ABBASSARE IL LIVELLO – Cose a caso su un’intervista a Colapesce pubblicata su Repubblica

“Mentre infatti le classifiche di vendita danno conto dell’esplosione del rap come fenomeno sociale specialmente tra gli adolescenti (e la televisione è pronta a fargli da cassa di risonanza aprendo sempre più spesso le porte ai nuovi protagonisti dell’hip hop), nei live i due mondi si confrontano a colpi di platee gremite. Una sfida è reale ed è ancora presto per dire chi, alla lunga, riuscirà a spuntarla.” L’intervista di Carlo Moretti Colapesce si apre così, sobria e tranquilla, rendendo conto di una furiosa battaglia di consensi in atto tra il nuovo rap italiano e nuovo cantautorato italiano. Di primo acchito sembra una teoria complottistica di cattivo gusto (ma tutto sommato veniale) messa insieme da qualcuno che non ha un cazzo da dire e deve dare comunque un taglio all’articolo, ma in realtà è una prova di forza di Repubblica.it, la testimonianza del suo irrefrenabile prurito di segnare il territorio. È abbastanza difficile per me dar conto dei modi in cui si può distorcere una notizia, visto e considerato tra l’altro che non è roba che ho studiato o ho mai fatto di lavoro

(ad essere sincero ho un terribile periodo di due settimane nel CV in cui ho fatto il cronista per la sezione locale del Resto del Carlino, e a sempiterna testimonianza del fatto che dovrei limitare al minimo questo genere di idiozie mia madre ha appeso al corridoio di casa sua un mio articolo di cui va molto fiera su Luciano Pavarotti, al tempo vivo e suonante concerti di beneficenza)

e probabilmente sembra lo sfogo di uno sfigato, ma leggere articoli di musica sui siti dei quotidiani sta diventando abbastanza una sòla.

1 L’intervista a Colapesce si inserisce nel contesto di un festival che si è tenuto domenica al Magnolia,  chiamato Nuovissimo Canzoniere Italiano come il librone che tiravano fuori ai boy-scout quando le cose andavano molto male (sì, sono stato ai boyscout. No, non mi hanno vessato. Giravamo per i boschi e cantavamo le canzoni degli alpini. Per certi versi sono la cosa più vicina a Burzum che ho mai avuto nella vita). Non ho approfondito ma secondo il pezzo di Repubblica era una specie di Corrida dei nuovi cantautori: trenta nomi grossi, tre pezzi ciascuno, su un palco ridotto all’osso con solo un pianoforte e una chitarra acustica. L’idea è pure carina, se vi piace il genere (il genere a me purtroppo fa abbastanza vomitare, immaginatevi un pomeriggio di estensioni di Appino Brunori SAS e Dimartino che si avvicendano a ruota libera su un palco e tu che a un certo punto finisci i soldi per la vodka). A sentire l’unica voce che considero autorevole sulla faccenda, il twitter del mio amico Massimo, per chi s’appassiona a queste cose è stata una bella serata.

2 Colapesce non è un mostro di simpatia. Viene intervistato in quanto vincitore del premio Tenco l’anno scorso. Il disco di Colapesce non è il mio disco preferito di sempre, ma se devo scegliere un disco di cantautorato italiano del 2012 probabilmente penserei al suo. Questo non toglie che quando leggi qualcosa che scrive tende a starti sulle palle, e credo che ne guadagnerebbe molto se limitasse il proprio raccontarsi alle canzoni.

3 L’intervistatore sembra avere una strana fissa per i punti deboli del rap italiano, almeno a giudicare da un articolo su Salmo linkato nel boxino dei potrebbe interessarti anche questo sotto l’intervista. L’ho letto ed è abbastanza sconvolgente, contiene frasi tipo “la gavetta significa fare i clic” (su youtube dico), ma mentirei se dicessi di aver prestato attenzione ad altre cose oltre al fatto che Salmo in realtà si chiama Maurizio Pisciottu.

4 L’intervista si compone di cinque domande, non sappiamo se a seguito di un taglio o di una conversazione molto corta. Colapesce si arrabatta e riesce a tirar fuori un paio di spunti interessanti anche da domande tipo *che relazione avete coi cantautori degli anni settanta*. Onore al merito. Di cinque domande ce ne sono due sul rap italiano, di cui Colapesce diventa (a buffo e suo malgrado) uno dei massimi esperti in circolazione. Nell’ultima risposta dice “uno come Guè Pequeno può anche andare in classifica ma mi fa vergognare di essere italiano”, dando modo a qualcuno di titolare l’intervista “Certo rap mi fa vergognare d’essere italiano”.

5 (che è sempre il 4 in realtà) se io venissi intervistato su un quotidiano e dicessi che  Ke$ha mi fa vomitare, cosa tutto sommato vera, mi darebbe fastidio che titolassero “certo pop mi fa vomitare”. Non faccio altro che ascoltare Rihanna e Lady Gaga, penso che siano tra i più grandi esempi di disciplina nella musica contemporanea. Probabilmente inizierei a scrivere a destra e a manca che la redazione del quotidiano in questione è composta da un branco di cazzari che dovrebbero trovarsi un lavoro vero e cose così. Non la prenderei sportivamente, diciamo. Parlo solo per me.

6 L’ultimo disco di Guè Pequeno non mi fa “vergognare di essere italiano”, come del resto nessun’altra cosa prodotta in questo paese mi ha mai fatto avere una vera e propria opinione in merito all’essere orgoglioso o meno di essere della stessa nazionalità di chi l’ha prodotta. Ma devo ammettere che mentre lo si ascolta viene da sorridere e provare un certo orgoglio all’idea di non essere lui.

7 Tornando in argomento, la torsione al punto 4 (più altre due stronzatine scritte in giro per l’intervista) trasforma un’opinione legittima e tutto sommato piuttosto condivisibile sull’ultimo disco di Guè Pequeno in una dichiarazione di guerra al rap italiano da parte del cantautorato italiano, di cui Colapesce diventa vessillifero non si sa a che pro. Tra il pomeriggio del sabato e la mattina della domenica diventa quasi obbligatorio avere un’opinione sulla faccenda, per comodità ridotta ad un gioco della torre nel quale ti danno venti secondi per decidere se vuoi uccidere Appino o Emis Killa. OT: vi siete mai fermati a riflettere che figata la storia di Barabba che sta nel vangelo? Per come me la ricordo è tipo che Gesù è stato già condannato a morire in croce, però per allungare il brodo c’è una svolta di trama improvvisa: oggi è il santo patrono, e come da tradizione salveremo la vita a un condannato a morte. Tra la folla si muovono i farisei e gli influencer e quelli con il klout alle stelle per convincere la gente a uccidere Gesù. Dal punto di vista narrativo sono tre pagine sprecatissime, ma forse è la vera pietra miliare su cui viene costruita tutta una teoria dei pre-finali a cazzo tipo la sparatoria col bambino in Face/Off o le puntate di ER ambientate fuori dall’ospedale.

8 Il problema inesistente di una guerra dei numeri tra nuovo cantautorato italiano e nuovo rap italiano si trasforma in un problema reale-ed-attualissimo appena l’intervista esce. Si scomodano rapper cagati tipo Don Joe o Marracash o Mistico, con conseguente/ovvia parata di cervelli in fuga (dai corpi) nei reply. Alle quattro del mattino di domenica, l’amico Emiliano (che di Colapesce ha fatto uscire il disco) pubblica sul suo facebook una nota in cui fa più o meno il punto della situazione.

9 La catena di diss che ne viene fuori è la conta dei corpi di una guerra che ha tanti perdenti: il primo è Colapesce, che in mezzo al nuovo cantautorato italiano spicca pure ma qui ci fa la figura di un rosicone che parla di cose che non sa o comunque non ha voglia di approfondire. Il secondo è il cantautorato italiano da Colapesce rappresentato, anche qui non si sa bene a che titolo. Il terzo è il rap italiano, colpito sotto la cintura da non si sa bene chi. Il quarto è chiunque si schieri da una parte o dall’altro. La lista dei vincitori si limita a un solo nome, nella fattispecie Repubblica.it che tra i due litiganti gode di accessi e visibilità (secondo uno sballatissimo sistema di valori secondo cui tutti stiamo qua a fare le cose per avere dei clic, non importa di che natura e quanto privi di significato).

Mi prendo un momento per andare alle conclusioni. La prendo alla larga: lo chiedi a un giornalista e ti dice che i blog sono un covo di sfigati non-professionisti che si sentono liberi di sparar cazzate a vanvera su argomenti in merito ai quali non sono documentati. Molto francamente, nei blog che seguo (assiduamente o saltuariamente) nessuno si permetterebbe di inventare un caso inesistente servendosi delle dichiarazioni di un intervistato nel titolo e sotto gli occhi di tutti, lasciandoti addosso la diffusa convinzione che qualcuno stia regolandosi conti propri. O magari qualcuno sì, ma con molta più verve dell’intervista a Colapesce apparsa questo sabato su Repubblica. Io Carlo Moretti non lo conosco e magari è la miglior persona al mondo (non sarebbe nemmeno la prima volta che mi sbaglio su qualcuno che scrive di musica), ma rimane il fatto che vi posso elencare prima di colazione trecento persone che farebbero un’intervista a Colapesce, pro o contro, tirando fuori cinque domande più sensate e stimolanti. Mi prende anche male l’idea che questo ammasso di nonsense continui ad auto-giustificarsi con l’idea che un giro sui portali più frequentati del web valga la pena a prescindere, che un clic giustifichi ancora qualsiasi bassezza e che magari qualcuno ci veda del buono (o della malafede, a seconda dei punti di vista) nel fatto che alla fine qualche decina di migliaia di persone, alle quali a conti fatti non fregherebbe nulla in nessun altro contesto, cercherà il nome “Colapesce” su google annoiandosi a morte.

(postilla importante: in seguito all’ondata di polemiche, Colapesce è stato intervistato su HotMC e a conti fatti se l’è cavata egregiamente)

Emiliano Colasanti

Emiliano Colasanti lo conosco da qualche anno. È uno che scriveva di musica e a un certo punto ha aperto un indieblog, diventando uno dei quattro-cinque indieblogger per eccellenza assieme a Enzo Baruffaldi, Marina Pierri, Inkiostro e gente simile (in ottemperanza a questa cosa il suo blog continua ad essere candidato ai Macchianera assieme a quelli di cui sopra, anche se credo che nessuno di loro li abbia mai vinti). In tempi più recenti Emiliano ha aperto un’etichetta che si chiama 42 (assieme a Giacomo Fiorenza) e fatto un gran successo di pubblico con gente tipo I Cani e Colapesce. Il botta e risposta di cui sopra dura tipo quarantamila battute e nonostante questo s’interrompe più o meno a metà. Mi rifarò su qualcun altro.

 

Da quanto tempo scrivi di musica, dove scrivi di musica, che altro fai per sbarcare il lunario.
Ho capito che mi sarebbe piaciuto provare a scrivere di musica appena dopo avere smesso di sognare di fare l’astronauta o il veterinario. Io faccio parte di quella generazione che la musica l’ha vissuta prima in maniera teorica e poi “pratica”, leggendo i libri, le riviste, immagazzinando un sacco di dati per poi aspettare dei mesi prima di potere effettivamente ascoltare quello che mi aveva incuriosito. Parlo del pre-internet e di quando per comprare un disco dovevo prendere un treno, arrivare a Roma, oppure fare ordini che puntualmente arrivavano quando la curiosità era già bella che scemata. Le cassette mi hanno salvato la vita, e la radio. Erano i tempi di Planet Rock, quando la RAI trasmetteva interi live dei Pixies. La sera non guardavo mai la televisione, mi chiudevo in camera e registravo tutto. Ho cominciato nel 1999, quasi per caso. Il primo giornale per cui ho scritto era un bimestrale – Musikbox – che si trovava da Feltrinelli e che forse esiste ancora. Si occupava prevalentemente di collezionismo, dischi rari, non proprio il mio. Da subito sono finito a scrivere di musica indipendente italiana, il gradino più basso della scala del giornalista musicale, e di “rock alternativo”. Prima recensione: l’esordio di Giorgio Canali. Ricordo che avevo scritto una roba del tipo: “Chitarre tonanti”. Porca puttana, “Chitarre tonanti”. Prima intervista: Marlene Kuntz. La prima stroncatura: un disco dei Guano Apes, quello famoso col pezzo dello snowboard.
Conoscevo Gianluca Testani e grazie a lui sono entrato in contatto con Federico Guglielmi e gli altri del Mucchio. Ma più che altro capitava di incontrarli ai concerti e farci due chiacchiere, cose così. Non ho mai chiesto aiutini o calci in culo. Dopo qualche mese Guglielmi mi ha preso da parte e mi ha detto: “Oh, sono bersagliato da gente che mi rompe il cazzo per scrivere e tu non mi chiedi un cazzo?”. Da lì è partito tutto: Il Mucchio mi ha tenuto in prova per mesi. Scrivevo un sacco di recensioni a tema libero, le mettevo su floppy disc, le portavo a Federico e poi lui mi diceva in cosa dovevo migliorare. Ovviamente senza mai pubblicare niente. Poi è arrivato Fuori dal Mucchio e sono partito dal basso. Ovvero dalla sezione chiamata “Dal basso”. Quella dei demo. Il primo Mucchio su cui sono uscito aveva Michael Stipe in copertina. L’ho preso come un segno.
Non ci sono rimasto molto al Mucchio, dopo un paio di anni si è fatta avanti una ragazza che lavorava in redazione a Rockstar e mi ha chiesto se volevo curare la parte del giornale dedicata agli emergenti italiani. Oltre che scrivere le recensioni degli “stranieri”.  Ho accettato, la rubrica aveva il titolo orribile di Forza Italia, ma mi dava la possibilità di guadagnare 250/300 mila lire al mese, che era il 300% in più di quello che mi dava il Mucchio e per me era comunque chiaro che questa cosa un minimo mi avrebbe dovuto permettere di campare, altrimenti sarei passato oltre. Federico si è incazzato e mi ha sbattuto fuori, anche se poi al Mucchio sono rientrato dalla finestra, scrivendo di calcio, grazie ad Andrea Scanzi.
Più o meno in quel periodo si è fatta avanti Rockit: avevo conosciuto Fiz e Acty durante l’edizione del 2001 di Arezzo Wave e ci eravamo presi benissimo. Per me, che avevo cominciato sulla carta, scrivere su una webzine sembrava un po’ come rifarmi la verginità. Ho cominciato a divertirmi davvero quando ho aperto il mio primo blog, su Splinder, che di colpo ha attirato un po’ di attenzione su di me. Credo che i miei ancora conservino il trafiletto di Repubblica dove mi nominavano.
Una riga e mezzo che per loro forse vale più di tutto quello che ho fatto nella mia vita.
Parallelamente avevo cominciato a fare radio e lì ho conosciuto dei ragazzi italiani che curavano una fanza scritta in inglese, dedicata a shoegaze e cose del genere. Si chiamava Losing Today e c’era il progetto di farlo diventare un giornale. È successo, io avevo il ruolo di coordinatore di redazione, ma in pratica ero un vicecaporedattore senza avere i titoli per svolgere quel mestiere. Ho scelto parte dei collaboratori, assegnavo le recensioni, programmavo (non da solo, chiaro) le copertine. È stata un’esperienza molto divertente, soprattutto perché l’ho fatta che ancora non avevo 24 anni.  Siamo stati la prima rivista al mondo a dare una copertina alla reunion dei Pixies e la foto che era stata scattata per noi al Coachella è stata poi comprata e pubblicata in copertina da NME, i primi a mettere in copertina gli Arcade Fire, o i Baustelle. Col servizio fotografico che abbiamo realizzato con i Broken Social Scene sono stati fatti i manifesti del tour mondiale per il loro secondo album. Insomma: una bella esperienza finita male e senza vedere un soldo, nel 2006. Da lì ho avuto una profonda crisi. Ho smesso di scrivere di musica e per un po’ ho bazzicato femminili e maschili solo per pagare l’affitto. Ho ricominciato grazie a Fabio De Luca, nel frattempo avevo aperto l’etichetta. Continue reading Emiliano Colasanti

Carlo Bordone

Mio fratello portava a casa le riviste di musica pescate a casaccio tra quelle generiche: Rumore e  Rockerilla soprattutto, Dynamo quando usciva, Rockstar, il Mucchio e tutto il resto. Leggevo i nomi dei gruppi e mi facevo le mappe mentali di cosa era figo e cosa no, voglio dire, mio fratello non aveva tutta ‘sta collezione di dischi e io scroccando dagli amici riuscivo a coprire metal, grunge e punk rock e morta lì. Leggere di tutta ‘sta gente figa mi ha costretto –molto prima di possedere un lettore CD- ad allargare la mia rete di contatti a cui poter far doppiare i nastri, a frequentare i negozi di dischi compiacenti il cui proprietario era disposto a doppiarti la cassetta dal CD in nero, a scambiare le cassette via posta eccetera. La stampa musicale era ancora un luogo pieno di bianchi e di neri, sfogliavi una rivista e venivi investito dall’idea che ascoltare un disco brutto potesse causare sensazioni davvero spiacevoli. Carlo Bordone scriveva di musica allora e continua ancora oggi a farlo. Questo potrebbe essere la prima intervista di una serie, che comunque immagino non avrà cadenza molto più che –boh- bimestrale. Le prime due domande servono a scaldarsi. Le foto sono per sfottere.

Quand’è che hai iniziato a scrivere di musica?
Come dicono le scrittrici esordienti del genere rosa, “ho sempre scritto”. In effetti all’università pubblicavo (ah ah ah) una fanzine che scrivevo e leggevo solo io. Si chiamava Tamalpais. Battuta a macchina, fotocopiata, tenuta assieme con la pinzatrice. Come tutti i fanzinari, mi sono messo a contattare etichette, distributori, band, e ovviamente non ho mai visto un promo che fosse uno. In compenso mi sono sparato grandi scambi epistolari con Jon Ponemann, Greg Ginn, Geoff Travis e compagnia.
A scrivere su un giornale vero ho iniziato nel 1996. Il giornale era “Rumore”. Già da un paio di anni trasmettevo su una radio torinese , Radio Flash, il cui direttore artistico era Alberto Campo. Facevo un programma con altri tre miei amici, ci chiamavamo Groovers. Con uno di loro (Pierpaolo Vettori) ho condiviso la stessa firma sul giornale per i primi due o tre anni. Prima recensione, un disco dei Posies. Prima intervista: i Guided By Voices. Tra le “guest star” del nostro programma radiofonico c’era anche il nostro amico Maurizio Blatto (che nel programma spacciavamo come Maurizio “Bacharach” Blatto, nipote di Burt ed esperto di gossip dell’alta società). Con lui abbiamo a volte scritto qualche pezzo a sei mani per Bassa Fedeltà, leggendario bimestrale garage/punk/r’n’r e costola di Rumore, diretto da Luca Frazzi: il capolavoro fu un’ode commossa a Franco Califano, redatta in tempi non sospetti.
Nel 2000, subito dopo un’intervista ai Marlene Kuntz nel bar della stazione di Cuneo (avranno portato sfiga?) me ne sono andato da Rumore per ragioni che ho dimenticato. Dopo essere transitato per un paio di numeri su Blow Up (credo che neppure SIB non se ne sia accorto) ho chiamato John Vignola, che conoscevo da qualche anno, per sapere se c’era la possibilità di collaborare sul Mucchio. C’era. Da allora non mi sono più mosso. Continue reading Carlo Bordone