
Vaffanculo! E sì che eravamo pronti a stracciare tutti i pregiudizi e a riaccogliere o forse accogliere per la prima volta in casa nostra gli Interpol, che avremmo amato definire “i poveri” Interpol e mettere per sempre sotto la nostra ala protettrice. Un sorprendente onesto disco di rock-and-roll, e tutto il resto. Manco per il cazzo!
Cosa succede ai gruppi, non lo capirò mai: fatto sta che questi modaioli magri di inizio decennio, influenzati da The The e Television e dotati di canzoni (almeno tre buone, NYC, Take You on a Cruise, Next Exit, il che fa più dell’intera discografia degli U2, anche senza contare la decina di pezzi discreti) e copertine nere per album dai toni cupi (il migliore Antics, del 2004), si sono da un momento all’altri trasformati in ciccioni sudati autori scoccianti di irritante non-pop privo di idee.
Qualche illusione di ripresa dopo il peggio che mediocre Our Love to Admire (2007) ci eravamo illusi di trovarla in Julian Plenti Is Skyscraper, mezzo album solista del cantante/chitarrista Paul Banks, mezzo ascoltato un anno fa, che di promettente aveva un paio di pezzi e soprattutto la copertina, con lui sfigato totale ridotto in mocassini e solitudine, coi capelli unti e la barba un po’ lunga.
Questa amarezza diffusa, unita al fallimento di uscire ancora su un’etichetta indipendente anziché nei supermercati – questo per il loro scarso appeal commerciale, e anche perché il rock è morto, certo -, ci faceva ben sperare per questo nuovo Interpol coi suoi segnali di ridimensionamento cui, per via di evidenti processi di identificazione, guardavamo con simpatia. Terribile errore. Le copertine orènde (Julian Plenti’s first attempt with Photoshop, ©) non mentono mai, e non mentono nemmeno i gusti musicali di Bono che ha messo il suo Bo(lli)no d’infamia sugli Interpol, che lo accompagneranno in tour facendo a pezzi i nostri miti adolescenziali di rockstar insensibili al fascino del denaro e, al contempo, le palle degli spettatori che sono lì per sentire Sweetest Thing, One e Ay Caramba e non questi micidiali dieci pezzi di merda – con menzione d’onore per Always Malaise (anche Sandokan era Sempre Malese, ahahha, vaffanculo, questa ve la meritate) che malaise mi ci fa diventare a me, a te, a noi tutti, già terribilmente messi a dura prova da vagonate di The National e simili, e ora del tutto annichiliti da anni di indie-rock stantio che pretende di comunicare per mezzo di testi intelligenti e non di chitarre elettriche. Ma se è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza (1 Corinzi, 21), allora noi ci teniamo per sempre i Sunn, i Pissed Jeans e tutti gli altri brutal-metal-fregnoni e le loro magliette sporche e sudate e i riff di chitarra e tutto il resto che un giorno, è certo, cancelleranno anche il ricordo di questi anni zero che stanno finendo nel peggiore dei modi. Dai che ci siamo quasi.
Diciassette sessantesimi.