STREAMO: Danzig – Deth Red Sabaoth

 
A ripensarci oggi sembra assurdo, ma c’è stato effettivamente un tempo in cui della carriera di Glenn Danzig importava qualcosa a qualcuno: quattro dischi-capolavoro uno dietro l’altro, un contratto di ferro e i videoclip in heavy rotation su MTV, copertine su tutte le riviste che contano, collaborazioni con Roy Orbison e Johnny Cash, due VHS finite dritte in classifica (come del resto tutti gli album e l’EP Thrall-Demonsweatlive) e, una volta terminato il sodalizio con Rick Rubin, una lotta a coltello tra le major per aggiudicarsi lo gnomo satanico a suon di dollaroni (la spunterà la Hollywood Records del gruppo Disney). Sono gli anni novanta e Glenn Danzig è il re del mondo. Poi, all’improvviso, l’incantesimo si spezza; chissà perchè, il bizzoso Glenn licenzia in tronco l’intera backing band storica e decide di occuparsi di tutti gli strumenti (a parte la sporadica collaborazione di Jerry Cantrell), stravolgendo completamente il suo stile nell’ignobile Danzig 5: blackacidevil. È il 1996 e, sull’onda lunga del capitale The Downward Spiral, l’industrial metal è tra le correnti musicali che vanno per la maggiore; Danzig l’abbraccia con entusiasmo totalizzante e convinzione incrollabile, ma il disco è talmente brutto, scombinato e drammaticamente privo di costrutto che ancora oggi non ci si crede. Fasciato da un inguardabile artwork ad opera di Joseph Cultice (fotografo ufficiale di Gary Numan tra le altre cose) quasi a preannunciare lo sfacelo, rigettato e boicottato dalla stessa casa discografica (che costringerà l’uomo a ri-registrare più di metà del materiale, nella vana speranza di ottenere qualcosa di anche solo lontanamente salvabile), la carica di profonda e inestirpabile insensatezza dell’insieme amplificata a dismisura dalla presenza in scaletta di un’incomprensibile cover di Hand of doom dei Black Sabbath (che con l’originale, manco a dirlo, non ha assolutamente nulla a che spartire a qualsiasi livello), blackacidevil è la disfatta su tutti i fronti: non vende un cazzo (meno di centomila copie in sei anni a fronte dei milioni di unità in pochi mesi delle precedenti uscite), viene massacrato dalla critica e tristemente ignorato dal pubblico, che abdica in massa il tour successivo (effettuato con una lineup messa insieme alla bell’e meglio, che – se la memoria non falla – comprende tra gli altri Tommy Victor dei Prong alla chitarra). Forte dei successi passati riesce a strappare a Sharon Osbourne un posto di tutto rispetto nella prima edizione dell’Ozzfest, la migliore (è il terzultimo a esibirsi, prima degli Slayer e Ozzy!), ma il suo show è poco meno che patetico. Da allora in poi, l’oblio (o quasi): contratti per etichette sempre più oscure (E-magine per 6:66 Satan’s Child, che almeno potè godere di distribuzione Nuclear Blast per l’Europa, addirittura Regain per un paio di sciattissimi DVD, fino al varo della propria label personale Evilive), copertura stampa inesistente, disinteresse ormai inscalfibile da parte di chiunque, ma soprattutto – ed è l’unica cosa che conta in fondo – dischi sempre più scalcagnati, grotteschi, tristi. Spine nei fianchi (ormai ridotti allo stremo) di chi non lo ha mai dimenticato. Il recentissimo Deth Red Sabaoth spezza un silenzio discografico durato sei anni (se si eccettua l’operatico Black Aria II emesso nel 2006 a nome Glenn Danzig); è un buon disco. Non è il primo omonimo o Lucifuge (tocca rassegnarsi, dischi così è già una fortuna se escono una volta), ma non assomiglia nemmeno alla merda degli ultimi, uh, quindici anni. C’è l’artwork fumettistico di Joe Chiodo, c’è una produzione fangosa da palude di New Orleans, c’è la voce da reincarnazione indemoniata di Elvis Presley che torna finalmente a graffiare. Soprattutto ci sono, di nuovo, i pezzi: dalla cavalcata di Rebel Spirits al madrigale On a Wicked Night, dalla morrisoniana Juju Bone all’epica suite in due parti Pyre of Souls – la prima ideale soundtrack per un horror di serie Z con zombi scarnificati e tettone urlanti, la seconda un numero dark di inusitata ferocia che cresce con un lirismo da far scappare via piangendo i Manowar di Into Glory Ride. Ma perchè fidarvi delle mie parole quando potete ascoltarlo con le vostre orecchie dalla pagina di AOL Music? Lo gnomo palestrato che odia Cristo è tornato, ed è tornato in forma abbastanza da reggere con scioltezza paragoni impegnativi e guardare finalmente senza rimpianti a un passato che, a molti, la vita l’ha cambiata davvero. Questa notte il mio stereo tornerà ad ospitare i primi quattro dischi di Danzig, uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità. Un atto dovuto.