What do you do with your past? When I sit in the van for hours at a time, I walk backward through myself and think about the things that have happened. A word that I despise comes into my thoughts: that word is regret. I hate that one. Regret is an ugly and destructive luxury and it must be avoided at all costs.
(Henry Rollins, Black cofee blues)
Ho cominciato ad ascoltare musica elettronica nel 1991. Un bambino. Smanettando a caso con la manopola della ricezione sulla radiolina di mio padre finisco su Radio Deejay un pomeriggio come altri: la scuola, i compiti, i giochi. Da allora: la musica, la scuola, i compiti, i giochi. Poi la scuola è finita, la musica è rimasta e non è più andata via. Ricordo ancora i primi pezzi a essermi esplosi in faccia, una potenza al cui confronto le rivelazioni diventano scoregge di mosca (ai titoli sarei risalito molti anni più tardi): James Brown is dead, Dominator. Roba olandese cattivissima, ostile, ghignante, in quel periodo andava quell’onda lì. Albertino il demiurgo. Più della voce, robotica ma confidenziale, immediatamente famigliare, da vicino di casa preso bene e un po’ svalvolato, più della selezione musicale (almeno quattro passi avanti agli altri network – quelli che avevo ascoltato io perlomeno), a stamparsi in testa all’istante e per sempre era il quadro generale. Era l’insieme a fare la differenza: un flusso inarrestabile di musica e parole con netta predominanza delle seconde sulla prima, i brani raramente duravano più di due minuti di fila, sommersi da uno strabordante fervore comunicativo senza precedenti e senza successori. A ogni istante tracimava prepotente un lessico tra il gergale (sugli anelli di Saturno, probabilmente) e il compagnone, con inserti cartooneschi pescati dalle più improbabili sorgenti sonore (Gerardo, Mo’ Ritmo, ci ho messo anni a riconoscerlo), smontati, rimontati e ricontestualizzati trasfigurandone il senso originario fino a renderlo irriconoscibile (il “bitch” di Dr. Dre diventato “piàch”, ancora mi si crepa il cervello al ricordo); qualcosa a metà strada tra John Oswald, un televisore imbizzarrito, il campionatore sempre acceso e le teorie di Zygmunt Bauman applicate alla lettera.
Fino a tutto il 1995 non mi sono perso una sola puntata di Deejay Time e Deejay Parade. Ero, per autoproclamazione, un “amico della cassettina”. A conti fatti, ho ascoltato Albertino molto più tempo di quanto abbia speso insieme ai miei genitori e tutti i miei parenti. Poi sono usciti gli ultimi pezzi dance, Jump for joy dei 2 Unlimited, Crying in the rain dei Culture Beat, parte del totale è collassato e ho perso interesse; altri suoni, altre traiettorie, la vita che esige altre colonne sonore, un insieme di cose. Da allora niente più Radio Deejay. Mai sentito l’esigenza di una rievocazione, ignoravo il revival; non ne avevo (non ne ho) bisogno. So da dove vengo e so bene che il mio debito è immenso: grazie ad Albertino (e ai suoi cenobiti Fargetta, Molella, Prezioso) ho scoperto la techno (gli olandesi di cui sopra, tutto l’hoover sound di quegli anni farciti di anfetamine e brutti trip, mirabilmente tradotto con il termine “zanzarismo”; ma pure Green Velvet, erroneamente segnalato come “Underground Goodies”, confondendo il titolo sulla fascetta per l’autore), l’house (I’ll be your friend, Robert Owens; People get up, Double Dee), l’hip hop (i Public Enemy sparati in fronte alle due del pomeriggio, Fight da faida stesso discorso, anni dopo con i Sanguemisto uguale), l’italo-plagiarismo dei Black Box, certo tutta l’eurodance (da Haddaway a Corona, da Moratto a Tony Di Bart), e un sacco di altre cose. Le ricordo tutte, non le ho mai dimenticate.
Chiunque isoli ex-post il Deejay Time a simpatico ciarpame da classifica di Sorrisi e Canzoni (tempi in cui i singoli e le compilation vendevano come il pane), a mero amarcord di quando eravamo tutti più giovani e non ancora usurati dal tempo, contenitore di bei ricordi in quanto tali pilotati dalla nostalgia canaglia di tempi in cui le rate e il triplo mento erano concetti ignoti, pura astrazione, ha la memoria corta o è chiaramente in malafede. Soltanto i sordi, o chi non c’era, ne ignorerebbero la portata. Senza contare la colossale rivoluzione lessicale, semantica, operata con scioltezza tale da far sembrare Marshall McLuhan un barbone.
Non sono tempi a cui guardo con nostalgia, per la semplice ragione che dentro di me non sono mai passati. Non è qualcosa a cui tornare, perché ha sempre fatto parte di me. Ancora troppo presto per organizzare il proprio sgargiante declino, ma non abbastanza da non averne un’idea.