Corrieri cosmici di nuovo sulla traccia. Chitarra e batteria tutto quel che serve per restare in quota oltre i confini del subconscio; l’astronave Delta 9 è partita già da un po’, in questo caso, l’astronave sa essere mentale. Ogni riferimento conosciuto, saltato nel momento in cui parte la prima nota, il rituale si innesca, le porte della percezione scardinate e via si va. È dal vivo che la faccenda prende strade imprevedibili, ogni volta diverse, percorsi che finiscono sempre in territori inesplorati. La parte più interessante del viaggio: non la destinazione, il viaggio stesso. In questo senso, San Leo è un moltiplicatore di mondi, DOM la base di partenza; soltanto uno degli infiniti scenari possibili, il secondo resoconto biennale (parafrasando i Throbbing Gristle). I titoli dei pezzi, ancora una volta torrenziali flussi di coscienza come in un clash Lovecraft/Joyce ma preso bene, sono un’ipotesi, la cornice di un quadro che non smette di uscire dalla tela, vaghe coordinate, il resto – come diceva Neffa – è nella mente. Nessun bisogno di assumere sostanze psicotrope perché salga la botta, per cominciare a sentire i colori, vedere i suoni eccetera: sono gli effetti di questa cosa nel preciso istante in cui entra in circolo, espansione del cervello attivata di default come Johnny Mnemonic sull’orlo del collasso neurale ma senza dolore, solo stati alterati da far scappare via piangendo Ken Russell quanto Tim Leary: il film è la cosa vera, o viceversa, comunque una versione superpesa della realtà, migliore della realtà. Il cranio esplode come un cocomero preso a martellate, come nello sketch stigmatizzato da Bill Hicks ma serio, di colpo è di nuovo 1997 ma dopodomani, motori dell’Enterprise lanciati a massima potenza e scatta il florilegio di nomi di gruppi stoner che serve zero tirare in ballo quando potete agilmente sentire com’è schiacciando il tasto play.
In quarta elementare sono stato in gita a San Leo con la scuola. Sveglia prima dell’alba, tempo orrendo, nessun raggio di luce all’orizzonte, sul pullman Vattene amore messa in loop da un autista evidentemente sadico. Alla prima i più informati sulle ultime novità discografiche hanno cominciato a cantare; alla quindicesima, di fila, dopo il trentesimo tornante, anche il più ostinato fan di Amedeo Minghi non cantava più.
Ha diluviato tutto il giorno. Anche nel pomeriggio, quando ci hanno portati a Italia In Miniatura; nel parco soltanto noi, le maestre e qualche inserviente blindato nelle baracchine che vendevano ciarpame fradicio di pioggia al niente. Avevo con me dei soldi, cinquemila lire mi pare, di cui potevo disporre a mio piacimento. Ho comprato una granita e una pistola giocattolo; a premere il grilletto riproduceva i rumori di una sparatoria. Ho tenuto il grilletto premuto ininterrottamente fino a esaurire la carica meno di tre ore più tardi. Tornati a scuola, prima che mio padre mi venisse a prendere ho fracassato la gamba di uno stronzetto di quinta giocando a calcio. Sapevo che il giorno dopo la maestra mi avrebbe sgridato davanti a tutta la classe, intanto la vaga sensazione di aver fatto qualcosa di giusto e un pezzo di plastica morto. La mia prima gita.
La rocca di San Leo si è svelata ai miei occhi di bimbo come qualcosa di minaccioso, enigmatico, mistico, fin dal primo sguardo: vero luogo dell’anima nel silenzio irreale, la pioggia, i cieli grigi e il nulla intorno. Le feritoie tra le mura lasciavano immaginare guerre cruente, insensati spargimenti di sangue o epidemie dal decorso penoso in tempi troppo lontani per poter venire visualizzati, se non attraverso il filtro distorto di vecchi film. La prigione era stata progettata per essere una prigione: quattro pareti senza una porta, venire calati dal soffitto e solo dal soffitto poterne uscire, destinazione una cassa di legno a essere fortunati, altrimenti erba verde.
Il motivo per cui i San Leo hanno deciso di chiamarsi San Leo scorre lungo i solchi di XXIV. La consistenza dell’aria che si respira dentro quelle mura riprende vita, imprigionata e magicamente traslata nel tinello di casa o ovunque altrove; connessione uomo–territorio più solida e viscerale che in un film di John Milius, pregnante più che in Walden di Thoreau ma con la nuda pietra millenaria al posto della campagna, watt a sfare a riempire il silenzio. Sono dettagli, per il resto stessa tensione, stesso magnetismo, stesse vibrazioni: la stasi innaturale come la quiete terribile che precede l’arrivo di un uragano, l’uragano, poi di nuovo quiete fino al prossimo assalto, e poi ancora. Tutto il disco è così. Chitarra e batteria la sola artiglieria, oltre a un muro di Marshall non serve altro per entrare nella dimensione parallela; quando e in che stato uscirne, se uscirne, le uniche variabili.
È una gara di resistenza tra una scarica di elettricità e l’altra – nel mezzo un sadico temporeggiare – sempre in trincea in attesa della nuova esplosione, annaspare stretti all’angolo come da un pugile drogato. Ogni pezzo parte liquido, come sangue che si espande nell’acqua o una chiazza d’olio che guadagna terreno, occasionalmente da qualche parte echi lontani di suoni che sembrano l’incrocio tra un organo da chiesa e un sonar lanciato nell’iperuranio, per poi virare in una trance tribaloide e malmostosa dalle infinite diramazioni, implacabile come un carrarmato, inderogabile quanto un rullo compressore con il freno sabotato.
Echi Earth ma personali (Pentastar senza la voce, ma pure Primitive And Deadly asciugato fino all’essenziale, sempre senza voce), gli Sleep di Jerusalem, un sacco di altra roba uscita a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio, in quello strano varco spaziotemporale dove stoner, doom, rock psichedelico da altre ere si mescolavano con continuità e quella roba costituiva una scena e aveva un pubblico. Oggi, materia da plasmare che restituisce un senso e una consistenza a parole tipo esoterico, ancestrale, sulfureo, ossianico (eccolo il magico termine che significa tutto e niente, ricorrente nelle recensioni di dischi dai Black Sabbath in giu); l’impressione di essere finiti intrappolati, bloccati in un sottomondo, come la cella in cui ristagnava per interminabili ore giorni anni il conte Cagliostro. Qui il cerchio si chiude e i padiglioni auricolari si spalancano.
Il vinile di XXIV esce l’8 novembre; una coproduzione Corpoc/Tafuzzy Records. Produce Luca Ciffo, masterizza Rico. In anteprima qui lo streaming integrale.
La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.
L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.
È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.
E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floorse viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.
*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.
Good Evening, we’re Codeine from New York City. Di mio ho sempre preferito i gruppi che si presentano prima di iniziare a suonare, perché è una cosa giusta da fare e sembra sempre un po’ come se tu non abbia fatto cento chilometri per vederli. E poi mi sono sempre chiesto se si dicesse còdeine o codeìn o codèin, io di solito uso la seconda. Stephen Immerwahr pronuncia Codììn, ha una voce lenta e un portamento da professore di antropologia. John Engle somiglia un po’ a Stone Gossard coi capelli corti, nel senso che tiene la chitarra come se non ne avesse mai vista una fino a dieci minuti prima di salire sul palco. Chris Brokaw, schiacciato sul fondo del palco, è un batterista grandioso. Ho sentito tre o quattro concerti con dei suoni così perfetti: un paio dei Mono, Shellac, Arto Lindsay, altre cose al momento mi sfuggono. Immerwahr tra l’altro ad Arto Lindsay ci somiglia un po’, ha la stessa vocetta e un modo simile di stare sul palco.
Last time I was in Bologna, you were probably 10 years old. You’ve done well.
Matteoera passato sulla reunion dei Codeine chiedendosi se sarebbe stato più sbagliato paccare la reunion o presentarsi con la consapevolezza di un karaoke per introdotti panzoni: io ho scelto la seconda. Il gruppo sul palco non lascia spazio a interpretazioni: sono tre signori di mezza età che hanno ricostruito una band defunta da quasi vent’anni per suonare qualche concerto, si trovano davanti un mare di gente in festa e ringraziano timidamente. Un po’ sembrano far fatica anche loro a capire cosa sia successo. Rispondono nell’unico modo sensato: chini sui loro strumenti, suoni perfetti e una scaletta che pesca un po’ da tutta la loro discografia (capirai). Stephen è l’unico con un microfono davanti. La prima è D, cioè quella che apre Frigid Stars. L’ultima si chiama Broken Hearted Wine e se devo essere sincero non l’ho mai ascoltata prima di ieri sera (devastante). Immerwahr la presenta con un filo di voce: the other songs, you could call them un happy. This one, i wouldn’t say it’s a happy song but for sure it’s not unhappy. Mi devasta. Dei gruppi che aprono si segnala il finale in acustico dei Comaneci, in mezzo alla sala semivuota con dedica a Tiziano/Bob Corn, danneggiato dal terremoto. Poi la sala si riempie di gentaglia: panzoni, ultratrentenni, gente in botta, studenti fuori sede con le lenti come il fondo delle bottiglie e gli occhi umidi sotto. Quelli con le magliette azzurre fosforescenti hanno paccato in favore dei Cloud Nothings la sera prima. Speriamo gli sia andata bene.
A sentirlo così, pare giusto infilarlo a forza nel mucchio dei nigga veramenteincazzati e con qualcosa più che il pregiudizio di un bianco merdoso qualsiasi a stanarlo fuori dal merdaio circostante. Fatto sta che davanti a obiettivi definibili meno che miseri (Mi Ami, Litfiba, Rolling Stone rivista, Sanremo) si sente il dovere e il bisogno di guadagnarsi il cumulo di droghe ed elettroshock mensili per, tipo, tre post in tre anni, e spargere violentemente i semi dell’odio. Da cui il fatto che, messa da parte la speranza di NON sostenere la campagna abbonamenti del Mucchio (né di Rumore, Blow Up o alcuna altra roba del genere), urge riconoscere che si è finiti sul pezzo anche da queste parti. Il prossimo passo alla riconoscibilità totale del volemose bene nel volemose male sta forse nella forgiatura di una statua a grandezza naturale di – cazzoneso – Zach Hill, o uno qualsiasi del genere.
(E no, non c’è nessun insidejokes perché non siamo amici, non frequento i tuoi giri e non ti capisco quando parli)
Detto questo, visto che anche gente tipo Roly Porter e Jamie Teasdale ha saggiamente (stocazzo) deciso di andare ognuno per la propria strada – strada che vede per l’uno massicce dosi di oscurità, droni industrialoidi, minacce psichico-tecnologiche varie e per l’altro la lingua fuori su culi luccicanti e pop e tremendamente d’ambiente – la strada, dicevamo, che è qualcosa di inferiore alla sottrazione delle parti che componevano Vex’d, ecco, per questo una volta in più è doveroso star dietro a sobillatori d’odio e rumore che abbiano voglia di far cagnara con modi musica e livore.
Il nome è Death Grips, la miscela è acida tipo hip hop sputato fuori a raschiareugola e rancore. I testi sono primizie tipo “In the time before time eyes ‘bove which horns/Curve like psychotropic scythes/And smell of torn flesh bled dry/By hell swarms of pestis flies/Vomiting forth flames lit by/An older than ancient force /That slays this life with no remorse” o “Tie the chord kick the chair and your dead” e ancora “Cuz all I really need is some cool shit to mob /Like driving down the street to the beat of a blow job /I own that shit /On some throw back shit /You already know that shit /You even know ‘bout how I know the man /Who grows that, bitch ” , che manco un incrocio tra Sepultura e Michael Gira prima maniera renderebbero appieno. Sotto ci sono robe a tratti semplicemente grezze e momenti fantasmatici con strascichi di quelli che chiamano Steve Albini alla produzione e cose così. A farla da maggiore, comunque, a prescindere dai campionamenti, il rumore, l’overload e l’elettronica varia (compresa qualche parentesi di dancehall meccanica e catacombale splendida), è il senso di un disagio veramente concreto. Di quei dischi insomma che ti fanno sentire ancora più di merda quando stai di merda; di quelli che consigli a pochi, fiducioso che se lo consumeranno digrignando i denti. Con in postilla l’augurio di un remix stile KevinMartin dei momenti migliori, scansando e fottendosene della partecipazione di Zach Hill – sempre lui – alla faccenda. E con un calcio in faccia per successo, magari, a Tyler the Creator e sodali. I tipi comunque, nel dubbio se ne sbattono e ti regalano anche chicche tipo questa. Oltre al disco stesso, certo.
Poi, cagate a parte, viene da ripensare all’asse Def Jux/Anticon dieci anni fa, a come pareva fosse la salvezza del rap, di una certa idea militante di comunità e stronzate così. Oggi, su quelle orbite, spuntano fuori anche IconAclass (robe post-Dalek, belle ma easy) che non mantengono nemmeno un’oncia di quanto vorremmo promettessero.
Dunque, stretta di mano su stretta di mano, è sinceramente preferibile ri-chiamare in causa accoltellamenti fraterni stile b/metal e dintorni, piuttosto che, ancora una volta, doversi sorbire impunemente schiere di tabulae rasae ambulanti, con due gambe, twitter e qualche collezione di dischi.
Fuor di metafora: le corse a condividere e condividere e condividere il nuovo FBYC a furia di like, plaudendo alla rincorsa sociale di stocazzo senza ancora averlo ascoltato, il disco: SentireAscoltare che butta fuori nomi e cognomi sull’autoreferenzialità della scena (e tra l’altro giuro ho l’impressione che prima vi fosse la foto dei tizi semi-desnudi con le loro facce disegnate sui genitali) e/o rincara la dose egotistica di casa Teatro degli Orrori: Elio Germano in combutta con Teho Teardo: Mark Stewart pre-ritorno The Pop Group a far sboccare con Bobby Gillespie: Bugo che via twitter la conta a scribi e sodali: Bastonate che diventa paradigma per gentiluomini e via di questo passo.
Segnali precisi dal profondo: è tempo di tornare all’ostilità, pura e semplice e totale. Senza occhiolini, strette di mano, comunanze farlocche, pompini vicendevoli e null’altro. Sempre in nome dell’ODIOpuro (non sociale, non sentimentale, non politico) in quanto modello conoscitivo e mai contro un nemico specifico che non sia il tutto.
Colonna sonora: l’ossessività e reiterazione e palude cerebrale incluse nel pacchetto Death Grips.
Tanto per il resto frega un cazzo, tra un po’ esce il nuovo Disquieted By, arriva la botta Johnny Mox, è fuori Bologna Violenta, Wallace ha sfornato pure l’ultimo Miss Massive Snowflake e io torno felice.
Benché l’odio e il disprezzo sincero per la comunità rimangano, certo.