.
Eppure, dici, è un caso?
No: al quinto posto in scaletta arriva Sea of love, nonché secondo singolo del disco:

Qui il tempo è pari (la batteria, infatti, è drittissima, e non salta mai un colpo), ma il giro della prima strofa non è su 4 battute, ma su 5: la quarta nota del giro si ripete per una battuta in più. Poi parte un ritornello, e la storia cambia ancora, la voce ritorna sulle stessa melodia ma rimbalza su 3 battute, non più su 5, e nemmeno su 4.
Stacco di basso, dove il cantato dice “Trouble will find me” e il giro di basso ripete un paio di volte lo stesso giro, poi cambia melodia, si abbassa, e il pezzo riparte ma si attacca a metà di un giro, senza lasciarlo finire. Sembra una cazzata, è una cazzata, ma stiamo parlando dei National, di un singolo mondiale. Quindi il pezzo riparte dopo lo stacco, e c’è di nuovo la strofa su 5 battute, ma a un tratto, sulla strofa, viene cantato un ritornello (quello dove dice – credo-  “but they said love is a virtue don’t they etc”), poi parte una roba come un altro ritornello, ma non più sulla strofa in 5 battute, ma su quello che avevamo sentito all’inizio, su 3 battute. Poi finisce.
Messa giù così sembra di parlare di un pezzo prog. Non lo è. È un singolo, il secondo singolo del disco, con una struttura abbastanza anomala, decisamente anomala per gli standard, e decisamente sopra le righe. La maggior parte delle canzoni pop non funziona così. Strofa-rit-strofa-rit-ponte-rit. Amen.

Ok, basta, no? No. Pezzo successivo. Heavenfaced.
Un classico giro in 4 battute/4 note. Ma il tempo è un 3/4.  Che è un altro tempo dispari – anche pari nel cuore.

Per dire, è lo stesso tempo di Fake Empire, uno dei loro pezzi più significativi, e direi l’unico, nei dischi precedenti, a usare una disparità nel ritmo.
Io la finirei anche qua. Ma la penultima dell’ultimo disco si chiama Hard to find, ed è un altro tempo curioso, un 5/4, con un gioco di battere e levare dei colpi del piano abbastanza insolito, ascoltare e poi parlare:

Quel che mi è venuto in mente questa mattina, mentre ero per strada (Zocca-Pavullo/Pavullo-Zocca) e davo un rapido ascolto ai due dischi precedenti (Boxer e High Violet), è che nei lavori precedenti non c’è questa ricerca di fare dei pezzi irregolari, meno tracciabili. Nell’ultimo disco sì: sicuramente per alcuni dei brani migliori e sicuramente con più cognizione.
Può essere una cazzata, o una cosa che non frega a nessuno (non credo freghi granché a una buona fetta dei fanz della band), ma non è una cosa da niente, pensando a cosa sono diventati, a quanto meno avrebbero potuto fare, e invece non hanno fatto.
È una questione di complessità. E complesso non significa difficile. Significa uno spettro di possibilità più vario, più vasto, significa maggiore ampiezza di interpretazioni. I pezzi dei National non sono difficili, non ti depistano, non te ne accorgi neanche, ma sotto c’è un’articolazione che non sospetti, e in un contesto, quello mainstream, assolutamente non richiesta.
Fare un pezzo con un tempo dispari, con una modalità di composizione che ti rende tutto più difficile, meno immediato, con un tasso di rischio di suonare macchinoso molto più alto, è una scelta di campo. In un libro che si chiama La voce delle passioni J.L. Charvet ad un certo punto si sofferma sull’utilità o meno dei vocalizzi nell’opera barocca, su questo concentrarsi sulla forma senza una sostanza alle spalle, questo fraseggiare con la voce come puro esempio di capacità, di virtuosismo, di ornamento portato all’estremo. Ma ne ribalta il significato: «Non si orna per ornare, non si orna quando non c’è nulla da dire, si orna solo quando c’è esattamente qualcosa in più da dire». È un’idea.
Ecco, niente, volevo dire questa roba qui. Volevo dirla gratis e senza che nessuno me l’avesse chiesto.
Ora l’ho fatto e posso andare affanculo.
Poi
È CHIARO
che se mi chiedi un pezzo con un giro sghembo che non sta nei 4/4, mica ti metto su i National.
Però dai, ci siamo capiti.

il listone del martedì: I DISCHI DEI FUGAZI DA QUELLO CHE PREFERISCO DI MENO A QUELLO CHE PREFERISCO DI PIU’

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L’altro mese –per pulire un po’ l’auto- ho comprato un’autoradio con la USB. Mi sono caricato dieci giga di musica su una chiavetta e non è servito a un cazzaccio di niente, ho continuato a skippare da un disco a caso all’altro senza farmi una minima idea di cosa mi andasse di ascoltare in quel momento. Poi a un certo punto mi sono scaricato un torrent con tutta la discografia dei Fugazi in mp3, di base perché non trovo più la mia copia di In On the Kill Taker. Così ora ho tutti i dischi dei Fugazi nella USB che tengo in macchina e di base non ascolto nient’altro che dischi dei Fugazi e mi sento la coscienza pulita perché ce li ho comunque tutti (da qualche parte persi) in CD e qualcuno doppio in vinile e mi sono comprato una mezza dozzina di live in digitale dal sito di Dischord (fatelo pure voi). Quella che segue è la classifica dei dischi di studio dei Fugazi, solo quelli diciamo lunghi (a parte 13 songs che è un disco vero e proprio perché non ho mai posseduto gli EP originali) in ordine crescente di mio gradimento dal più brutto al più bello, e voi fatevene pure il cazzo che volete.

 

STEADY DIET OF NOTHING

La cosa più bella di Steady Diet of Nothing è che inizia con Guy Picciotto che dice chiaramente E CIUCCIA, E CIUCCIA una decina di volte e poi continua con la musica. A parte questa cosa che comunque mi ha rovinato la vita (io sono uno di quelli che quando lavorano o fanno cose in pubblico assorti iniziano a canticchiare senza pensarci troppo ed è brutto canticchiare E CIUCCIA, E CIUCCIA mentre sei in fila dal medico con davanti una ragazzina di tredici anni che sta delirando per via della febbre alta) e Reclamation che è più o meno la canzone definitiva dei Fugazi primo periodo, nonostante sia uno dei primi dischi dei Fugazi che ho sentito, è quello che amo di meno e quello che riascolto meno spesso. Ha una produzione un po’ asciuttina che a conti fatti non rende troppa giustizia ai pezzi.

 

REPEATER

Questo invece me lo risento di tanto in tanto, ma sempre meno spesso degli ultimi dischi. Sta basso perché mi sta antipatica la copertina e perché c’è un casino di gente che lo considera ancora il miglior disco (qualcuno forse lo considera pure l’unico) mai inciso dai Fugazi. Cosa che non è: dieci anni di discografia dopo Repeater rendono chiara la cosa e i pezzi precedenti tipo Waiting Room sono meglio, puro e semplice: Repeater è un disco grandioso di pezzi quasi tutti bellissimi ed è migliore del disco successivo del gruppo, ma a conti fatti funziona più come una buona introduzione (nel senso di disco per turisti) che come feticcio sfasciato a forza di riascolti –piuttosto vado un passo indietro e mi riascolto 13 Songs. AUEDAUEDAUEDAUÉ


RED MEDICINE

A questo punto siamo già in zona dischi della vita (oltre che in zona il classico pezzo piagnone di bastonate che parla di quando eravamo giovani belli ribelli e ascoltatori di quel prete di Ian MacKaye) di cui non si può mai dire bene a sufficienza. In realtà il ricordo più carino di questo disco è che una sera mettevo dischi all’HanaBi, probabilmente già trentenne, e io e Diego dobbiamo averne suonata una da Red Medicine (quasi sicuramente Bed for the Scraping) perchè passeggiando verso il parcheggio Renato A.T urlava a tutti i passanti DO YOU LIKE ME?. Ok, forse non è così divertente sentirla raccontare così.

 

13 SONGS

Qualche tempo fa un tizio aveva iniziato a postare su youtube dei video in cui ballava in posti comuni e casuali su una canzone punk che stava ascoltando in cuffia. Il video da cui era partito tutto era ripreso dalla telecamera di sicurezza (probabilmente fake) di una sala d’aspetto, con lui che iniziava a danzare al ritmo di Waiting Room e un altro tipo seduto a leggere di fianco che non faceva una piega. Se qualcuno ritrova il video me lo mandi. Comunque il senso è che Waiting Room vive del paradosso che pur non essendo la canzone più bella mai incisa dai Fugazi è comunque la canzone più bella mai incisa da chiunque. Oltre a essere quella che fisicamente ti rende impossibile non partecipare ad un coro immaginario di duecento kids (qualsiasi cosa siano i kids) che urlano composti AUEDAUEDAUEDAUÉ anche se magari sei da solo in una casa di campagna nella periferia di San Martino Spino o altri posti indierock simili con densità di un abitante per chilometro quadrato. Diciamoci la verità: quando è stata l’ultima volta che avete ascoltato Waiting Room e non avete canticchiato AUEDAUEDAUEDAUÉ? (magari è stato l’altro ieri, ma se non l’avete canticchiato è perché vi siete trattenuti, democristiani di merda). Ed è anche importante ricordare che Ian MacKaye non urla quattro volte “I’ll wait”, come riportato nelle liriche ufficiali, bensì un unico laconico e corale esperanto AUEDAUEDAUEDAUÉ. Ecco.
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IN ON THE KILL TAKER

Una cosa che non sapevo fino a quando ho iniziato questo pezzo è che in realtà una prima versione del disco era stata registrata da Steve Albini (volevano essere un pugnetto di canzoni per un EP, poi le canzoni sono uscite eccetera), ma il gruppo era insoddisfatto e ci rimise mano completamente con i soliti Ted Niceley e Don Zientara. Alla fine è difficile non dire che In On The Kill Taker è il disco più bello del primo periodo dei Fugazi, quello che inizia più fragorosamente e il primo nel quale tutti i momenti interlocutori diventano parte integrante di un’economia perfetta. In On The Kill Taker è anche il mio primo disco in assoluto dei Fugazi, ma ho scoperto dopo che fosse In On The Kill Taker –nel senso, me l’aveva doppiato un amico in una cassetta senza titoli intitolata FUGAZI e per quanto ne sapevo poteva essere una raccolta, o l’unico loro disco, eccetera. Ho perso il CD originale da qualche parte nei traslochi e sono incazzatissimo.

 

END HITS

Nel ’98 avevo comprato il mio primo lettore CD e ho comprato End Hits. La mia poetica stava subendo un repentino cambio di stile: prima di avere il lettore non potevo andare al negozio a farmi metter su sette dischi da Giovanni, il quale doveva subirsi i miei commenti e vedersene comprare uno solo –due quando andava proprio grassa. Per i Fugazi non me l’ha permesso. Mi fa “io te lo faccio ascoltare ma poi non è che mi puoi dire se ti è piaciuto o no”, per dire che un negoziante per quanto malleabile ha comunque una sua moralità di fondo. Possedevo un originale e nuovo CD dei Fugazi quando possedevo una dozzina di CD in tutto, tutti gli altri non erano buoni quanto End Hits e facendoci una rapidissima botta di conti direi che End Hits è il disco che ho ascoltato più volte in vita mia sullo stesso formato (i pochissimi dischi che ho ascoltato più di End Hits li ho posseduti in cassetta registrata o CD masterizzato o cose così, di End Hits ho ascoltato sempre e solo lo stesso CD). Il fatto che sia un disco di umori molto contrapposti ha un suo senso perverso, naturalmente. Contrariamente agli altri dischi dei Fugazi non ho mai avuto momenti in cui ho perso di vista la mia copia di End Hits. Quindici anni dopo ho una collezione di CD sensibilmente più estesa ma tutti gli altri dischi non sono buoni quanto End Hits, e per certi versi trovarmi nella stessa situazione in cui stavo quando di dischi ne avevo dodici non depone a favore di me, della musica e di voi che mi date retta.

 

THE ARGUMENT

Una volta con m.c. stavamo scrivendo una retrospettiva sui Fugazi e lui scrisse questa cosa su The Argument: In quello che a posteriori potremmo definire l’annus horribilis del rock, il momento in cui il rock prende definitivamente coscienza del fatto di essere ormai un affare morto e sepolto (e l’annichilente esplosione di realtà quali Strokes, White Stripes, Black Rebel Motorcycle Club eccetera non farà che infliggergli le picconate finali; da allora in poi sarà l’inizio di uno scempio che dura tuttora e non accenna ad attenuarsi: la devastante ‘nuova’ scena inglese nel segno del revival degli scarti più rancidi dell’era Madchester –The Music, The Coral e via discorrendo, il garage da fighetti di The Kills e compagnia berciante, il recupero di certo rockettaccio da ex-freak rincoglioniti di Kings of Leon e Jet, la necrofilia pura sul cadavere della new wave ad opera di Interpol e Liars, il folkettino semplicistico di Devendra Banhart e amici froci vari, le reunion di patetiche anticaglie come se piovesse, MC5 in primis… finirà che l’unico ‘salvatore’ dello spirito rock’n’roll sarà l’iper-sottovalutato Andrew WK, dai più bollato come cazzone ridanciano e nient’altro… ma questa è un’altra storia), i Fugazi se ne escono con un disco e un EP (Furniture, di soli brani inediti) che prendono energicamente le distanze non solo dallo stesso universo radicalmente a sé stante che la band è stata capace di creare in oltre due lustri di rigoroso artigianato indie, ma anche e soprattutto dall’idea di “disco”, di “gruppo” e financo di “rock”; mai, nemmeno nello sfuggente Instrument, si era registrato un distacco così totale dalla forma-canzone, quasi che i Fugazi si siano limitati a captare un sussurro isolato, un alito di vento, uno sguardo, e magicamente renderlo senso, atto, altro da sé. Aperture inaspettatamente ‘progressive’, squarci krautrock, elucubrazioni e ipotesi di tempi e spazi altri, un ripiegamento su sé stessi mai azzardato neppure dall’intera cricca post-rock, una sensibilità pop che tutto annulla e verso cui tutto ritorna; The Argument resta una dichiarazione di manifesta superiorità impartita con una levità propria dei capolavori invisibili. E tale divenne la stessa creatura Fugazi dall’ultima nota della conclusiva title-track ad oggi. Se mai decideranno di ricomparire, un giorno o l’altro. In prospettiva è anche abbastanza dura per uno come me avere a che fare con uno che infilava tutte queste cose nel 2003 e continuare comunque a scriverci assieme per dieci anni facendo sempre il tizio rilassato e cool che ha le sue opinioni SBAGLIATE rispetto alle sue che invece sono GIUSTE. Metto The Argument sopra End Hits per via del pezzo di m.c., del fatto che è il miglior disco dei Fugazi secondo Bob Weston e del fatto che è il loro ultimo album, tipo spinta per il futuro. Secondo me si riformeranno davvero, ma sarà quando a nessuno gliene fregherà più un cazzo e loro saranno sdentati e stempiati e faranno un disco nuovo che parlerà di abbracciarsi in modo molto acustico ed emo e la gente se ne sbattera li coioni. En passant, l’EP di tre brani che lo anticipava è probabilmente il loro miglior disco alla pari con End Hits e questo.

Tanto se ribeccamo: QUICKSAND

Da un certo punto di vista si tende a limitare l’hardcore newyorkese ad una specie di visione alternativa (e irragionevole) del genere nel quale tutto è violento, basilare, creativamente statico e criptofascista. Non dà molto aiuto una classe dirigente che conta tra i suoi membri personaggi tipo Harley Flanagan o Roger Miret, e tutto sommato è su quel campo da gioco che si è continuata a giocare la partita. Per un certo periodo di tempo, tuttavia, l’accacì newyorkese sembrava doversi trasformare in una nuova forma di rock indipendente, in maniera tutto sommato non diversa da quello che era già successo a Washington. In entrambi i casi la mutazione fu spinta avanti da gente che s’era semplicemente rotta il cazzo di picchiarsi a sangue e urlare a squarciagola nel microfono. A Washington furono Ian MacKaye e la sua Dischord, a New York il personaggio chiave fu Walter Schreifels: quasi-unico autore dei Gorilla Biscuits e membro della miglior formazione degli Youth of Today, timbra il cartellino all’uscita nei primi anni novanta e mette in piedi un gruppo nuovo, partendo da un side project di cui si son perse le tracce. Si chiamano Quicksand: completano la formazione Tom Capone dei Bold, Alan Cage dei Burn e un bassista di nome Sergio Vega. I Quicksand durano un EP su Revelation e due dischi lunghi che si chiamano Slip e Manic Compression (valgono tutti, ma l’ultimo è tipo uno dei dieci dischi più belli della storia della musica). C’è pochissima roba che suona simile a questa: erano chiaramente musiche che non venivano dal nulla (si trova tracce dello stesso genere musicale nell’altra evoluzione dei Burn, un fenomenale gruppo di nome Orange 9mm, e in cose sempre newyorkesi tipo UNSANE ed Helmet, cose tipo GVSB e simili). I Quicksand hanno qualcosa in più, in ogni caso. Sono un’evoluzione melodica dell’accacì paragonabile agli Huskers di Zen Arcade o Metal Circus, una cosa che non è proprio compiuta ma ci sta provando e magari per strada ci mettiamo pure una dozzina di pezzi melodici-aspri che non ha scritto tipo NESSUNO, e vediamo come va.

Non va benissimissimo, nel senso che i Quicksand vengono assoldati da una major (Polydor, e poi subentrerà Island) in tempi utili per diventare dei possibili nuovi Nirvana, ma non riescono a sfondare per ovvi limiti strutturali (è musica asprissima) se non nel mercato alternative. Prima di poterne vedere l’evoluzione, il gruppo si scioglie per scazzi all’interno. I progetti successivi tirano più o meno tutti dalla stessa parte: Tom Capone, assieme a Peter Mengede degli Helmet, sarà un nome caldo per qualche mese in seguito all’annunciatissimo ed effimerissimo progetto Handsome. Walter Schreifels menerà il torrone per qualche tempo: ai tempi dello scioglimento ha le mani in pasta con una reunion dei Gorilla Biscuits di cui non fa parte ma a cui scrive e produce interamente il primo disco (il gruppo si chiama Civ e il disco Set Your Goals, una delle robe più ispirate del punk-hardcore negli anni del boom di Offspring e compagnia). E dopo un paio di cosette non andate a buon fine lo ritroviamo nel suo ultimo gruppo importante, già a cavallo degli anni 2000, che si chiama Rival Schools e tira sostanzialmente dalla parte di un emocore da botta che tutto sommato non è poi così diverso da quello che facevano gli Handsome (o gli Orange9mm di Tragic, o gli Helmet da Betty ad Aftertaste). Se i Quicksand erano gli Husker Du di Zen Arcade, i Rival Schools sono gli Sugar: una forma musicale più compiuta ma meno interessante, e la testimonianza del fatto che certe alchimie son fatte per spaccare molto e durare poco (United by Fate rimane comunque un disco della stramadonna). Degli altri membri si sa poco, eccezion fatta per Sergio Vega che da qualche anno è il sostituto di Chi Cheng nei Deftones.

Nel giugno di quest’anno i Quicksand hanno suonato qualche pezzo in occasione del venticinquesimo anniversario di Revelation. Quella che poteva essere una buttata a cazzo tipo la reunion dei Big Black è andata a finire in una specie di gita delle medie fuori tempo massimo: stamattina salta fuori il video di una loro esibizione da Jimmy Fallon, c’è qualche data annunciata a settembre e non sia mai che ci neghiamo un reunion tour intero e magari un disco a nome Quicksand la cui qualità non sarà più alta di quella dell’ultimo patetico Rival Schools (ma a giudicare dalla performance televisiva di cui sopra stiamo parlando comunque di un gruppo in forma smagliante). Più che per vederseli dal vivo, la reunion dei Quicksand è l’occasione per ritirare fuori quei dischi incredibili che a metà anni novanta disegnavano un mondo possibile che era emotivamente compromesso e musicalmente violento ed è stato spazzato via da ipotesi che all’epoca sembravano più ragionevoli (il crossover melodico alla Deftones e il postrock di Chicago e simili, cose unite da nient’altro che non fosse una fiera del citazionismo e della de contestualizzazione ad ogni costo che s’è mangiata in un boccone qualsiasi altra ipotesi critica di fine secolo scorso e ci ha dato in cambio gli Hoobastank e gli Explosions in the Sky, tanto per dire in che mondo abbiamo vissuto), e che se fosse stato per loro, insomma, magari oggi là fuori ci sarebbero ragazzi di venticinque anni, buona fama underground e due dischi aspri-potentissimi-ispiratissimi in catalogo.

Il listone del martedì: DIECI COSE CHE CREDETE VERE IN MERITO ALL’INDIE ROCK E INVECE

Questo listone ha padri putativi nobili, si fa per dire. Non vogliamo (non è vero, vogliamo) reintervenire nel dibattito su cosa s’intende per indie oggigiorno, non vogliamo cagare ulteriormente il cazzo alLo Stato Sociale e quando parliamo al plurale in realtà intendiamo io, che mi chiamo Francesco e ho idee bizzarre e stupide sulla faccenda. Questo listone si basa su un paio di assunti teorici:

1)      la parola INDIE non identifica più un genere musicale trasversale e di supermoda fatto di gente vestita in modo pittoresco che passa il tempo a fotografare il proprio duckface ma –come da senso originario- musicisti che suonano generi musicali imparentati con il rock e non operano nel mercato discografico emerso, lasciando a quelli di cui sopra l’altrettanto improprio appellativo di hipster.
2)      Questa cosa è comunemente accettata.
3)      Niente, solo le prime due.

Il dibattito sta impazzando furioso, cioè nell’ultima settimana ho letto più di un post in merito, nella fattispecie un tirone di Hamilton Santià e Simone Dotto rilanciato da Enzo Polaroid e messo in pari a un articolo di Birsa su Vice. Riassunto: nel mondo dell’indie attuale tira aria nuova, ma l’aria nuova è la stessa aria nuova che tirava prima che tirasse aria nuova e ha lo stesso identico odore dell’aria che hai mollato per cambiare aria. C’è stato un ricambio generazionale e non è contato un cazzo. Oggi i gruppi si riuniscono un po’ e nel farlo vendono (svendono) l’integrità di essersi suicidati prima che andasse tutto a puttane in cambio di non essere più morosi con le rate dell’appartamento a Providence. Le risposte che si possono dare sono diverse, dalla polaroidesca bisogna senz’altro considerare l’idea che probabilmente abbiamo sempre voluto tutti quanti la stessa cosa, o quantomeno ora è così alla birsesca VAFFANCULO. Noi, sempre inteso io, non abbiamo le idee chiarissime in merito, ma è innegabile che siamo di fronte al primo periodo interessante nella storia della musica dai tempi in cui si sussurrava fosse in corso un’asta tra le major per mettersi in scuderia gli Earth Crisis. La battaglia da combattere non è più contro un sistema ben identificabile come mainstream, ma contro una serie di accettabilissime soluzioni di compromesso che stanno svuotando di significato la musica che ascoltiamo senza che nessuno (a partire dai giornalisti/blogger musicali, il più ridicolo branco di mentecatti di cui abbiamo mai fatto parte a parte forse i boyscout e il Club degli Editori) abbia sviluppato un sistema immunitario che faccia suonare un campanello d’allarme. La seguente lista di false credenze in merito all’indie rock vorrebbe essere uno spunto di riflessione, esauritosi peraltro nella nostra riflessione da qui a quando abbiamo chiuso il pezzo, e tralascia volutamente (non è vero) le declinazioni etiche del discorso. Il fatto che sia giusto o sbagliato rendere del proprio mestiere un mestiere o quanto ti renda una persona migliore scopare di più, cioè saper suonare un basso, non è una cosa che c’interessa. Nè tantomeno se condurre una vita/carriera da musicista indie sia in qualche modo una cosa auspicabile. Ci teniamo volutamente a distanza di questo genere di cose per rivendicare orgogliosamente il nostro ruolo di ascoltatori puri e di indierockers impuri, non siamo parti in causa del discorso, abbiamo pochissimo da perdere e quel poco che abbiam da perdere non sono soldi. E nel caso qualcuno se lo chiedesse, indie è un modo puccioso di dire indipendente. Continue reading Il listone del martedì: DIECI COSE CHE CREDETE VERE IN MERITO ALL’INDIE ROCK E INVECE

I dieci pezzi più belli degli anni duemila (a complemento di quell’altra, non so se hai presente)

Stesse regole dell’altra volta: dieci pezzi, niente piagnistei, niente storie tipo “Martina mi ha lasciato e da un bar usciva forte questo pezzo di Tiga”. Che tega che era Tiga, ve lo ricordate?

UNSANE – EAST BROADWAY (da VISQUEEN, Ipecac2007)
East Brodway non è altro che la registrazione dei rumori che si sentono nel mio quartiere. Mi legavo un microfono al polso e passeggiavo per il quartiere con un registratore.
(Chris Spencer intervistato su Metal Shock)

DAFT PUNK – ONE MORE TIME (da DISCOVERY, Virgin 2001)
Il problema più grande legato allo scegliere dieci pezzi è che in qualche modo bisogna lasciare fuori delle fette intere di roba che magari hai ascoltato finchè non ti sono usciti i coglioni dal palato. Per quanto mi riguarda vuol dire soprattutto sbattersene di tutto quello che è uscito e riguarda IL SUONO, vale a dire una serie di cose elettroacustiche (o anche peggio) uscite per etichette tipo Touch o Mego o Leaf ma anche per certi versi la versione più brutale e classicona e popposa tipo Sightings et similia. Per fare un doppio sgarbo a questo terribile (e tutto sommato ancora in atto) periodo della mia esistenza, un tributo al disco pop che più di tutti ha dato un volto al pop della nostra epoca e forse di tutte le epoche e quindi in qualche modo (visto dal punto di vista della futuribilità passata) l’unico vero disco anni duemila uscito negli anni duemila a parte i soliti noti (cioè gruppi/artisti che al momento non ricordo ma che sicuramente hanno fatto un disco anni duemila negli anni duemila: van tutti bene a parte i Radiohead) e/o la canzone con le tette più grosse del pianeta. Da questo punto di vista l’unica alternativa che mi verrebbe in mente è Time to Pretend, ma mi sentirei di fare uno sgarbo agli MGMT di Congratulations.

WOLF EYES – BLACK VOMIT (da BURNED MIND, Sub Pop 2004)
Questa canzone cambia radicalmente valore assoluto nel momento in cui qualcuno carica un video su Youtube fatto di esorcismi e negritudine in salsa porno amatoriale lynchiano che sembra tipo il video ufficiale della canzone e la riporta alla ribalta come uno dei pochissimi tentativi riusciti di fare musica industriale non-vintage. Nel senso che i Wolf Eyes ci hanno davvero PROVATO, nella manifesta incapacità di provare qualsiasi altra cosa nel momento di massima esposizione (disco Sub Pop etc). Ce l’hanno fatta. E tutto sommato il loro periodo alla luce del sole è stato il più divertente. Per puro piacere personale avrei usato probabilmente Stabbed in the Face, ma Black Vomit ha appunto questo video amatoriale E un legame col disco assieme a Braxton.

TEETH OF LIONS RULE THE DIVINE – HE WHO ACCEPTS ALL THAT IS OFFERED (FEEL BLACK HIT OF THE WINTER) (da RAMPTON, Rise Above 2002)
La voce di Lee Dorrian, trasfigurata, deforme, immane, esplode sguaiata al decimo minuto, contemporaneamente all’eruzione di chitarra e basso, un’orgia di bassissime frequenze ad accompagnare un rantolo che non conserva più nulla di umano. Di quel che latra non si capisce niente, e probabilmente è un bene: le farneticazioni sono minuziosamente riportate parola per parola, con certosina pazienza, in un libretto allucinante dove confluiscono stile liberty, stampe del ‘500 e outsider art della più perturbante mai concepita, ma i testi scritti a mano in sghembi e diseguali caratteri gotici rendono la decifrazione un’autentica tortura per gli occhi. Ne parlò a suo tempo m.c., io sono abbastanza d’accordo. L’unico serio candidato a sostituirla, parlando di postrock, è My Wall, traccia-mastodonte confezionata dai Sunn (o))) con Julian Cope in quello che in prospettiva è tutto sommato il loro miglior disco (White 1). Ma i Sunn (o))) hanno fatto, relativamente parlando, una fine peggiore rispetto al side-project Teeth of Lions.

RIHANNA – UMBRELLA (da GOOD GIRL GONE BAD, Def Jam 2007)
C’è questo beat grassissimo e comunque molto scarno che fa un sacco old school (il disco tra l’altro esce per quello che è rimasto di Def Jam). Il testo è una canzone d’amore standard che è tuttavia è facilissimo interpretare (soprattutto accanendosi sulla biografia della Rihanna da Rated R in poi) come una possibile storia d’amore che nasce dietro a un singolone rap che parli di macchine e troie. Solo, dal punto di vista della troia. Che in realtà è una ragazza-coraggio

ONEIDA – SHEETS OF EASTER (da EACH ONE TEACH ONE, Jagjaguwar 2002)
You’ve got to look into the LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT per duecentomila volte, la prima volta che l’ho sentita mi ha cambiato l’esistenza, continua a cambiarmela ogni volta che ripassa per lo stereo, è una cosa molto grassa e antipatica e respingente e sì, insomma, ogni volta che suonano dal vivo sembra più divertente della volta precedente e questo in un ambiente come il nostro ha quel che da gruppo vissuto che a noi piace molto. Ma qui si dà un voto alle canzoni in sè, e Sheets of Easter sta a rappresentare al meglio tutto il giro noise-wave newyorkese che a un certo punto è diventato il nuovo pop e ha cercato disperatamente di non sputtanarsi una volta incontrato il pubblico delle grandi occasioni, trovandosi a tavola con gente che s’aspettava i nuovi PIL ed è saggiamente scappata via a gambe levate prima che arrivasse il conto. Each One Teach One rimane comunque uno dei dischi più belli di quel periodo.

FUGAZI – CASHOUT (da THE ARGUMENT, Dischord 2001)
Il 2001 è l’anno in cui torna a galla il rock’n’roll come segno puro e musica per gente bene con un conto in banca non più in rosso e un curriculum di scopate del tutto rispettabile. Gli Strokes esordiscono verso fine anno, nel frattempo qualcuno ha già piantato i primi semi per il ripescaggio di ogni forma postpunk di cui si erano (grazie al cielo, ora possiam dirlo) perse le tracce nel decennio precedente. Il postrock, vagamente ricalcolato dai Fugazi dei due meravigliosi dischi di fine anni ’90 (End Hits e la colonna sonora di Instrument), è già da diverso tempo un genere musicale piuttosto codificato intorno a una direttrice orchestrale di stampo Mogwai. The Argument suona diverso da tutto quel che esce in quell’anno. L’amarissima Cashout, cantata da Ian MacKaye, proclama con orgoglio che io lo so cosa sta succedendo e fate pur finta di no. Ancora oggi, quando la suono, mi sento la ramanzina di Ian nelle orecchie.

LAGHETTO – UOMO PERA (da SONATE IN BU MINORE PER QUATTROCENTO SCIMMIETTE URLANTI, Donnabavosa et al. 2003)
Per sapere cosa si è bisogna avere chiaro cosa non si è. Fossero esistiti né prima né dopo questo disco, probabilmente li avremmo relegati al dimenticatoio. L’eco di quella voce brutta e sgraziata non s’è ancora spento. A proposito: c’è un libro sull’ultimo AntiMTVday.

AUDIOSLAVE – WIDE AWAKE (da REVELATIONS, Epic 2006)
Non ho ben chiaro quale sia il mio disco preferito negli anni duemila. Non ho dubbi, invece, che il miglior film sia Miami Vice. E chiunque abbia questa opinione non può avere che un’opinione trasfigurata di quella che nasce come inno anti-Bush in seguito all’uragano Katrina e che diventa l’apice lirico degli anni duemila come scheggia impazzita e deforme di certi ottanta troppo frettolosamente scopati sotto il tappeto. Gli stessi autori (frettolosamente e forse giustamente liquidato come un patetico supergruppo di rock cafone anni settanta nato in provetta e senza benzina) avevano musicato la scena del lupo in Collateral. Difficile scindere Michael Mann e gli Audioslave al secondo centro consecutivo.

DINOSAUR JR – OVER IT (da FARM, Jagjaguwar 2009)
Per quelli che le reunion e per quelli che erano d’accordo sul pezzo dei Fugazi. Il video con i tre Dinosaur Jr che fanno trick in skateboard/bmx in qualche sobborgo. L’incedere maestoso di tutto Farm, ad oggi l’ultimo disco dei Dinosaur Jr (e non è detto non sia un bene che rimanga tale). Voglio dire, ho cercato di usare la testa ma non vuol dire che non sappia dove batte il cuore. Ecco.

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