IL LISTONE DEL MARTEDÌ: dieci dischi di quest’anno che GRAZIE AL CIELO non ci porteremo dietro il prossimo anno.

beccati questa kotekino

Ad essere sincero questa settimana avevo mezzo preparato una lista di pezzi che provassero l’idea che mettere insieme calcio e musica rock fosse l’idea più stupida di sempre, e l’avevo fatto solo per inserirci Seven Nation Army e soprattutto Umbabarauma dei Soulfly (ve la ricordate? JOGA BOLA, JOGA BOLA, JOGADOR. Ai tempi sembrava qualcosa di rispettabile). Poi ho pensato che finito l’europeo avrei ri-smesso di essere uno dei cinquanta milioni di commissari tecnici italiani e sarei tornato a quell’attitudine tipo il calcio è una merda il vero calcio non esiste più io non ho tempo per queste cazzate mi dedico ai PROBLEMI VERI io. Assecondando questa mia attuale botta di impegno sociale, la presente è una lista di dischi che io o voi (o comunque qualcuno) abbiamo amato nel corso dell’ultimo anno solare, e che l’anno prossimo ci vergogneremo come cani di avere amato. Lo staff di Bastonate, nella persona di chi firma, si assume tutta la responsabilità delle opinioni sbagliate (ve piacerebbe) in seno alla lista, e ammette che in almeno quattro casi su dieci i dischi inseriti sono sassolini che ci togliamo dalle scarpe con fare rabbioso, abilmente bilanciati da altri dischi che invece amiamo alla follia e inseriamo per pararci il culo o perché abbiamo una tremenda opinione di noi stessi, e il fatto di averlo scritto non significa necessariamente che lo stiamo pensando. Diamo la precedenza a dischi usciti negli ultimi sei mesi, ma ci sono eccezioni. Un’ultima cosa: abbiamo volutamente lasciato fuori alcuni casi macroscopici tipo Il Teatro degli Orrori o DiMartino o sa dio che altro perchè le sacche di fanatismo sono quasi esclusivamente limitate ad un pubblico di appassionati specifici con cui non parliamo spesso e/o gente che non ha mai capito un cazzo di musica.

AFTERHOURS – PADANIA

Non riesco a smettere di sentirlo. Non è un disco con dei meriti musicali particolari, a parte quello di suonare sbroccato e privo di senso dalla prima all’ultima traccia. Voglio dire, cosa c’è di più esaltante nel guardare un alfiere del NUOVO ROCK ITALIANO (a vent’anni circa dalla sua istituzionalizzazione) sbroccare, trasformarsi in una vecchia e lavare i panni sporchi in pubblico con un disco di pretestuosissimi collage afterhoursiani affogati di feedback senza senso e slogan alla Agnelli? Probabilmente un sacco di cose, ma ai primi trenta ascolti di Padania non sembra. Il che non toglie che sia il disco di un ex alfiere del NUOVO ROCK ITALIANO che sbrocca e in diretta internet si trasforma in una vecchia, affogando in un mare di feedback senza senso e slogan alla Agnelli. Appena lo tolgo dall’auto va a finire sotto la colonna dei dischi Snowdonia.

BURZUM – UMSKIPTAR

“Accantonata senza rimpianti di sorta l’imbarazzante parentesi “ambient” degli ultimi dischi per sola pianola (al gabbio non gli lasciavano tenere nessun altro strumento), torna a dedicarsi al black metal grezzo e angosciante e ventoso e unico al mondo che faceva più che egregiamente prima di finire al fresco, e improvvisamente sembra di essere stati catapultati di nuovo nel 1993. Lui è una specie di totem per ogni dissociato con più o meno seri problemi relazionali che si rispetti: io ascolto Burzum = io sono necroelitario, sprezzante, superiore alla massa, odio la gente, amo solo la natura, sono pagano, ho capito bene Nietzsche. Qualsiasi emarginato dalla società, meglio ancora se metallaro, trova in Burzum la sua rivincita: un ammazzacristiani nazo e misantropo stimato e rispettato, famoso, in qualche misura perfino temuto, con un posto nella storia della musica già suo di diritto e un pugno di dischi di indiscutibile valore all’attivo. Praticamente un semidio. Il Leonardo da Vinci dei deboli e dei reietti.” Dai tempi in cui il collega m.c. scriveva queste cose sono usciti tre dischi, in modalità sempre più triste e automatica. Ancora oggi sentiamo il dovere di ascoltarli, in un gesto di stizza e foga che ci permette di essere così elitariamente conformisti e rigettare l’operato di centinaia di rottinculo che confezionano i loro dischi di imprendibile ambient-blackmetal sintetico nel caldo delle loro camerette come se solo noi avessimo provato la VERA sofferenza. Sfido chiunque a dirmi che la qualità dei dischi post-reunion di Burzum sia in crescita. Due euro al colpo.

GRIMES – VISIONS

Ormai gli hype li si costruisce partendo dalla smentita: il caso di Grimes, una ragazzetta senza talento con un disco di brutte figure di (te piacerebbe) pop contemporaneo, è abbastanza emblematico. S’è iniziato a sentirne parlare male prima di iniziare a sentirne parlare, come se gli hater si fossero mossi prima degli hipster, e poi qualcuno ha instillato il dubbio che non fosse poi così pessima e di lì a tre giorni ci siam trovati in tasca la nuova Karen O e l’idea che una nuova Karen O invece di gambizzare la Karen O vecchia fosse un’idea allettante. Conferme e smentite si sono spinte per settimane e settimane, mentre Visions collezionava una quantità impressionante di ascolti senza che nessuno avesse una pallida idea di cosa farsene. Poi fatto un giro per concerti da queste parti e s’è capito che manco gli hater avrebbero dovuto scomodarsi. Io purtroppo l’ho persa.

BARONESS – YELLOW / GREEN

Sulla fiducia. Il disco non è ancora uscito, ma quando sarà il momento forse qualcuno vorrà convincerci del fatto che un doppio album prog metal senza il tiro e senza la fotta sia –a qualsiasi titolo- una buona mossa o qualcosa a cui guardare per rintracciare dei segni tramite cui rifondare l’heavy metal della nostra epoca. Probabilmente avevamo sbagliato NOI a puntare una cifra anche simbolica su John Baizley, voglio dire, già il Red Album è noiosissimo, ma insomma.

PIL – THIS IS PIL

Altro disco che stiamo ascoltando a raffica, e col plurale intendo io, fatto di b-side della mente umana e deliri in forma di filastrocca che se fossero in italiano probabilmente si griderebbe al Vasco Rossi, con sotto musica da camera PILiana al minimo sindacale, che ci sta affascinando solo perché sfida le nostre certezze in merito a cosa sia pubblicabile e cosa no. Non in senso so bad it’s good, sia chiaro: è più che altro il solito discorso di non capire come la mancanza d’interesse possa elevarsi a forma mentis. John Lydon cavalca l’onda con una dignità rara, ma rimane comunque la questione di ritrovarsi tra due o tre o sei mesi al raduno mensile dei fan dell’ultimo disco dei PIL e saremo rimasti in sette, il ristorante farà schifo e twitter sarà in down.

UNSANE – WRECK

Non posso nascondermi dietro a un dito e questa è l’unica musica che oggi ritengo imprescindibile e necessaria. Naturalmente è uguale identica alla musica prodotta sotto lo stesso nome e dalla stessa gente vent’anni fa, e quello che IO considero necessario dovrebbe essere preso ad esempio di cosa dovrebbe essere preso e buttato nel cestino con sdegno e disgusto in quanto appannaggio di una generazione di vecchi con la bava e la schiena malferma che pensano di insegnare qualcosa a qualcuno. Ieri ero in mezzo a un viaggio in auto con un programma radio di Assante e Castaldo, nel quale veniva più o meno snocciolata la playlist definitiva DEL ROCK, della quale ho fatto in tempo a sentire solo le prime tre posizioni che erano Bob Dylan, i Led Zeppelin e i Pink Floyd, massimo rispetto per Bob Dylan per carità, ma proprio vaffanculo. Ecco, gli Unsane sono i miei Led Zeppelin con meno idee e più fotta, e niente e nessuno riuscirà mai a giustificare la mia mancanza d’immaginazione, men che meno il fatto che gli Unsane di questa generazione non esistano o siano dei manigoldi con una mano sulla frangia e l’altra sull’iPhone. Se avessi diciott’anni probabilmente prenderei una chitarra e caccerei il me vecchio bavoso col trip del noise a piangere in un angolo, o morirei provandoci, o magari mi farei le foto dall’alto ascoltando gli I’m From Barcelona, e rimane comunque il punto.

LANA DEL REY – BORN TO DIE

Un altro caso di hype tipo quello di Grimes riguarda Lana del Rey, ma confronto a Lana del Rey Grimes è una caccoletta. Quando uscì Video Games era assolutamente indispensabile avere un’opinione su Lana del Rey (la maggior parte della gente ha scelto un’opinione tipo non è necessario farsi un’opinione su Lana del Rey dopo aver sentito un pezzo, ti pare?. Gli altri si sono divisi più o meno equamente tra quelli che boh il pezzo non è brutto, vediamo un po’ e chi si augurava che il mondo finisse prima che il disco andasse nei negozi. Alla fine il disco nei negozi c’è andato davvero, ha fatto un po’ di mossa (se non erro si parla di un milione e mezzo di copie) e Lana è stata –sostanzialmente- relegata a fenomeno marginale a metà tra i reality e la strada, occasionale ospite di qualche Saturday Night Live a caso senza che nessuno si sia preso il disturbo di attivarsi per farle fare quel passo che da fenomeno internet ti rende Adele. E dopo due mesi nei quali non ho pensato a Lana del Rey manco una volta, manco davanti a una tipa coi capelli lunghi e le labbra rifatte che minacciava di farmi pestare dal suo fidanzato, è uscito il video di National Anthem. Il video è una versione ipertiroidea del peggior immaginario glo-fi a disposizione della mente umana: Abraham Zapruder come padre putativo di tutti gli hipster col lomokino, A$AP Rocky (lo Snoop Dogg del drugapulco-hop) nel ruolo di Kennedy e ovviamente Lana moderna Jackie O. Un immaginario così tumblr non poteva che rilanciare per l’ennesima volta Lana del Rey come una specie di meta-popstar per quelli che trovano Lady Gaga troppo difficile o troppo carica, e Born To Die (che è il nome del suo primo disco, oltre che l’unica seria dichiarazione programmatica dell’artista) si sta facendo un ultimo giro nei lettori della fanbase inesistente di queste cose con un’onda autogenerata di consensi di secondo grado stile troppo frettolosamente accantonato da un pubblico di hater. Vaffanculo. A questo punto forse dovrei spiegarvi che senso abbia trollare una ragazzina rifatta e la sua fanbase solo perché odio il suo disco e l’estetica alla base del progetto, ma a che pro? Credereste comunque di essere persone migliori di me e/o superiori a queste cazzate. Bravissimi, ma se vi foste dati fuoco al vostro primo hit di Video Games  sul tubo, probabilmente avrei una buona opinione del mondo.

THE SMASHING PUMPKINS – OCEANIA

La maggior parte della gente aveva accettato in tempi non sospetti l’esaurimento della favella di Billy Corgan, si era messa il cuore in pace e si sarebbe potuta vendere la sua storia in una miriade di versioni una più romantica dell’altra. Il punto di frizione principale di tutta l’epopea C0rgan è il pubblico: anche volendo lasciar perdere i fan (che voglio dire, io sono un fan dei PJ e ti posso raccontare anche adesso, seduto a un tavolo, che Backspacer sia un ottimo disco) il mondo è costellato di analisti che hanno preso ogni singola ciofeca incisa dall’uomo da Adore/Machina in poi, smontata pezzo per pezzo, rimontata e rivenduta al pubblico con un inventario dei motivi per cui sì e dei motivi per cui no. Anche dopo cose tipo gli Zwan, Zeitgeist e Teargarden by Kaleidyscope c’è un pacco di gente che non considera Billy Corgan il figlio di Dio ma che comunque pondera dischi come Oceania per filo e per segno con più buona fede di quella riservata a qualsiasi altro artista. Così, come per magia, abbiamo dovuto riprendere in mano l’ultimo disco firmato Smashing Pumpkins e riascoltarlo per essere sicuri che non ci fosse del vero in quelle parole gentili e moderate, quei giudizi dal cautamente positivo all’entusiasta, quelle apologie tipo finalmente torna Billy a ricordarci cos’è il rock americano. Non vi odio ma sono perplesso.

JAMES FERRARO – FAR SIDE VIRTUAL

Ora, che James Ferraro e gli Skaters siano dei grandi non è una cosa che su B**tonate si mette in discussione, ma questa cosa ha a che fare più con il passato dell’uomo che col suo presente. E anche volendo essere indulgenti, abbiamo coscienza del fatto che Far Side Virtual (se non lo conoscete, immaginatevi la versione verista di Neon Indian: cut-up ad altissima fedeltà fatti con materiali di scarto culturale tipo musiche da videogame non-ripescabili e cose così) sia un disco molto conscio e rivelatore di certi scenari. Finito il primo giro d’ascolti, in ogni caso, non vogliamo fare i conti con l’impianto ideologico del disco, e se non possiamo fingere che non esista ALMENO possiamo pensare che non ci porterà da nessuna parte e verrà accantonato come un brutto scherzo nel giro di un altro annetto massimo.

MARK LANEGAN – BLUES FUNERAL

Nessun motivo in particolare, pura qualità: non possiamo permettere che la gioia per l’arrivo del primo disco a nome Lanegan da quasi un decennio distolga la nostra attenzione dal fatto che il primo disco a nome Lanegan da quasi un decennio fa cagare.

DISCONE: PIL – This is PIL

È da qualche tempo che non riesco più a leggere o sentire la parola PUNK senza provare un moto di fastidio, ed è abbastanza bizzarro se pensi che tuttora non riesco a non ammettere che  Fresh Fruit for Rotting Vegetables è il mio disco preferito. È che semplicemente da qualche anno i discorsi sul PUNK hanno perso completamente la brocca: non è mai stato chiaro cosa significasse come definizione, ma credo che fino a una quindicina/ventina d’anni fa tutti fossero d’accordo che PUNK supponesse una situazione in cui qualcosa rompeva vistosamente delle regole culturali esistenti e formalmente rispettate. Poi il termine è tornato di moda, e poi rompere le regole era diventata una specie di regola fissa ed oggi siamo arrivati al punto in cui se un disco non è immesso sul mercato in una forma inusuale (download, streaming gratuito, nameyourprice, applicazione iPad, video interattivo, esecuzione dal vivo in mezzo a un cerchio del grano etc etc etc) finisce a vendere duecento copie tra i tuoi parenti e non è detto che non ci finisca comunque, e quindi essere punk è la regola anche per Rihanna e secondo l’interpretazione corrente del termine è possibile considerare punk un normalissimo disco folk registrato da un ex artista non-folk, sulla base che –semplicemente- non è una cosa a cui l’artista in questione è avvezzo.

Da questo punto di vista non stupisce (anche se irrita) il fatto che John Lydon, cioè uno dei principali modelli a cui si pensa nell’usare il lemma in questione, si prenda la briga di esistere giostrandosi in contemporanea tre identità in palese conflitto l’una con l’altra: cantante dei Pistols riuniti ormai su base triennale, comprimario di lusso in programmi TV spazzatura ed artefice unico di un progetto PIL rimesso in strada dopo vent’anni di inattività. La reunion dei Public Image Limited era già stata fastidiosa al tempo dell’annuncio, quando diventò chiaro che non era altro che un ripescaggio del moniker con un turnista delle Spice Girls al posto di Jah Wobble e Keith Levene dimenticato da qualche parte all’inizio degli anni ottanta. D’altra parte il terreno era favorevole all’Uomo: per prima cosa i PIL sono la sega mentale di John Lydon dal terzo disco in poi, e –soprattutto- la fanbase dell’Uomo consta perlopiù di una serie di post-rockers avvinazzati e propensi a considerare puro genio qualsiasi cosa esca dal suo cilindro, ivi compreso farsi dilaniare in diretta TV da un branco di struzzi. Nei tempi che viviamo è molto difficile trovare qualcuno il cui impatto culturale resista così tanto a fronte di così poco sforzo.

L’Uomo, dal canto suo, ha sempre avuto un’invidiabile nonchalance nel prestarsi alle peggiori pantomime a cui possa prestarsi una rockstar dismessa, e di certo gli va riconosciuto un talento naturale di equilibrista delle situazioni (o situazionista dell’equilibrio), almeno fin dai tempi della prima reunion dei Pistols, con quel bizzarro aplomb stile sto facendo una cosa specifica in questo momento e questa cosa che faccio non mi sta definendo come persona che a conti fatti gli ha evitato di esser preso sul ridere o sul serio in un sacco di momenti chiave e di diventare un’icona pop contemporanea qualunque fosse il periodo a cui il termine contemporaneo si riferisse. La cosa ha un suo senso soprattutto se consideriamo appunto lo svilirsi sostanziale del termine punk, una specie di limbo ideologico secondo cui avanguardia è una dimensione musicale introdotta tra la fine del ’77 e il ’79 e riprodotta per filo e per segno nei trent’anni successivi facendo attenzione a non sgarrare mai.

Il paradosso finale è che una delle più coinvolgenti critiche a questo stato mentale venga proprio dal disco nuovo a firma PIL, specie se anticipato da un singolino calligrafico ed evanescente come One Drop. Rimasto solo al comando e privo di qualsiasi obbligo morale, John Lydon esce allo scoperto con una dozzina di deliranti proclami millelire che se non stessimo parlando di un manigoldo verrebbe da paragonarle a Dujang Prang di Alan Vega. This is PIL si fonda sulla stessa idea estenuante di minalismo applicato al pop e lo rappresenta in modo molto più crudo e impressionante delle più rosee aspettative in merito, per esplodere in capolavori di nu-disco mongoloide alla Lollipop Opera che solleticano la voglia di evasione dell’ascoltatore prima di risbatterlo in mezzo a una strada. Non fosse per le occasionali (e brutali) rimpatriate dei Martin Rev e/o Mark Stewart e/o Robert Hood del caso, probabilmente non sarebbe possibile trovare tracce della musica contenuta in This is PIL in quasi niente di quello che sta in commercio. Lo stesso appeal da lavoretto a cottimo minimo sindacale dell’opera (che a conti fatti potrebbe essere riprodotta con gli stessi risultati in una decina di altri titoli da qui alla fine dell’anno) ne aumenta il fascino. Non so dire quanto durerà, ma al momento (e contro ogni aspettativa) l’ultimo disco dei PIL mi sembra la cosa più giusta da ascoltare in questi giorni.

PS: INTERNATIONAL DAY OF SLAYER. Fatevi sotto.

il pezzo serio.

Questo pezzo non parla di niente. È una specie di abbozzo di cose che succedono e se non esistesse il blog omonimo si sarebbe chiamato Pop Topoi, ma ovviamente se non ci fosse stato il blog non mi sarebbe mai venuto in mente e tutti saremmo più snelli e felici, ivi compreso il pezzo che sto scrivendo il quale sarebbe stato defalcato di due o tre righe MA se non cito Pop Topoi almeno una volta ogni due settimane mi esplode il cervello. Per ora la chiameremo PIPPONE. La principale notizia musicale del giorno è che in una New York inguaiata dalla testa ai piedi col CMJ, aka invasa da un esercito di indie-reporters tra cui persino qualche sparuto amico mio, i Daft Punk hanno suonato al Madison Square Garden sul palco dei Phoenix, o viceversa. Pare che della partita facesse parte anche Wavves, il mio pop-rocker contemporaneo preferito partendo dal fondo. In altri posti ed altri palchi la nuova America del rock faceva bella mostra di sé con la stessa colpevole nonchalance con cui ti spurghi il naso con l’anulare di fronte a tua madre durante il pranzo di natale per fare sfoggio del tuo ateismo. Questo dei Daft Punk assieme ai Phoenix naturalmente è un naturale punto d’arrivo della musica ed una piccola morte dell’orgoglio mainstrindie, e somiglia molto metaforicamente a un ciclo di reincarnazioni buddiste bruscamente interrotto dagli zombi che mordono la musica viva infettandola e rendendola una di loro, da cui ovviamente si capisce che a dispetto di ogni ragionevole previsione l’attesissima colonna sonora di Tron Legacy farà CAGARE A NASTRO e conterrà almeno un dirigibile nero, cioè l’unica vera freccia all’arco dei Phoenix. Mentre succedeva tutto questo (non tenendo conto del fuso orario) io stavo ascoltavo una ragazza (la mia) leggere una fiaba della buonanotte a sua nipote intitolata L’amico del piccolo tirannosauro, un grandioso precipitato di cultura pop che contiene tirannosauri, topi, animali strani ed informi, cucina faidate, amicizia, cose verdee e –del tutto a sorpresa- Wolfgang Amadeus Phoenix in persona, fagocitato e cacato via dal Piccolo Tirannosauro pochi secondi prima dell’inizio della storia a segnare il principio di una nuova necessaria ondata di vitalità barbarica (cit.). La cosa più divertente ed autoironica del tutto è che per il viaggio d’andata verso la casa in cui veniva raccontata la storia avevo trovato necessario incaponirmi per avere un best of di Beyoncè (informalmente fomentato da un post di Colasanti), a costo di dovermene fare uno con le mie mani. Il che non sarebbe stato difficilissimo, considerato il fatto che un best of di Beyoncè che si rispetti contiene solamente Crazy in Love, il guest starring in Telephone di Lady Gaga (che comunque già possiedo nella mia copia di Fame Monster, anche se ormai è troppo rigato e devo cambiarlo) e ovviamente Single Ladies, una canzone il cui ritornello potrebbe essere storpiato nell’espressione Boia d’e singulèri, un moccolo inoffensivo che non sapendo cosa significa esattamente non sarei in grado di tradurre se non come Bioparco, cercando di svicolare sul senso e droppare l’argomento prima di incappare in qualche domanda scomoda e tendenziosa –per quanto immaginare Beyoncè che smoccola un tanto al chilo mentre balla sorridente a grappoli di tre  è BELLISSIMO e importantissimo e più pop di qualsiasi cosa abbia fatto Stefani Angelina Germanotta questa settimana (non essendo occorsi questa settimana i VMA, nel qual caso la gerarchia sarebbe stata ristabilita a forza di calci e bistecche di manzo). Curiosamente scopro che qualcuno ha già pensato di fabbricare un best di Beyoncè, e riesco ad accaparrarmi un torrent in sedici secondi contenente una decina di pezzi con dieci remix ad opera di cani e porci. Il mio universo collassa. Riesco comunque a masterizzare un CD, lo metto su e prima di imboccare la superstrada mi torna il bisogno fisico di ascoltare un disco a caso degli Husker Du, il che significa che l’overdose di pop becero e brutto (la musica brutta è migliore, e qui cito un gigante come Fabrizio Ferrini, tra i più grandi conoscitori di musica che abbia mai conosciuto) sta passando in favore del sempiterno noiosissimo concetto di non passa più. Il video di Single Ladies è talmente DROGA che in qualche modo sono costretto a ipotizzare complotti, tipo che nella versione uncut (quella che passa su Vimeo, perchè su Vimeo tutto è più verdeo che su Youtube) ogni trenta secondi appare la gigantesca scritta OBEY. Il gancio con gli Husker Du serviva solo per dire che oggi ho anche pensato ai live più belli e importanti della storia del rock e me ne sono uscito fuori con una lista su Twitter, che riposto qui perchè su Twitter io non sono un cazzo di nessuno:
#1 Replacements al CBGB’s, circa 1984, ubriachi fradici, cover di Sabbath/REM/Beatles, musica che viene da Dio e a lui ritorna
#2 Husker Du – Camden Palace, Londra, 1985 (audio). bottona. la miglior celebrated summer mai suonata tra quelle che ho sentito.
#3 Rollins Band -Live 87/88 (dal cofanetto Audio Airstrike Consultants). Gun In Mouth Blues dieci volte meglio dell’originale, cioè dieci volte meglio della musica rock,
#4 Brutal Truth – Goodbye Cruel World, spiegazioni pleonastiche.
#5 Suicide – 23 Minutes Over Brussels. vabbè.
#6 Stooges – Metallic KO (in realtà qui ci avevo messo i Pearl Jam a Seattle 2000, poi ho visto la vita superarmi e farmi il dito).
#7 MC5 – Kick Out The Jams.
#8 Slayer – Decade of Aggression.

e qui mi interrompo per mettere nono e decimo a pari merito tutti i dischi e le cose dal vivo che non ho in mente in questo particolare momento. Naturalmente non intendo dire che preferisco Stooges, Suicide ed MC5 agli Slayer, nè che in qualche modo il live degli Earth col pezzo pallosissimo di settanta minuti uscito su Megablade sia in qualche modo inferiore a 23 Minutes Over Brussels. Come potrei? Il problema naturalmente non sarebbe nemmeno quello. Su twitter la situazione si incaglia invece perchè il live preferito dei Pearl Jam di GiorgioP è un altro. GiorgioP è un fan degli ultimi Converge, di Vasco Brondi, dei Sonic Youth e di tante altre cose che rivelano sostanzialmente la confusione emotiva che la sua generazione continua a fare tra scorrettezza politica e dare opinioni non richieste. In questo senso il consigliatissimo blog di Giorgio, nonchè il celeberrimo tlog che a lui fa capo, sono la forma più compiuta di nostalgia anni novanta messa in scena sul web in questo momento. Primo perchè nel blog di Giorgio in linea di principio ci scrivo anch’io, secondo perchè Giorgio è anche un fan di Justin Broadrick e terzo perchè io negli anni novanta a GiorgioP NON LO CONOSCEVO, e questo è indice di tante cose, la prima delle quali è che prima del 2000 non ho mai visitato Roma. Uso le ultime dieci righe per un’autocritica e per fare una sponda. La prima si basa sul fatto che quando mi metto a scrivere senza un argomento potrei andare avanti per giorni e giorni, anche se in genere arriva (metaforicamente parlando) qualcuno che mi toglie da un tavolo di blackjack che sto sbancando per portarmi a vedere Tab Jones, la seconda è che parlando di metafore una domanda MOLTO interessante è perchè i tre dischi più caldi dell’alternative italiano (Verdena, Marlene Kuntz, Le luci della centrale elettrica) hanno tutti e tre un titolo che è una palese e definitiva metafora delle seghe?
Il nuovo Le Luci della Centrale Elettrica si chiama Per ora la chiameremo felicità.
Il nuovo Verdena si chiama WOW.
Il nuovo Marlene Kuntz si chiama Ricoveri virtuali e sexy solitudini.
Un’altra domanda che mi sto facendo da ore e ore è se l’uscita quasi contemporanea del nuovo disco delle tre formazioni sia o meno la più meschina e pianificata alleanza contro l’italiano corrente degli ultimi venti o trent’anni. Poichè la risposta non è particolarmente interessante passo oltre, nel disperato tentativo di non passare per un fan dei Verdena anche se di fatto i Verdena (per motivi a me ignoti) mi son sempre piaciuti UN CASINO, anche Il suicido del samurai, anche il Grande Sasso, tutto quanto. Se è per questo arrivai anche a consigliare caldamente Vasco Brondi a m.c. in tempi non sospetti, ammesso e non concesso che per Vasco Brondi siano esistiti tempi non sospetti. Gli dissi che mi ricordava il primo Carboni e questa cosa mi mandava fuori. Qualche mese o anno dopo, al concerto degli Ex con Mekuria, m.c. mi risponde che credo di aver capito LLDCE, davvero, insomma, il fascino che può esercitare, insomma, portami a bere dalle pozzanghere, va bene, ma ecco… anche no. Decretai la sua vittoria formale e sostanziale, in larga parte perchè nel frattempo avevo girato il culo e perso interesse in Brondi e in qualsiasi altra forma di cantautorato ad eccezione di Fausto Rossi e Piero Ciampi, e mettiamoci dentro pure il riunito Edda che tirò fuori in quello stesso periodo un disco che ho ascoltato una volta a dir tanto ma che, insomma, non è che ci puoi dire molte cose contro. Nell’attesa dunque che i tre mammasantissima del rock italiano caghino fuori il loro ovetto d’oro, mi segnalano che Ari Up muore di una malattia contro cui stava lottando, che John Lydon era il suo patrigno e che il Kindergarten di Bologna è stato chiuso per storie di droga sgamate da un’inchiesta di Repubblica. Pare che nonostante fosse appunto coinvolta Repubblica, il Ministro della Cultura non abbia detto un cazzo di niente in merito. Non che io sia mai stato al Kindergarten, ma se tagliano la programmazione rischio di vedermi saltare l’agendina settimanale dei concerti. L’unica altra cosa rimasta da dire è che questa settimana Indie Passere ha aggiornato, e qui mi interrompo perchè voglio scrivere un pezzo per Maps sulla ristampa del primo disco degli Earth prima che il gallo canti. Ora che ci penso qua intorno di galli non se n’è mai sentito uno, quindi Francesco e Jon se la possono anche andare a prendere nel culo fino a domattina. Sapete quale potrebbe essere un’idea davvero STUPIDA? Infarcire il post di foto del piumone su cui sto sopra in questo momento.