Il succo del discorso che vado a fare sotto sarebbe che il nuovo disco dei Dinosaur Jr è un po’ deludente. Un po’ vuol dire non così tanto, deludente vuol dire che viene confrontato con le aspettative e il passato recente del gruppo. Vuol dire sostanzialmente che I Bet On Sky, in parte per qualche problema di suoni e in parte per altri motivi, non è buono quanto Beyond e soprattutto Farm, i dischi della reunion con Barlow. Non è un discorso che mi sento di intraprendere a cuor leggero, comunque: quando attacchi la brocca sui Dinosaur Jr fuori da questa stanza c’è sempre qualcuno che ha ascoltato il nuovo disco e lo schifa da capo a piedi perché J Mascis fa gli assoli di chitarra, o qualcuno che lo trova interessante nonostante gli assoli di chitarra, come se fosse esistito un periodo in cui J Mascis non ne faceva e/o come se i Dinosaur Jr, dopo venticinque anni, un centinaio di canzoni della stramadonna e qualche migliaio di cloni sparsi in giro, uscissero allo scoperto ogni volta con una nuova idea di suono che mette in discussione le idee di suono precedenti e per la quale devi decidere se aderire o scappare a gambe levate. E al contempo c’è gente che accoglie i Dinosaur Jr come un gruppo di rottura a prescindere, una cosa tipo duecento anni di chitarrine cremose e voci pulite però poi arrivano i Dinosaur Jr e ridiventiamo tutti pelosi eterosessuali e di destra, e tutto sommato anche io per la maggior parte del tempo faccio parte di questa gente, quindi in qualche modo un qualsiasi momento di critica ai Dinos è un momento di critica a uno stereotipo piuttosto che a un altro e ci porta lontani dalla dimensione interiore nella quale J Mascis pascola da sempre e sta continuando –diciamocelo- a fare terra bruciata. I Dinosaur Jr di Farm, comunque, avevano messo un punto a quel discorso buttandosi di testa in un suono perfetto magniloquente e disperatissimo (anche il video di Over It era un po’ la dimensione perfetta dei Dinos riformati). I Bet On Sky parte come un lavoro più negativo e rassegnato, i pezzi sono ovviamente ancora belli (J Mascis non scriverà MAI roba d’ordinanza, è uscito con le ossa intere persino da un disco acustico coi violini voglio dire), ma tirano un po’ troppo dalla parte di cose tipo Where You Been per dirmi qualcosa sulla mia vita di adesso, in qualche modo quel click che aveva reso grande soprattutto Farm non lo riesco a sentire, mi limito a sorridere per la classe e la bontà del tutto (una cosa che una volta ho fatto anche con un disco dei Grizzly Bear, per dire) e se dovessi associare I Bet on Sky a un singolo momento di gloria probabilmente mi butterei sull’osservanza garage della traccia di Lou Barlow, che si chiama Rude e se non è questo l’indice di un problema allora io non lo so (op.cit.).
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Fuck Buttons @ Locomotiv, Bologna (18/10/2009)
I Fuck Buttons su disco sono poco meno che merda di cavallo, il primo era qualcosa come l’album goa trance più noioso del mondo e questo nuovo più o meno la stessa roba con suoni migliori e in più la cassa dritta, sempre e comunque mezza idea ripetuta all’infinito e in ogni caso nulla che non fosse già stranoto alle orecchie del più tossico e rimbambito raver di bocca buona lo scorso decennio; ma è merda che dal vivo può suonare molto bene, specie a volumi inauditi contro le incolpevoli mura di un locale grande abbastanza da costituire efficace cassa di risonanza. Questa perlomeno è la speranza. Ad attirarci è anche la presenza nel bill di Chris Brokaw; ho perso il conto delle volte che l’ho sentito dal vivo, anche scandagliando tra le pagine del suo puntigliosissimo sito ufficiale non riesco a mettere ordine nella mia memoria (comunque mi rendo conto che non possono essere state meno di cinque o sei), ma ogni occasione è buona per ritrovare quello che ormai somiglia molto, nella nostra percezione, a un vecchio amico un po’ dissociato che conosciamo come le nostre tasche e che soprattutto conosce bene noi, e sa bene come parlarci arrivando dritto al cuore. Si capisce fin da subito comunque che non è la serata adatta a lui: il pubblico è disattento, molti non hanno la più pallida idea di chi sia, lui se ne frega e attacca un set sorprendente (anche se purtroppo abbastanza breve), respingente, ad altissimo coefficiente di autismo, più di tutte le altre volte che l’ho visto messe assieme. Chitarra elettrica e amplificatore, in poco più di venti minuti biascica due canzoni con la solita voce da casellante sull’orlo del suicidio, il resto è una colata inarrestabile di drones marmorei e disperatamente umani allo stesso tempo, angoscianti, spiazzanti e carichi di dolore come un urlo nel buio. Un impressionante flusso di coscienza che dispiace solo termini troppo presto; Chris ringrazia e se ne va, e qualche applauso gli arriva pure ma questa è roba che ti scava dentro. Lui è un gigante.
Dalle stelle alle stalle. Avevo già visto gli HTRK di spalla ai Liars nel 2007, ma il ricordo di loro si era completamente obliato nella mia mente, e appena attaccano mi rendo conto perché; loro sono due cinesi bruttissimi e una tipa sfatta che percuote una sottospecie di tamburo con la verve di un becchino la domenica pomeriggio e biascica cose con tono semilugubre annoiato a morte, e tutti e tre hanno l’aria di chi ti sta facendo un favore a starsene lì impalati a guardare la gente con sussiego. Dopo due pezzi ne ho già le palle piene della loro scialbissima copia carbone del post-punk austero e nichilista e antiumano “di una volta” e me ne vado al bar all’angolo. Per la cronaca, gli HTRK vengono pubblicizzati come “in assoluto uno dei gruppi preferiti di Sasha Grey“. Come dire: se questa è la freccia migliore che hanno al loro arco, chissà il resto. Non musica ma acqua fresca.
I Fuck Buttons iniziano male: in piedi uno di fronte all’altro, su un tavolo dispiegato tutto il loro armamentario, un tripudio di pulsantiere valvole fili spie luminose da mandare in fregola un elettricista pazzo, iniziano a schiacciare tasti a caso e parte un maelstrom indistinguibile di elettronichina free-scazzo che potrebbe essere l’inizio di Surf Solar o di qualsiasi altro pezzo di qualsiasi loro album, peraltro a volume ridicolo. Dopo tre minuti parte la cassa ignorante quindi il cerchio si restringe: deve per forza trattarsi di un pezzo (uno a caso) del nuovo disco. Loro si agitano come due ritardati che cercano di scoparsi una maniglia; comincio a chiedermi cosa cazzo ci sto facendo qui. Poi cambia qualcosa: non saprei dire esattamente cosa, e a posteriori proprio non riesco a isolare il momento esatto in cui mi rendo conto che questa merda funziona, il volume si alza lentamente ma inesorabilmente, comincio a sentire il pavimento vibrare e le mie budella attorcigliarsi, i suoni diventano belli, giusti, necessari, una sinfonia cosmica portatrice e produttrice di gioia e amore e sentimenti positivi in genere. D’un tratto mi viene voglia di abbracciare ogni singolo essere vivente. È rave nell’accezione più letterale e filologica del termine: sragionare, delirare, andare in estasi; non tutto è a fuoco e non tutto gira alla perfezione (il concerto è un’unica ininterrotta jam in cui i brani si incastrano l’un l’altro seguendo logiche diverse rispetto al canovaccio imbastito in studio), ma l’idea generale è di qualcosa di incredibilmente energico e profondamente positivo e endemicamente contagioso. Perso nel mio trip, ogni tanto riacquisto lucidità e mi volto a guardare quel che succede attorno a me; incredibilmente la stragrande maggioranza del pubblico non coglie, a parte qualche tarantolato sono tutti immobili a osservare il palco con occhio critico. Come se quel che sta succedendo là sopra fosse materia da premio Nobel, quando invece è roba stupidissima progettata con il solo scopo di far muovere il culo dimenandosi in modo imbarazzante e sudando come cinghiali. In ogni caso, è roba che solo live acquista un senso. Il set termina bruscamente, di colpo, e il silenzio arriva brutale, penetra prepotentemente il condotto uditivo dopo cinquantasette minuti spaccati di pura estasi mistica a livello esclusivamente epidermico. Mi sento bene.
PS la foto l’ho presa da qui cercando con google immagini.