Dinosaur Jr. @ Estragon (Bologna, 10/9/2009)

Piccola premessa obbligatoria: J Mascis sono i Dinosaur Jr. Quella con Lou Barlow e Murph è solo una formazione, e nemmeno la migliore. Di solito chi pensa che Dinosaur Jr = J Lou e Murph sono le stesse teste di cazzo che ritengono “banali” dischi come Where You Been o Hand It Over (il vero capolavoro misconosciuto del marchio, uno di quei dischi di cui si può solo sperare di poter arrivare a comprenderne parte della grandezza), gli stessi microcefali che liquidavano con un’alzatina di spalle le uscite a nome J Mascis + The Fog atteggiandosi a chi è ormai avvezzo a tutto e annoiato a morte, gli stessi mongoloidi che ora si spellano le mani a furia di applausi e accorrono a frotte all’obbligatoria reunion accontenta-idioti di tempi recenti. Gente, in ogni caso, che sembra faccia un vanto della propria intrinseca coglionaggine nell’insistere a non voler capire che le sole differenze tra You’re Living All Over Me e Free So Free sono il nome sulla copertina e due canzoni brutte in meno. Che Dinosaur Jr significa J Mascis, gli altri sono solo braccia intercambiabili dietro allo strumento. Per questo, il fatto che un concerto potenzialmente perfetto sia stato in parte rovinato da due gregari del cazzo che per chissà quale motivo (che non so né voglio sapere) avevano poca voglia di suonare è qualcosa che, a posteriori, è capace di toglierti il sorriso per settimane. A posteriori, perché lì sul momento l’Estragon era talmente pieno che era già tanto se riuscivi a renderti conto di stare al mondo: la collocazione dell’evento all’interno dell’usuale “Summer Festival” (dieci concerti compresi in una tessera dal costo di dieci euro) ha reso la serata decisamente appetibile anche per via del prezzo ribassato (contando che le altre date viaggiavano a una media di diciotto euro – più prevendita – a botta), e l’entrata con tessera rende anche la sola ipotesi di un controllo degli ingressi pura utopia. Il locale è stipato da far spavento, la temperatura interna è tale da far sembrare il clima su Mercurio “temperato”, farsi strada tra la calca diventa più arduo di un decimo livello di Tetris; chiunque fosse dotato di un paio di orecchie funzionanti c’era. Se anche solo tre anni fa aveste detto a J Mascis che un giorno avrebbe visto l’Estragon così pieno, probabilmente lui stesso vi avrebbe dedicato uno dei suoi inquietanti risolini da autistico, prima di andarsene affanculo altrove; sta di fatto che il più carico di tutti è proprio lui. Alza il sopracciglio, addirittura sorride, a fine concerto bofonchia perfino “grazie” in italiano agitando la manina. Ma soprattutto sgrana assoli come fossero rosari in mano a una vedova siciliana; è incontenibile, inarrestabile, fosse per lui ogni brano si trasformerebbe in una jam senza fine. Ma evidentemente Barlow e Murph non sono della stessa idea, visto che su I don’t wanna go there e Thumb smettono di suonare mentre J è ancora in estasi mistica, perso nei suoi deliri chitarristici eterni; li perdoneresti pure se solo non troncassero sul finale perfino Freak scene, il pezzo con cui da sempre Mascis chiude i suoi live. Suona come un affronto, la rivolta degli schiavi. Mentre la folla placidamente si disperde, chi a guadagnare l’uscita chi ad attardarsi davanti all’esosissimo banchetto merchandising, il pensiero nella mia testa è uno solo: ridateci Mike Johnson, per Dio.

Valient Thorr (e Dillinger Escape Plan) @ Velvet, Rimini (8/7/2009)

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Una cosa buona dei Dillinger Escape Plan è che si scelgono sempre dei gruppi spalla fantastici. Forse perché, da primi della classe quali sono stati eletti a furor di popolo fin dal micidiale Calculating Infinity (1999, primo e unico vero capolavoro tout court della band), non temono confronti con nessuno, sanno di poterli battere, di stagliarsi ancora una volta quali trionfatori assoluti.
Non stasera.
I Valient Thorr da Venere (…) sono brutti, sporchi e sudati; ostentano con orgoglio stivali da mandriano, giubbotti di jeans tappezzati di toppe di gruppi orribili che anche negli anni ottanta gli avrebbero riso dietro, ballonzolanti pance da birra, luride barbe lunghe fin quasi all’ombelico, sguardi cisposi e ascelle pelose; esteticamente sembrano un incrocio sfatto e maleodorante tra ZZ Top, Manilla Road e gli Skynyrd post-incidente aereo, musicalmente un’unione incestuosa tra Motorhead, Slade e Lawnmower Deth a tratti perfino più esplosiva della somma delle parti, con tanto di testi da mongoloide e cazzate sul “vero metal” che non capisci se ci sono o ci fanno, roba che al confronto i 3 Inches of Blood sono filosofi greci. Dal vivo sono un’epifania, qualcosa di impossibile da descrivere a parole. Certo, se ne potrebbero inventare di nuove per l’occasione, magari qualcuna con tante consonanti tutte in fila stile nomi dei mostri lovecraftiani (di sicuro i Valient Thorr gradirebbero), ma niente riuscirebbe comunque a rendere l’idea di quel che s’è visto e dell’effetto che ha avuto su di noi. Ovvero, più o meno l’equivalente di Dio che scende sulla terra, ti fissa bene negli occhi, punta il dito contro di te e ti dice che non vali un cazzo. Qualcosa di ineluttabile, uno di quegli eventi da conservare gelosamente nella memoria insieme alle cose più care e da ritirare fuori ogni volta che desideriamo essere migliori.
Come mi immagino Dio? Capelli bianchi, barba lunga e niente uccello.
(Charles Bukowski)
Più o meno ci siamo, con la sola differenza che l’uccello in questo caso c’è e pare bello grosso, tanto che il cantante si riferisce a lui chiamandolo Chinga-Linga-Ling (o qualcosa del genere) durante più d’una delle manicomiali introduzioni ai pezzi. Per il resto, la sensazione è più o meno quella di essere presi a schiaffi da Dio in persona, nella forma di cinque bovari del North Carolina che danno vita al live show più eccitante attualmente in circolazione.
I feel good… I look good!, quasi pensa tra sé e sé il cantante ammirando la sua pancia pelosa madida di sudore tra un pezzo e l’altro: cioè, non solo mi sento bene, ma anche sono bello, il che, considerato il soggetto in questione, è ovviamente qualcosa di sublime. Poi impari Tomorrow Police, che è né più né meno il più grande pezzo contro gli sbirri mai scritto, e senti con le tue orecchie (ma lo stesso non riesci a crederci) un accoratissimo e sconclusionatissimo appello alla Pace Universale tra i Popoli che al confronto Daniel Johnston quando dice di voler lasciarci con un messaggio positivo (e poi parte True Love Will Find You in the End) diventa Carl Panzram; e allora il presentimento di essere stato testimone di qualcosa di epocale si trasforma in certezza.
E i Dillinger? Certo, raffinati. Tecnici. Pazzi. Geniali. Intelligenti. Sopraffini. Fusion. Suonano per un’ora d’orologio il solito delirio ipercinetico e cervellotico, penalizzati da un audio stile concerto dei Brutal Truth ma comunque sempre pronti ad arrampicarsi dappertutto come tante piccole scimmiette e a fare tante tante mosse spastiche disarticolate. Greg Puciato flette il muscolo, minaccia gente a caso e ti fa desiderare di conoscere il suo personal trainer. C’è la cover, inevitabile, di Come to Daddy. Si versa acqua sull’uccello. Ma non era la loro serata, e questo i saggi l’hanno capito.

PS il mio amico Riki non mi ha mandato in tempo l’unica foto che era riuscito a scattare col cellulare (comunque, si intuiva una mano davanti a un riflettore giallo); la foto che vedete l’ho presa a caso da Flickr dal set di un tizio americano.