Ciao, ieri sera ho visto un concerto dei Radiohead

Caribou spacca il culo, ma è facile spaccare il culo se hai un batterista così. Una mezz’ora di musica tirata con una Sun paurosa nel finale e potrei quasi andarmene a casa come quel tizio che quella volta scrisse il report del concerto degli Editors di spalla ai REM (chissà se si trova il link). La realtà dei fatti è che ho pagato cinquanta euro all’ingresso, per poter dire a cuor leggero di aver visto i Radiohead dal vivo e non dovermi sorbire passivamente il chiacchiericcio della gente che il giorno dopo parla di concerto della vita e/o che non potrai capire davvero i Radiohead da Kid A in poi finché non li avrai visti dal vivo, quindi di base ho pagato cinquanta euro per non farmi dare del rottinculo che parla dei Radiohead senza cognizione di causa. Sto mentendo, naturalmente: ci sono andato perché The King of Limbs per me è molto meglio di tutti i dischi da Kid A in poi e anche se non lo ascolto così spesso, insomma. E mento anche sui cinquanta euro: sono cinquanta di biglietto più dieci di panino e birra più una decina di autostrada andata e ritorno e più o meno un’altra decina di metano, quattro euro a parcheggiare in un posto improbabile e cristo di un dio i perdenti li riconosci perché al ritorno non si fermano a Castel San Pietro a fare cappuccino e brioche. Il prezzo del biglietto è cinquanta euro, il costo di un concerto dei Radiohead si avvicina al doppio. La gente non s’accalca ma quasi, fortunatamente l’arena Parco Nord di Bologna ne terrebbe tranquillamente il doppio –rimane il fatto che di gente ce n’è un sacco, non so quantificare un numero così, probabilmente è il concerto con più gente che ho mai visto, in assoluto.

Non ho mai visto gli U2. Una volta sono andato fuori da un concerto di Vasco, epoca Gli Spari Sopra, ma stare fuori credo non conti. Ho visto qualche Heineken Jammin’ Festival ma mai di quelli superpieni, forse i Pearl Jam di un paio d’anni fa a Venezia possono competere. I concerti grossi mi fanno schifo perché attraggono esseri umani di merda, gente palesemente cresciuta nelle caverne che piscia negli angoli, fa meno docce a settimana di quante ne faccio io (una cosa che francamente non credevo possibile, voglio dire), può sopravvivere per decenni nutrendosi soltanto di panini con salsiccia e cipolla e birra innaffiata, si carica sulle spalle a vicenda e vede i concerti come metafore della battaglia di Frankenhausen, considerando il concerto riuscito solo nel momento in cui parcheggiando l’auto davanti a casa si sente svuotata di ogni umore, piena di lividi e incapace di fare qualsiasi altra cosa che preveda l’uso delle gambe per il resto della settimana. Il tutto in cambio di un racconto del giorno dopo come nelle pubblicità della coca cola, tutti quanti hanno cantato assieme lo stesso pezzo e tanti saluti.

I Radiohead naturalmente hanno fatto di tutto per non farsi associare a quella immagine e per un momento mi viene da pensare che sarà bello vedersi un concerto della band giusto per vedere che effetto fa vedersi trentamila indiesnob non-ballare e non-emozionarsi nella stessa arena. Col cazzo: i fan dei Radiohead sono un pubblico rock composto per almeno metà da gente normalissima che attende all’evento nella non-segreta speranza che il gruppo la smetta di menarsela col trip del musicista sperimentale e si rimetta a suonare Creep nel secondo bis come un gruppo normale. Come fai a relazionarti a un pubblico che ti infila a forza nel calendario assieme ai Coldplay e ai Muse? Suoni la tua cosa, tiri su uno spettacolo della madonna e tanti saluti. Il palco è qualcosa di impressionante: due ordini di colonne a led dietro il gruppo, una fila di schermi in cima alle impalcature e una decina di schermoni mobili che vengono orientati diversamente alla fine di ogni pezzo. I Radiohead salgono sulle nove e mezzo e iniziano con Lotus Flower. Due ore e mezzo di concerto dopo, Everything in its Right Place in chiusura, finisce tutto quanto. The King of Limbs eseguito più o meno per intero, tre pezzi da OK Computer e tutto il resto pescato dai dischi che stanno in mezzo. Thom Yorke, considerato più o meno uno dei pochi musicisti al mondo che decidono cosa è cool e cosa no, fatica a spiaccicare una parola in fila all’altra, e come in ogni brutto viaggio del rock le parole che tira fuori sono perlopiù in italiano maccheronico. Nota a margine: perché i musicisti mainstream s’impuntano col ringraziare in italiano? Se pensano che ringraziarci in inglese non sia carino, perché non traducono pure i testi delle canzoni? Alzi la mano chi considera offensivo sentir dire thanks a lot invece che grazie mille da un cantante inglese. Lunga e poco interessante storia. Dicevo, è difficile dare degli incompetenti ai Radiohead, il gioco di luci è uno dei più seri che memoria d’uomo ricordi, i pezzi sono eseguiti senza sbavature e con un dispiego di mezzi che sembra aver coinvolto qualche cinquantina di persone in fase preparatoria. Il problema principale dei Radiohead è che al netto di tutto il dispendio di cui sopra e della perizia con cui gli arrangiamenti ti piovono addosso fino a farti sanguinare le orecchie, in un live di due ore e mezzo i momenti di autentica passione sono quasi zero. C’è un momento in cui la cosa sembra decollare: al primo bis si presentano sul palco Thom Yorke e Jonny Greenwood, attaccano Exit Music, il pubblico si ammutolisce e assiste in un silenzio tombale che ho visto poche volte anche ai concerti con sette persone sotto il palco. Al secondo movimento Thom Yorke smette di suonare e pronuncia l’unica frase articolata in inglese della sera: Jonny turn the fuckin’ $£”% off. Il pubblico inizia a far caciara e poi il pezzo ricomincia con l’aggiunta di un aereo che sta per atterrare al Marconi ma senza il pathos di prima, con Yorke che non spinge poi molto sulla voce e il gruppo che suona la roba di quindici anni prima come se si stesse facendo un giro nei bassifondi. Voglio dire, non si può dire che sia stato un brutto concerto, ma dubito che uno spettacolo del genere possa convertire chi non è già un fan di stretta osservanza. La botta di culo è che i fan di stretta osservanza sono già diversi milioni e riempiranno comunque le arene per altri dieci anni senza battere ciglio. L’altra botta di culo è che Stanley Donwood è abbastanza bravo da non dovermi far cercare delle foto del concerto su internet. La botta di sfiga è che molti fan di stretta osservanza sanno dove abito e mi picchieranno a sangue e/o accuseranno di non capire un cazzo di musica ed esistenza. Senz’altro vero, ma la prossima volta seguo le dritte dell’Agendina dei Concerti.

Navigarella #6

escono dalle fottute pareti.

Non ho avuto il tempo di scrivere un pezzo sul ritorno dei Biohazard che Evan Seinfeld esce dal gruppo. I Biohazard senza Evan Seinfeld non sono proprio come i Nirvana senza Kurt Cobain, ma quasi. Bobby Hambel, che s’era tolto dai coglioni già prima di Mata Leao, dichiara “siamo amici ma è ora di andare avanti”. Nessuno mi venga a dire che sono io a portare sfiga.

Tornano i Rapture, quelli con l’articolo davanti, con un pezzo nuovo su DFA. Un tizio che conosco (spoiler: scrive su bastonate) definì Echoesun indigeribile beverone di stimoli e luoghi comuni raffazzonati alla bell’e meglio con un patetico clone di Robert Smith alla voce a rovinare definitivamente quel poco di salvabile.” Claudio Sorge, riferendosi a loro di striscio, parlò di “quel ritmo fighetto in 4/4 tutto uguale e copiato dai PIL”. Verissimo, peraltro. Io continuo ad essere, irragionevolissimamente, un loro fan.

I redattori di Metalsucks hanno finito di compilare la lista dei 25 chitarristi metal più influenti della nostra epoca. Le regole per l’inclusione erano essere un chitarrista, suonare metal e avere pubblicato un disco negli ultimi cinque anni. La lista uscita fuori è piuttosto eterogenea: si divide quasi equamente tra pestone OALD (Alex Skolnick, Petrucci, Frederik Thordendal) e pestone NU (Ben Weinman, quei beccamorti degli Avenged Sevenfold etc) senza scordare un paio di declinazioni RAWK tipo Jerry Cantrell e Adam Jones e la roba weird tipo Buckethead e dio cristo il chitarrista dei Behold The Arctopus. Il vincitore è il chitarrista dei Revocation, che saran pure un gruppo discreto ma anche LOAL. Se pensate che la lista di Metalsucks sia ridicola, in ogni caso, avete due ragioni di ricredervi: la prima è che è sempre meglio della infinita lista rollingstoniana dei cento chitarristi più importanti della storia con Jimi Hendrix ancora al primo posto (D.Boon > Jimi Hendrix, ma anche Mia Mamma > Jimi Hendrix. Zecche demmerda); la seconda è che un paio di giorni dopo il sito ha pubblicato i risultati della poll dei lettori (avevo votato anch’io. King Buzzo, ovvio) e ha parlato di un clamoroso testa a testa tra quel beccamorto di Devin Townsend e il chitarrista dei Between the Buried and Me (l’ha spuntata il secondo).

Sempre su Metalsucks c’è un live dei folliTM Isis in streaming.

Sulla Blogotheque invece il concerto a portar via del giorno/settimana/mese è di Thurston Moore. Non ho ancora sentito il suo disco acustico. Mi dicono sia carino. Non mi fido.

Lady Gaga ha spaccato il culo all’Europride, piano e voce. Born This Way non è Monster (il quale, già si sapeva, rimarrà il suo insuperato capolavoro) ma è molto più bello di come lo dipingono in giro. Il mio pezzo-bolgia del mese comunque è Man Down di Rihanna. Ram-pa-pa-pam.

Abbiamo perso l’occasione di segnalarvi il contest per suonare al MiOdi, ma tanto il vostro gruppo FA CAGARE. Oggi dovrebbe uscire il vincitore del contest.

Domenica è uscito su Repubblica un articolo su The Room, che non so se avete presente (immagino di sì) ma è un cult movie della nostra epoca. A parte il fatto che un articolo su The Room sia di per sé una cosa stagionatissima, Paolo Pontoniere inizia la recensione scrivendo “probabilmente di film peggiori di The Room, se si fa eccezione per il recente The Expendables di Stallone e i vari film interpretati da Ronald Reagan, se ne sono visti raramente”. Cogliamo quindi l’occasione per ribadire che The Expendables è, nelle eterne parole di Giona A.Nazzaro, “un capolavoro che non si discute”. Ecco. The Room invece non l’ho ancora visto. Sostanzialmente in questo periodo sto solo riguardando Fast Five.

Jamie Wreck, cinquanta regole di base per chi studia graphic design. Non sono nemmeno un fruitore ma c’è scritta roba talmente sensata che l’ha ribloggato Glen Friedman.

Tornando a scriver male di Repubblica, c’è un articolo che cerca le ragioni alla base del disastro di pubblico di quella che è indubitabilmente la più brutta patetica e sbagliata edizione dell’Heineken Jammin’ Festival di sempre, titolando “il flop dei festival musicali” e “addio allo spirito di Woodstock”. WOODSTOCK, porca troia. Il pezzo ovviamente va letto, perché contiene cinquanta righe di lamentele generiche dei promotori e delle agenzie di booking che non guastano mai. Nella segreta speranza di venire assunto come consulente artistico, nel qual caso il prossimo anno gli headliner saranno gli Shellac, vado a elencare tre ragioni del flop del festival che sono MOLTO più plausibili di quelle culturali e strutturali srotolate nell’articolo in questione.
1 l’HJF non è un festival. I festival, quantomeno oggi, hanno una ragione alla base, una ventina di gruppi al giorno e una –anche trascurabile- dimensione umana. L’HJF è un concerto organizzato da Heineken in cui la gente che vuol vedersi l’headliner viene disturbata da tre o quattro pessimi gruppi di supporto.
2 il bill di quest’anno era ridicolo.
3 ci sono concerti migliori pochi giorni prima e dopo (tipo il Sonisphere. a proposito: il sabato sono al sonisphere, qualcuno di voi c’è?).
Aggiungo la 4: lo spirito di Woodstock ce l’avrà tua mamma.

Una bella storia a margine, parlando di festival in Italia, è quella del Rock in Idrho –che ovviamente ho considerato, perché è l’unica data dei Social D in Italia. Nel sito del Rock In Idrho era uscito un elenco delle regole da rispettare al festival: Divieto di uscire dall’arena concerti, obbligo di depositare gli zainetti al guardaroba, divieto di portarsi mangiare e bere da casa –in pratica mancava la voce “ad alcuni fortunati sarà tatuato un numero di sei cifre sull’avambraccio”. La gente è sostanzialmente esplosa. Il tutto è parzialmente rientrato. Se andate al Rock In Idrho sappiate comunque che gli Stooges suoneranno prima (e meno) dei Foo Fighters. È anche giusto: i Foo Fighters hanno un repertorio imponente.

Questo fine settimana c’è stato il MiAmi, che contrariamente all’HJF è un festival VERO (per quanto, sospetto, orribile). In qualche fashion blog o fashion magazine o fashion qualcosa italiano sono uscite foto che davano dritte sull’abbigliamento partendo da foto delle annate precedenti ed è uscito allo scoperto L’ORRORE, vedi appunto sopra.