Altra serata di ardite impalcature sonore e accostamenti estremi al SI courtesy of la longa manus dei folli idealisti di Offset; dopo la triturante accoppiata Ruins-Sabot è la volta dei protégé di John Zorn Ahleuchatistas, opportunamente introdotti dalla tempesta di ultraviolenza psicosomatica generata da dj Balli, fresco reduce dalla sua ultima nefandezza – il folle reading-truffa situazionista “B. Corgan” (pare che a Roma abbia dovuto interrompere la performance perchè sennò gli menavano).
Balli si riconferma – se mai ce ne fosse ancora bisogno – l’incubo peggiore di chiunque da un dj set si aspetti schemi collaudati, moduli rassicuranti o – più semplicemente – pezzi con una struttura. Col cazzo: Balli crea l’esatto opposto, e la delirante mezzora imbastita questa sera non è che l’ennesimo tassello di una storia personale che continua a dipanarsi, inattaccabile per credibilità e convinzione, in perfetto bilico tra caos ragionato e ironia fulminante. Un incubo marinettiano di dischi suonati uno sopra l’altro, campionamenti di lezioni di educazione sessuale estrapolati da obsoleti 33 giri di (almeno) cinquant’anni fa, sfrigolii e repentine sciabolate di rumore in onde corte, il sample loopato di un dialogo tra Bombolo e Tomas Milian in cui il primo sta per mangiarsi un suo stesso escremento (con però sopra un po’ di parmigiano), ondate di bassi spaccabudella, clacson, sibili urticanti e rumori ‘trovati’ di ogni tipo, la puntina fatta girare e saltare sul piatto lanoso agitando il giradischi come se si stesse praticando il massaggio cardiaco a un cyborg, vecchi 45 giri jungle suonati a velocità alterate, versi di animali non identificati, gran finale con riproduzione della lettura della sentenza di assoluzione a Pacciani “per non aver commesso il fatto”. Non è niente di nuovo, ma riuscire a rendere ancora appassionante, divertente e imprevedibile questa roba è da veri professionisti, e questa roba Balli la manda avanti da quasi 15 anni. John Oswald la prenderebbe bene.
Gli Ahleuchatistas salgono sul palco che Balli deve ancora finire di mettere ordine nel macello – da lui stesso generato – di vinili senza custodia impilati uno sull’altro a lato della consolle. Avevano iniziato come trio grindcore, ma quella di stasera è tutta un’altra band; via il basso, un nuovo batterista reclutato nel 2008 grazie a un annuncio su myspace e della formazione originale è rimasto soltanto il chitarrista e mastermind Shane Perlowin. Shane è molto alto, quasi due metri, ha una faccia da venditore di aspirapolveri porta a porta, tiene la chitarra molto vicino al petto stile quinto Beatle però dissociato e al plettro preferisce le dita, che si tratti di fingerpicking rudimentale o di furioso tapping vanhaleniano poco importa; Ryan (il nuovo batterista, quello di myspace) è un bel biondone dell’Illinois paurosamente simile a Emanuele Filiberto con un fisico da fotomodello di biancheria intima, suona scalzo e – come quasi ogni batterista – ha almeno cinque o sei tic facciali diversi che ciclicamente gli devastano i lineamenti. Il loro prog math-rock al tempo stesso arieggiato e ottundente è quel che uscirebbe da un’ipotetica jam tra i mai troppo lodati 1 Mile North e i Don Caballero di 2; dai primi prendono l’amore per i suoni caldi e laceranti e la stratificazione delle chitarre (debitamente campionate e messe in loop tramite una bella serie di pedali), dai secondi la propensione per soluzioni e passaggi particolarmente contorti ed epilettici e il drumming arrembante, virtuosistico senza fartelo pesare, sclerato e jazzmetalloso, ma sono indicazioni di massima. Insieme legano bene, musicalmente e umanamente: si divertono, scherzano tra di loro e col pubblico e suonano con scioltezza pezzi ingarbugliati come uno studio per piano di Rachmaninov facendoteli sembrare roba facile. Soprattutto, si capisce che quello che stan facendo gli piace: tengono banco per quasi un’ora e mezzo, tornano sul palco due volte per altrettanti bis, sudati e stremati scattano foto alla platea e alla fine del concerto sembra veramente di essere stati a vedere gli AC/DC al Coliseum. Poi tutti a fare delle chiacchiere nel cortile del teatro San Leonardo, dove il povero Sean si è dovuto sorbire un interminabile e sconclusionato pippone (mio) su Mick Barr e su quanto sarebbe bello se andassero in tour assieme. Grandi anche nella pazienza.
Tag: John Zorn & co.
MATTONI+RECENSIONI : CEPHALIC CARNAGE – “Halls of Amenti”, Relapse repress.

Personalmente ho sempre reputato i Cephalic Carnage un gruppo medio-buono, degno del successo che ha (che per l’underground non è poco) ma stringi stringi, siamo sempre di fronte a uno dei (non pochissimi) gruppi jazz/death da figli illegittimi di John Zorn ed Exit 13, tecnicamente eccelsi e tutto quello che volete, ma che poi (a differenza dei padri) il classico “disco della vita” non lo sfornano mai. Per intendersi, di quelli per i quali le bio si sperticano in frasi come “abbattono le barriere musicali”, “la loro pazzia gli permette di spaziare per tutta la musica, non solo estrema”, “non si pongono limiti tranne quelli di accettare le cazzate che scriviamo sulle bio” e via dicendo. Roba che di norma funziona così: senti il disco, ti piace, magari in certi casi arriva fino a dicembre in tempo per una citazione nella poll di fine anno, e dal gennaio dell’anno successivo prende polvere 364/365 giorni l’anno. Per carità, discreta/buona/ottima (a seconda dei casi) musica, ma resta il fatto che, per quanto alcuni di questi gruppi apportino sviluppi interessanti, l’idea di base stava tutta dalle parti di Zorn e dei suoi Painkiller. Eppure, i Cephalic Carnage una volta sono veramente usciti dal loro seminato suonando più semplici, avvenne nel 2002 con “Halls of Amenti” unico pezzo sludge/doom di 19 minuti che a giudizio di chi scrive non sfigurerebbe nemmeno nelle discografie di qualche band pestona di New Orleans che queste cose le fa di mestiere. La loro pazzia (ebbene si, l’ho detto, dando un senso allo stipendio di chi scrive le bio) è messa da parte, giusto un drumming leggermente più complicato in un passaggio, qualche vocalizzo non da gente della Lousiana e un (ottimo) break acustico escono dall’ortodossia. Quello che sorprende è che da un gruppo che in genere cura più la forma che la sostanza sia uscito un disco che fa esattamente l’opposto, e lo fa benissimo. Considerando la difficile reperibilità della stampa Willowtip, si conferma la regola di una Relapse che forse non è più all’avanguardia come un tempo (ammesso esista ancora qualcuno che lo sia) e nelle novità qualche colpo a vuoto lo accusa, ma che quando ristampa sa BENE come e soprattutto dove farlo, si veda ad esempio Convulse e Nirvana 2002.
Un bel MATTONE, non c’è che dire.