Dieci anni fa, in una libreria di Napoli, io e un mio amico vedemmo una tizia comprare un libro di Robin Norwood, e lui commentò: “Che palle ‘e donne che leggono i libri deee donne”. In effetti: che palle le donne che leggono i libri delle donne, che poi, quasi tutti i libri sono delle donne, perché alla base di ogni libro (tranne il Tractatus di Wittgenstein – e le battutacce si sprecano) c’è una donna in uno di questi sensi, (1) è l’autrice, (2) è l’AMMORBO che ha causato la scrittura di questo libro in un modo o nell’altro, (3) è presente sotto la forma di DOLORE (che NOIA il dolore, soprattutto il dolore degli uomini, maschi dallo sguardo languido), (4) è il COLEI o COLORO cui è dedicato, nel senso che c’è sempre un laido Camilleri da qualche parte che dichiara alla Repubblica, “Il libro è dedicato alle DONNE della mia vita, senza di LORO non ce l’avrei fatta” (Camilleri sta tentando di vendere un libro intitolato proprio DONNE, ndr). C’è questa storia del rispetto/amore delle DONNE , che sarà pure autentico in qualche caso, ma è in generale una bassa e vile manovra di rimorchio generico, che è uno dei più grandi incubi che viviamo al giorno d’oggi – e c’è poi questo residuo di ombra di pallida imitazione del femminismo, quella distorta interpretazione dei fatti che porta molte DONNE, da parte loro, a “non rinunciare alla femminilità” (nome che loro danno al vestirsi come bagasce) e a “pretendere la parità” (=andare a combattere in Iraq e far causa all’esercito americano perché non c’era la sala parto a Falluja) in modo del tutto errato, che le porta a assomigliare piuttosto a MASCHI e a svolgere un pessimo servizio per il loro genere. Quest’ultima frase si legga come messa palesemente lì per pararmi il culo. E la prossima frase, ossia “Questa puntata di LIRBI è dedicata ai libri scritti da donne che rispetto per non essere tutto ciò che detesto”, come inserita per mostrare che in fondo sono amico – in fondo SCHERZAVO.
______________________________________________________________________
Shirley Jackson, L’incubo di Hill House, Adelphi, pp. 233, € 16,00
Shirley Jackson era una donna, ma nonostante ciò faceva paura. Attenzione, non che le donne non facciano paura (“ecco, il MASCHIO ci teme”) ma, nel suo caso, la povera Shirley faceva pura in senso positivo – non era, o almeno non credo, come sono loro, assertive e malefiche e incapaci di perdono, Zeus bromie montate su altissimi tacchi. Shirley Jackson è l’unica persona, a mio avviso, ad aver scritto un romanzo horror autenticamente spaventoso al di fuori di Stephen King – si tratta di questo L’incubo di Hill House che ha stabilito, una volta per tutte, che le cose che fanno davvero cacare sotto non sono quelle che SE VEDONO, ma le robe tipo ombre, passi, tenere una mano nel buio e accorgersi quando torna la luce che la tua compagna di stanza sta dormendo su un letto lontanissimo dal tuo. (8 in generale, 10 nel genere, 4 alla media dei due film tratti da questo libro – 7 quello anni ’50, 1 quello anni ’90 -, ma forse 11 al fatto che una saggia frase tratta dal film anni ’50 è stata campionata a introdurre un pezzone dei White Zombie. Respect.)
Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, pp. 320, € 10,00
Ho sempre pensato che Dio avesse l’aspetto di mia madre – questa vecchia insoddisfatta tra le nubi – e questa è in sostanza la grossa differenza tra me e Kafka. Lui, come Paul Auster (che vitupero e disprezzo, e peraltro mi sto riferendo all’unico suo libro non scritto da lui), pensava che Dio fosse suo padre, e da questo pensiero sviluppò tutta una teoria secondo la quale la burocrazia era il male assoluto. Pe’ falla breve, eh: pe’ falla lunga dovreste leggervi le opere di Kafka (e non vedervi il film, che rovina tutto, con quel coglione di Anthony Perkins che sbaglia il finale recitando sopra le righe), e poi riflettere sul nazismo. Proprio come fece la Arendt, che non so se vide mai il film, ma che come corrispondente di non so cosa assistette al processo Eichmann, dandone una chiave di lettura totalmente kafkiana. Che poi, visto il titolo efficace (che riprende, curiosità, una parte del sottotitolo della versione originale, intitolata asciuttamente Eichmann in Jerusalem), è stata ripresa e banalizzata in tutte le salse, diventando una frase fatta di quelle come GRANDE FRATELLO e MACCHINA DEL FANGO, di quelle ormai talmente entrate nell’uso da essere usate in contesti come “femminicidio a Sora: la banalità del male”, che figuratevi quanto fanno contenti me, la Arendt e Kafka, noi grandi amanti delle categorie mentali disturbate. (8 al libro che è al tempo stesso una rottura de coioni d’altri tempi e molto bello, 2 al fatto che la tesi della Arendt sia ormai molto poco accreditata – un saggio recente, Eichmann Before Jerusalem, scritto da un’altra donna, Bettina Stangneth, LULZ, è il vero nome, in particolare pare dimostrare che fosse tutto un trip della Arendt, e cioè che Eichmann non fosse un grigio burocrate ma un figlio di puttana satanico e assassino tipo dal primo giorno di vita. Il che è ben più plausibile, e come tutte le cose plausibili, spezza la bolgia delle nostre teorie filosofiche. Grazie tante Bettina, eh, e ora fottiti)
Patricia Lockwood, Motherland Fatherland Homelandsexuals, pp. 66, Penguin, $ 20,00
A un certo punto della mia vita, sovrastato dai LIRBI che avrei dovuto leggere e non riuscivo a leggere, dove “non riuscivo” significa grossomodo “fai presto a comprà un libro di filosofia analitica in inglese, ma proprio stasera fanno in tv la Lazio, e domani e sempre c’è Internet”, che mi convinsi a iniziare a leggere poesia. Succedeva tempo fa – saranno ormai ventidue ore -, e la ragione è che la poesia è CORTA. Almeno è CORTA nella mia mente, perché quando Omero attacca la pippa ci vorrebbe un attacco dell’armata troiana per fermarlo, e comunque LUI CANTEREBBE IL FATTO, allugando la broda di altri duecento versi. Leggermente diverso dal leggere Omero in greco antico è sfogliare le sessantasei pagine del secondo libro di Patricia Lockwood. Dico “secondo libro” per dare a intendere che la conosco da tempo, dagli esordi, leggevo le cazzo di riviste di poesia americane quelle ciclostilate quelle fiche, e non che abbia sentito parlare di lei assieme al resto del mondo per via di una sua poesia diventata VIRAL (“Rape Joke”, è anche in questo libro). Ok, è vera la seconda. E ok, poeta donna che parla di stupro in epoca di FEMMINICIDIO e diventa famosa grazie ai SOCIAL, aggiungeteci una copertina hipster-chic e avete pressoché tutti gli elementi per la perfetta incarnazione del Tutto Ciò Che Odio (manca solo, forse, Emma Watson demmerda che parla alle stronze NU). Il problema è che il libro è grandioso – e, per la precisione, non ci sono arrivato per mezzo di Rape Joke (che a proposito, fa male fisico: trentacinque anni di maschilismo annientati in quattro o cinque pagine), ma per una poesia pubblicata tempo fa dal Corriere della Sera, che parla di quando hai dieci anni, sei fatto di tempo, ti innamori dell’antico Egitto e la tua luce di bimbo fa risplendere le antiche tombe, fino al più piccolissimo gattino impagliato, al più piccolissimo scarabeo. (30 centesimi a pagina – ma anche meno, nessuno paga più i libri a prezzo di copertina – è un costo davvero irrisorio per un libro che leggo sull’autobus, e poi guardo fuori dal finestrino, intenso)
