QUINTALE.

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Non so se qualcuno ha usato la parolaccia con la M parlando dell’ultimo disco dei Bachi, nel caso credo stiano tutti aspettando che qualcuno cominci. Il nuovo disco dei Bachi da Pietra segna una svolta verso territori hard-blues-sludge-stoner-noise-aggro-core, vent’anni di leggere recensioni e ormai non mi fate più un baffo, potete dirlo che avvertite non so dove non so come che il nuovo disco dei Bachi da Pietra è METAL. Io lo sto ripetendo da venti minuti e mi sento molto meglio rispetto a questa mattina. Questa mattina ascoltavo Quintale in macchina e lo non-capivo con la mia solita nonchalance, ritirando fuori nella mia testa una miriade di gruppi che c’entrano un casino ma che non sono il punto: Hammerhead, Janitor Joe, primi GVSB, ovviamente Melvins (tutti i gruppi con una chitarra mi ricordano i Melvins) e tagliamola pure con certi deliri jesuslizardiani, l’insofferenza nei confronti della vita di un Fausto Rossi e qualcosa di macilento che lavora da sotto tipo una versione veloce dei primi Cathedral con Lee Dorrian che canta come se fosse ancora nei Napalm Death e via di questo passo. Di seguito ho passato la giornata lavorativa dentro l’ufficio canticchiando parola di Paolo, Paolo, Paolo, Paolo il Tarlo e lasciando che il mio collega si chiedesse se avevo sbroccato o meno per via della fotta di vedere che figura farà Berlusconi tra qualche ora davanti a Travaglio e soprattutto che figura farà Travaglio davanti a Berlusconi alla stessa ora.

E mentre trovavo una scusa qualsiasi per uscire dall’ufficio e andare a ricaricare 400 euro sul postepay da puntare online su Berlusconi che lascia lo studio entro 4 minuti dal primo scambio di battute, ho avuto l’illuminazione. Il quinto disco dei Bachi da Pietra è METAL. Un normalissimo e volgarissimo disco heavy metal, una roba che verso fine degli anni ottanta mi piace pensare ne uscissero sedici o diciassette al mese di questo livello, musica estremamente cafona ed estremamente arrabbiata ed estremamente cafona nel suo essere estremamente arrabbiata, testi di stampo fantasy, scale di chitarra, batterie rovinose e gente infoiata con la tecnica e il suono dall’inizio alla fine del disco. Poi le chitarre si doppiano e si triplicano come nei dischi degli Iron Maiden e la gente inizia a pensare che questa è la cosa più tamarra e meno spontanea della storia della musica, una cosa artificiosa, finta basata su premesse ideologiche farlocche e su valori morali che hanno quel che di protofascista (il desiderio di primeggiare, la lotta per la sopravvivenza, la delazione eccetera). Naturalmente solo dei dementi o degli ascoltatori senza spina dorsale possono pensare che queste cose siano classificabili come difetti, specie visto che stiamo parlando di un disco METAL. Al primo passaggio sullo stereo, Quintale sembra il disco più farlocco e sbagliato della storia. Cose tipo Fessura te le ascolti e sembrano un ripescaggio a buffo dei Litfiba di Spirito, la prima parte di Pensieri Parole Opere è cantata in un inglese stile Alberto Sordi, il pippone finale di Baratto sembra la lamentela contro il governo di un vecchio al bar. Dal secondo ascolto in poi si inizia ad entrare nel meccanismo. Contrariamente a quanto scritto quasi ovunque (“estremamente violento ma estremamente accessibile”, l’avran copiato dalla cartella stampa), Quintale è un disco METAL estremamente difficile e insidioso: Succi e Dorella ci blandiscono con promesse di riffoni facili e rovesciano la baracca a furia di sbroccare gratis. Escono fuori incroci impossibili tra cock rock e Rollins Band in Brutti versi, escono fuori bordate da primi della classe a partire da premesse senza costrutto. Viene in mente, soprattutto, quella sensazione di non starci dentro per la violenza della musica e di volerne comunque avere ancora a pacchi, una sensazione che ci ha fatto innamorare della musica METAL (ed evitare che le ragazze si innamorassero di noi e ci distraessero dal nostro volere PIÙ METAL) e che ormai riusciamo a provare se va bene una volta ogni anno e mezzo; una sensazione per cui devi essere tagliato, naturalmente, e non faccio una colpa a nessuno di quelli che si sentiranno –giustamente- esclusi a calci da Quintale e lo troveranno una cosa dozzinale crassa stupida cafona e in generale troppo METAL per volerci avere a che fare. Disco dell’anno.

DISCONE: Black Sun – Twilight of the Gods (Future Noise)

I dischi che spaccano il culo senza essere niente di speciale ormai sembrano venire tutti da un’altra epoca. Credo siano stati gli anni novanta: la musica rock, specie quella molto pesante, doveva essere sempre molto nuova o molto tradizionalista. Il rock normale ha smesso di esistere più o meno ai tempi in cui AmRep ha chiuso i battenti, lasciandosi trasportare all’interno di un gioco di specchi più o meno infinito in cui quasi tutto quello che musicalmente non è, ehm, niente di che non vale manco la pena di, etc etc. OK, smettiamo di traccheggiare e ci leghiamo all’oggetto: i Black Sun  sono un gruppo di rock normale, persino anonimo. Twilight of the Gods è un disco di metal sabbathiano e vagamente blues che cita più o meno apertamente Melvins, gli Entombed di Wolverine Blues, gli Eyehategod di ogni pezzo in carriera e certo blues-core. Roba aggro, per capirci, musica che neanche tanto tempo fa usciva tranquillamente su base settimanale e non creava sconvolgimenti d’animo. Un tizio su Audiodrome s’è ascoltato il disco e ha concluso ciò che segue:  “sono all’esordio con questo Twilight Of The Gods, ma, visti i presupposti, difficilmente lasceranno un segno nella scena pesante contemporanea. Il loro stile è una miscela di doom, sludge-core e oscurità gotiche che più impersonale non si può, con riffing fiacco che non mette mai a segno un colpo come si deve: in alcuni frangenti i giri si susseguono senza convinzione, generando un’accozzaglia che non trasmette niente. (…) La performance vocale di Russell McEwan, che è anche batterista di questo terzetto, non è niente di che, un po’ hardcore, un po’ death, ma senza la giusta dose di preparazione tecnica che aiuta ad interpretare bene la parte.” Rispondiamo nell’unico modo in cui abbia senso:

beccati questa kotekino

Twilight of the Gods è un disco di puro INCAZZO. Non parla nessun linguaggio dell’estremo, o quantomeno non uno che sia preponderante rispetto agli altri. Sono una decina di pezzi, quasi tutti intorno ai sei minuti, buttati lì apposta per dare a chi canta il modo di sfogarsi, con le parti vocali più scorticate della storia e testi indecifrabili (sono di Glasgow) che dicono cose tipo fuck you love songs, fuck you hate songs. è un disco di INCAZZO come poteva esserlo un disco dei Void, o i Suicide che venivano presi a calci dai punk nella New York di fine settanta o gli Unsane di This Plan: esci dal lavoro, vuoi farti una birra e un dischetto metal cazzone e ti senti vomitare addosso un camion di angoscia paranoica che ti fa tornare in fabbrica per altri quaranta minuti. è un disco così lacerato e preso male che tutto sommato i momenti in cui si respira un po’ sono quelli in cui al microfono c’è il negro degli Oxbow, per dire. Il quale comunque dà una performance enorme: Baby Don’t Cry sarà pure mestiere, ma tocca Life Time con un dito. Non è propriamente roba di quella che infiamma gli m-blog intrippati con l’apocalisse ad ogni costo con quell’attitudine alla stare male meno/stare male tutti, ma se dovessi uscire di testa per un album e fare uno di quegli sbrocchi alla Claudio Sorge sul destino del rock, tra quelli usciti di recente non mi verrebbe in mente nessun altro titolo.

SWANS @ Locomotiv (Bologna, 4/12/2010)

 
Non si pretenda mai, da nessun essere umano, di garantire alcunchè: dopo tredici anni Micheal Gira resuscita Swans.”
(Paolo Bertoni)

THIS IS NOT A REUNION. It’s not some dumb-ass nostalgia act. It is not repeating the past. After 5 Angels Of Light albums, I needed a way to move FORWARD, in a new direction, and it just so happens that revivifying the idea of Swans is allowing me to do that.”
(Michael Gira fornisce la sua giustificazione non richiesta)

Decoroso.”
(Reje, a proposito di My Father Will Guide Me ecc. ecc. ecc.)

 

In effetti non si può dire altrimenti del ritorno di Michael Gira alla ragione sociale Swans: il disco è un buon disco che si inserisce agevolmente nel percorso tracciato dal draconiano Gira nei lustri successivi allo split con Jarboe, unico cambio di rotta il ripristino di chitarre acuminate e bordate massimaliste al posto della chitarrina e delle orchestrazioni, comunque il mood alla base resta il medesimo; un disco che hai già metabolizzato al primo ascolto, calligrafico ma (miracolosamente) non opportunistico, blandamente oppressivo e vagamente ispirato, addirittura rassicurante nella sua prevedibile funzionalità da classico minore. Dal vivo è un’altra storia. Dal vivo non è cambiato niente, dici Swans ed è di nuovo ridefinizione radicale di concetti come sopraffazione, prevaricazione e umiliazione applicati alla musica. Brani dilatati sformati trasfigurati che diventano veri e propri strumenti di tortura adoperati scientemente per brutalizzare gli spettatori, sfinirli, prostrarli, annichilirli fino alla sottomissione totale e alla resa incondizionata; evidentemente con gli Angels of Light e i solo show il pubblico non soffriva abbastanza (in effetti ricordo un concerto del ’99, era il tour di New Mother, decisamente tranquillo e perfino piacevole; poi non l’ho più visto live fino ad oggi). Ecco quindi che con i nuovi Swans Michael Gira torna a essere quel che è sempre stato e a fare quel che ha sempre fatto: un sadico sensibile che trae forza vitale dal disagio del suo uditorio, un vampiro emozionale che si nutre esclusivamente di vibrazioni negative, inculcando come un cancro maligno nella mente e nel corpo di chiunque gli stia intorno il suo malessere personale (che poi è il malessere di per sé stesso, la cosmica malvagità dell’universo o come lo vogliate chiamare)  allo stesso modo in cui si marchiano i vitelli, violentemente, irreversibilmente e senza troppe cerimonie.
In questo Gira trova nel Locomotiv il locale ideale per veicolare il suo transfert malsano. Nella bella intervista pubblicata su Blow Up di dicembre aveva dichiarato: Ho scelto in diverse occasioni di spegnere i condizionatori del locale in modo che l’aria sia asfissiante e parte del pubblico per questo sembri al limite dell’essere presa dal panico. Mi piace l’idea che si crei un’atmosfera che sia simile al trovarsi in una delle capanne sudatorie che erano in uso nelle comunità indiane. Detto, fatto: il Locomotiv post-insonorizzazione è a tutti gli effetti un forno crematorio legalizzato, un budello ermeticamente sigillato dove non tira un filo d’aria e il tasso di umidità è superiore alla media pomeridiana di Singapore nel pieno della stagione delle piogge. Risultato: i vestiti zuppi, il fiato cortissimo e l’aria irrespirabile già al secondo pezzo dell’artista di spalla, un cinghialesco James Blackshaw davvero emozionante e comunicativo quanto tristemente fuori contesto – almeno a giudicare dalle reazioni del berciante e molestissimo pubblico, disattento e infastidito come non mai. Per movimentare ulteriormente la situazione, tutti i fari rimarranno costantemente accesi e puntati sul pubblico per l’intera durata dell’esibizione (è per questo che non trovate foto a corredo dell’articolo), aumentando in maniera considerevole la temperatura interna del locale, già insensata di per sé; sono a quanto pare le condizioni climatiche necessarie per un live degli Swans versione 2010. Un lungo drone montante precede l’ingresso in scena dei musicisti, per primo il segaligno Phil Puleo (batteria e xilofono), poi il pelosissimo Thor Harris (neanderthaliano percussionista già negli Angels of Light), quindi il rotondo Chris Pravdica (basso, da subito intento a rinforzare il drone previa massicce iniezioni di ulteriore feedback spaccabudella), l’elegante Christoph Hahn (slide guitar, peraltro molto meno incartapecorito di quanto mostra l’ingannevole ritratto nel booklet del disco), l’allampanato Norman ‘Pertica’ Westberg (chitarra, occhi pallati e tatuaggi orribili) e, da ultimo, il bucolico Michael Gira, camicia da mandriano e portamento solenne da sacerdote pazzo. Parte una gragnuola di riff sopra il drone di cui sopra, che si allunga e cresce e tira e manda in paranoia i centri neuronali; Gira è impossessato, misura il palco con passo febbrile, incassa la testa tra le spalle e scalcia l’aria come un cowboy deforme, è uno spettacolo ipnotico e perturbante al tempo stesso, è l’essenza stessa del dolore. Il suono cresce e si espande come miele caldo misto ad acido corrosivo, la gabbia toracica si squaglia come in un quadro di Francis Bacon, le tempie pulsano come prossime all’esplosione, i vestiti che indossiamo aderiscono al corpo come una seconda pelle. Perdo la cognizione del tempo, di colpo riacquisto un barlume di lucidità quando mi rendo conto con orrore che mi viene da vomitare e da cagarmi addosso simultaneamente, guardo l’orologio e scopro che è passata un’ora; porto alla bocca la bottiglia d’acqua che tenevo in borsa, il liquido è caldo come piscio rimasto a macerare al sole. I Crawled (per l’appunto), e Christoph Hahn a momenti si soffoca da solo per un sorso di cocacola ingurgitato male; sembra che il mondo intero stia sudando peggio che in una fonderia a ferragosto, Gira a petto nudo ci scruta come fossimo tanti piccoli scarafaggi indegni anche di finire schiacciati. Il bis arriva come la liberazione dopo un mese in cella di isolamento, la morsa si allenta, è come iniziare a riemergere dalle profondità degli abissi; in due ore e un quarto hanno suonato nove pezzi. Ho bisogno di ossigeno più di ogni altra cosa al mondo e potrei srotolare un delirio su quanto si esca mondati di parte della merda che abbiamo dentro dopo un’esperienza del genere ma sono troppo provato e debilitato e profondamente esausto e a questo punto mi accorgo che non ho più nemmeno le parole per dirne.
Scaletta:
1. No Words/No Thoughts
2. Your Property
3. Sex, God, Sex
4. Jim
5. ??? (questa non sono riuscito a identificarla)
6. I Crawled
7. ??? (anche questa buio totale, se ne sapete qualcosa fatevi vivi)
8. Eden Prison
9. Little Mouth (bis)

 

 

N.B.: non ricordo da dove ho preso la foto più sopra. Tempo fa ho fatto una ricerca su google immagini inserendo come chiave “michael gira”, ho trovato quella, mi è piaciuta e l’ho salvata ma non ricordo nient’altro. Forse stava sul flickr di qualcuno. In ogni caso, chi volesse reclamarne la proprietà è più che benvenuto.

DISCONE: Alan Vega & Marc Hurtado – Sniper (Le Son du Marquis)

 
Le collaborazioni di Alan Vega non è che differiscano poi tanto dai suoi dischi solisti o in coppia con Martin Rev: qualcuno gli fa le basi (in senso musicale), possibilmente sferraglianti, ripetitive, alienanti, cibernetiche e acuminate, e lui ci delira sopra cose a caso esattamente come ha sempre fatto in tutta la sua vita. È il flow a fare la differenza: non esiste voce umana al mondo capace di competere con Alan Vega e i suoi streams of consciousness irraccontabili, in cui è racchiusa tutta la paranoia e la forza e la fede e il delirio e la fame di vita del mondo. Una volta che l’hai sentito “cantare” non lo scordi più. A volte il suo flow è appannato (i dischi solisti dal ’90 al ’95 e Why Be Blue), altre volte sono le basi che non vanno (l’agghiacciante Just a Million Dreams dell’85 e il mediocrissimo progetto Revolutionary Corps of Teenage Jesus, dove però Vega era in gran forma), ma la sua visione e la potenza del suo sguardo rimangono indistruttibili e necessarie ora come quaranta anni fa, quando assieme a Martin Rev e al suo Farfisa scassato dipanava i primi farneticamenti in un sottoscala putrido infestato di artisti barboni.
Sniper non si discosta (e come potrebbe?) dalle esperienze precedenti. Ai controlli questa volta c’è Marc Hurtado, metà degli inossidabili terroristi multimediali Étant Donnés (con cui Alan aveva già collaborato nel tonitruante Re-Up del ’99), che garantisce ai suoni un grado di ferocia e obliqua devianza di poco inferiori a Station, capolavoro dell’ultima fase del Vega solista che questo disco non riesce a superare. Da par suo, Alan è in flow assassino come nelle migliori occasioni, vaticinante, velenoso, febbrile, incarognito, mugghiante, ossessionato, digrignante, profetico,  impossessato da demoni invisibili e portatore e generatore di allucinanti visioni e accecanti squarci di luce. Impossibile segnalare qualche brano a discapito di altri in quello che è ancora una volta un unico ininterrotto flusso di coscienza paranoide e dissennato, mi limito a dire che per ora le mie preferenze vanno all’esagitata Juke Bone Done, in cui un Alan in speaker’s corner fattanza sentenzia che “heroes are always cowboys” con la carogna addosso. C’è anche una nuova versione – la terza – di Saturn Drive, con una base che è stata usata anche dai ‘nostri’ Post Contemporary Corporation (il pezzo era Onnagata). Lydia Lunch rantola depravata e arrancante nell’ultimo pezzo, Prison Sacrifice, un raggelante numero da Lee Hazlewood & Nancy Sinatra dei sociopatici. Se già lo amavate continuerete a farlo con ulteriore convinzione, altrimenti continuerà a sembrarvi un povero mentecatto un po’ partito di cervello; anche questo fa parte del gioco.
Per ora l’album sta su Deezer, ma bisogna vedere chi ce l’ha messo e se gli autori approvano; nel frattempo fatevi sotto.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 25-31 ottobre

L'unico candidato possibile per salvare in extremis le sorti della Città.

 
Però Bologna resiste. Hanno fatto chiudere il SynkLab e il Kindergarten, il Locomotiv (insonorizzato meglio che una catacomba courtesy of il querelante vicinato) è sempre più vicino alle condizioni climatiche di una camera a gas o alla sauna dove quel povero bastardo ha lasciato la pellaccia questa estate, pure il Redrum si è associato “per solidarietà” alla chiusura coatta dei due locali di cui sopra; eppure questa settimana è ancora una volta e nonostante tutto ricca di appuntamenti imperdibili, alla faccia di chi vuole uccidere la città rendendola un tetro dormitorio.
Si comincia oggi, lunedì 25 ottobre, con Carla Bozulich e Massimo Pupillo allo Spazio Sì (via San Vitale 67, a partire dalle 21.30, ingresso dodici euro). Martedì è già il momento di scelte difficili: contemporaneamente, Blank Dogs al Covo (il concerto è a offerta libera, per cui non fate le merde che arrivano lì con venti centesimi e cacciate la grana altrimenti poi vi meritate di scucire cifre imbarazzanti per gruppi orribili…), gli spinellosi Red Sparowes con il mescalinico Head of Wantastiquet al Locomotiv (tredici euro più altri sette di tessera AICS obbligatoria se già non l’avete) e i death-thrashers alla vecchia Dew-Scented (più della merda metalcore segnalata sulla scorsa agendina) al Nuovo Lazzaretto (dalle 22, ancora ignoto il prezzo). Doppietta all’XM24, mercoledì con i concerti di The Dreams e Scorpion Violente (dalle 22, gratis) e giovedì con Tragedy e Grinding Halt (dalle 22.30, quattro euro). Sempre giovedì però al FARM abbiamo Filippo Giuffrè e Roberto Fega (non credo sia uno pseudonimo), prima in solo poi in duo; per l’ingresso c’è da fare l’ennesima tessera, questa volta di tale “spazio Barnum”, i prezzi sono dunque otto euro (concerto + tessera) e cinque euro (solo concerto per i già tesserati). 
Flash di agenzia per i seguaci della musica di merda: si ricompone – anche se solo virtualmente – la coppia DenteBrunori SAS. I due indomiti latin lovers che le ragazze le fanno soffrì suoneranno giovedì alle Scuderie il primo e venerdì al cinema teatro Perla il secondo (entrambi dieci euro. L’uno).
Venerdì 29 trasferta obbligatoria a Modena, per la precisione al bar all’interno del multisala Victoria, dove alle 21 verrà presentato il volume “AMERICAN INDIE 1981-1991. Dieci anni di rock underground” di Michael Azerrad, lettura a dir poco FONDAMENTALE se si nutre anche solo un vago interesse per la musica, finalmente presente anche sul mercato italiano nella devota traduzione ad opera di Carlo Bordone. Poi di nuovo a Bologna per la serata (under)Ground Zero al Millennium (via Riva di Reno 77/a, ingresso gratuito con tessera ARCI), dalle 23 con Above the Tree e Gazebo Penguins, oppure ancora all’XM24 per O + Storm(o) + Staccionata + Ed + Cast Thy Eyes; infine tutti a farsi conciliare il sonno al RAUM con Hypnomachia, sleep-concert dalle 23 alle 6 del mattino a cura questa volta dei 3/4HadBeenEliminated (le edizioni precedenti sono state curate da William Basinski, i Sunn O))) e Steven Stapleton…). Non so il prezzo.
Sabato 30 ci sono i Nabat al Crash!. Non credo di dover apporre ulteriori commenti.
Nell’orgia di baccanali più o meno attinenti alla notte di Halloween, due sono gli happening letteralmente irrinunciabili: da un lato dj Rolando al Link (peraltro all’onestissima cifra di dieci euro), ovvero della storia della techno e del genere Musica in senso lato; dall’altro il party all’XM24 per la candidatura di Willie alle comunali del 2011. Il programma della serata è talmente sterminato e meraviglioso che mi limito a postarne il flyer qui sotto, lasciandovi tutta la gioia della scoperta (segnalo giusto la presenza in scaletta di Gronge e Alexander Rocciasana). Studiatelo attentamente, e poi fatemi sapere cosa scegliereste tra Rolando e questo: non so voi, ma io sono già dilaniato dal dubbio su dove andare a finire fin da ora.