LIRBI #3 – LE VITE DELGI ALTRI (BIOGRAFIE E COSE DEL GENERE)

Lirbi 3

KEGGERE è VIVERE vite di altri, diventare ALTRO DA SÉ e, indossando una maschera di parole, RINACSERE. Questo è il punto in cui di norma scrivo “VAFFANCULO” e non che io voglia deludere nessuno, ma è tanto il disagio che non ho voglia nemmeno di incazzarmi. Il disagio, intendo, che provo ogni volta che mi capita di leggere interviste a scrittori in cui si chiede loro, Ma eri tu il protagonista, e quelli rispondono fascinosi, C’è sempre qualcosa dello Scrittore nei suoi personaggi, e alla banalità, al grigiore di questa risposta mai nessun cane che replichi OH GRAZIE AL CAZZO ELLIS, E ADESSO DICCI SE DAVVERO HAI UCCISO TUTTE QUELLE PERSONE OPPURE NO. Bè, comunque: il mio genere preferito è la BIOGRAFIA, anche la AUTOBIOGRAFIA a volte, ma naturalmente mi riferisco a biografie e autobiografie di persone famose, altrimenti mi piacerebbe pure roba tipo Solženicyn, Taiye Selasi, Bukowski e il Mein Kampf.  Mi piacciono pure abbastanza i libri che parlano di opere scritte da altri – quelli che ti fanno chiedere “ma perché diavolo sto leggendo un libro sull’Iliade e non l’Iliade?” – perché, bè, perché sono più facili da leggere delle opere originali, tipo quel libro di Vassalli su Dino Campana che poi vai a leggere Campana e ha parole tipo otticuspide ed è esoterico e ostico. Ma di poesia la rubrica si occuperà in una edizione futura: LIRBI è oggi dedicata ai LIBRI SU ALTRE PERSONE o SULLE OPERE DI ALTRE PERSONE. Sempre famose, che se no muoio.

Ray Monk, Wittgenstein. The Duty of Genius, Vintage Books, pp. 616, £ 12.99

Il bello di Wittgenstein è che nessuno ha mai capito nulla di quello che scriveva, eppure tutti lo adorano, e sono convinti nel loro profondo di possederne una chiave di lettura piccola, magari secondaria, ma che certo li avvicina in qualche modo allo stoca* di Vienna. Fa eccezione mia moglie Oktyabr, che lo detesta, mentre non faccio eccezione io, che ritengo le sue Note sul Ramo d’oro di Frazer il particolare, piccolo testo che permette una autentica comprensione… Oh, fanculo, NON CAPISCO UN CAZZO DI WITTGENSTEIN VA BENE?, è solo molto bello ritenere che ciascun bambino sorridente trasformatosi col tempo in uno scontroso depresso celi in sé un fottuto GENIO che un mentore potrà svelare e donare al mondo. Insomma, non ho ancora del tutto abbandonato la speranza di incontrare il mio Bertrand Russell (pessimo Russell, tra l’altro. Il più noioso filosofo di tutti i tempi, almeno tra quelli di cui si sia conservato il nome. Un suo libro, nella squallida edizione paperback della TEA, appariva in un video dei dARI). Nel frattempo, data l’impenetrabilità di Witt, mi accontento di leggere le sue biografie, la più bella delle quali – insieme a La lite di Cambridge (D. Edmonds, J. Eidinow, introvabile in edizione italiana da Garzanti.  Esiste però in inglese, a titolo Wittgenstein’s Poker) che parla però più che altro del suo scazzo con quel coglione di Popper – è questa Wittgenstein. The Duty of Genius che è dettagliata, davvero molto dettagliata, e riporta robe tipo la fase in cui Ludwig progettava aquiloni (esiste un libro piuttosto complesso solo su questo: Wittgenstein Flies a Kite, di Susan Sterrett) e la filastrocca che i compagni di scuola di Wittgenstein gli cantavano per prenderlo per il culo. Succedeva alle superiori, eh, non all’asilo, e tra gli studenti della scuola c’era anche Adolf Hitler. (Voto 9, è divertente, giuro, non ci crede nessuno ma è un libro davvero fico. Peccato che l’edizione italiana – Wittgenstein. Il dovere del genio – sia introvabile. Voto 8 a quel fregno disegnato da Witt che è sia una papera che un coniglio e che serve a spiegare un astruso concetto filosofico. Voto 4 al padre di Wittgenstein, che aveva otto figli di cui sette geniali, e che li ha costretti a studiare tipo economia industriale facendone suicidare diversi, e l’unico che riteneva coione lo ha lasciato fare and HE FUCKING CHANGED WESTERN THOUGHT FOR GOOD)

* stoca (o stoka) sta per ‘sto cazzo e nello slang romano del passato (raramente oggi) indica con sardonico disprezzo uno che, a suo dire, ha sempre ragione, conosce ogni cosa, e tutto ciò che fa lo fa a perfezione.

Peter Hook, Unknown Pleasures. Inside Joy Division, Simon & Schuster, £ 9.99 (paperback) – 16.00 (hardback). Edizione italiana Joy Division. Tutta la storia, Tsunami € 19,50

A proposito di Wittgenstein, c’è un libro famoso, Sesso e carattere, pubblicato a Vienna nel 1903 da Otto Weininger, un ventenne ciccione (non è vero), omofobo, misogino e antisemita (per quanto, curiosamente, omosessuale e ebreo), che poco dopo la pubblicazione si suicidò nella casa dove era morto Beethoven. Il libro, ben recensito – oltre che da questo blog – dalla rivista di Karl Kraus (v. recensione successiva), conteneva argomentazioni pacate tipo “maledetti ebrei/donne troie”, ed ebbe una vasta influenza sul pensiero dei compagni di scuola Adolf Hitler e Ludwig Wittgenstein, ossessionati com’erano dall’antisemitismo il primo (c’è una sua frase in cui ricorda che Weininger fosse l’unico buon ebreo mai esistito) e dall’imperativo distortamente kantiano “o sei un genio o muori” il secondo. Che cosa tutto ciò avesse a che fare con Peter Hook e i Joy Division mi era vagamente chiaro quando ho iniziato a scrivere, ma ora l’ho dimenticato. Di certo c’è che i Joy Division furono la più grande band europea (record non ancora migliorato), subirono – erano ancora dei teenager all’epoca – l’influenza del visual design nazista, e il loro cantante fu un genio che di certo non faceva compromessi, morte compresa. Il libro del suo bassista Peter Hook (in romano Pider Ucche, un altro che ci sapeva abbastanza fare) un po’ sfata il mito della rockstar, però esprime con tenerezza il concetto che Ian Curtis era anche, solo un ragazzino. (7 al libro, ma stando lontani se possibile dall’edizione italiana, più costosa e scialbamente titolata Joy Division. Tutta la storia – potevano fa’ “tutta la verità” a sto punto -, come se esistessero fan dei Joy Division incapaci di comprendere il titolo originale, e come se il libro avesse così qualche chance di essere acquistato da persone diverse da quei fan).

Jonathan Franzen, Il progetto Kraus, Einaudi, pp. 235, € 19,50 [ed. or. The Kraus Project, Farrar, Straus & Giroux, pp. 336, $ 27,00]

Oooh, Franzen scopre Kraus e lo regala a noi stronzi, impacchettandolo con le sue minchiate, cioè i suoi commenti al testo originale trasudanti ESPERIENZE PERSONALI e autoreferenzialità. Madonna quanto mi danno al cazzo gli intellettuali che a un certo punto scoprono un autore del passato (di norma celeberrimo, come Karl Kraus), se ne innamorano/si identificano con lui, e cominciano a rompere i coglioni al mondo intero BALOCCANDOSI, CINCHISCHIANDO  e altri verbi fastidiosi con le pagine e le parole di questo autore, che io immagino tutte stropicciate e unte e scarabocchiate a matita se non addirittura con il LAPIS (dà più fastidio il nome) e poi commentate e annotate su scrivanie in penombra. Vabbè, insomma, a Jonathan Franzen è piaciuta la lettura di Karl Kraus, ehi benvenuto Jonathan, siamo quattrocento milioni e uno con te, e ci offre le sue preziose idee in merito con l’aria di uno che ha ritrovato i rotoli di Qumran e li decifra per le masse. Karl Kraus, se lo volete sapere, è pubblicato da Adelphi a prezzi variabili tra i 9 e 15 euro a seconda dell’opera. Di buono questo libro (almeno nell’edizione americana) ha il testo in tedesco (ma bisogna conoscere un po’ la lingua e quindi essere davvero molto interessati a Karl Kraus, senza peraltro essersi mai procurati prima il testo tedesco, quindi è una bontà inutile per i più) e il progetto grafico che riprende quello originale di Die Fackel, la rivista autoprodotta di Kraus che EHI WOAH OGGI SAREBBE UN BLOGGER!!!!11! (non è vero) e che comunque è meglio nella edizione originale americana – Einaudi la riproduce un po’ in giallino, non so perché, forse non c’è un perché, e solo frontalmente. Nel risvolto di copertina dell’edizione americana c’è  poi una fotina di Franzen ventenne messa di fianco a quella del giovane Kraus, come a dire, ecco un ragazzo fottutamente geniale, principe in fieri della letteratura laureata, che oggi, completamente compenetrato con il suo Maestro, ne restituisce l’opera arricchendola con la sua esperienza nordamericana, facendola risplendere, e illuminandoci con quello splendore. MALEDICAT ILLUM COELI ET TERRA, ET OMNIA SANCTA IN EIS MANENTIA. (Karl Kraus è un classico, perciò 10, se non dai 10 ai classici fai la fine di quel coglione che dette 8 a Forever Changes dei Love e che Julian Cope sfanculò nel più bel pezzo mai apparso su internet. Non sapete di cosa parlo, eh? Bè, se siete fortunati tra 150 anni Franzen – voto 4 – mi scopre e mi fa l’edizione esegetica).

Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, Edizione annotata da Alessandro Baricco, Einaudi, pp. 113, €9,00. Con considerazioni su Salinger, Il giovane Holden, e la biografia di Salinger pubblicata da ISBN edizioni.

Oh ragazzi, state attenti, se volete leggere il – peraltro notissimo – articoletto di Benjamin su Nikolaj Leskov, incluso – per esempio – anche nella raccolta Angelus Novus, è questa l’edizione da scegliere. La riconoscete, è l’unica opera di Benjamin pubblicata in Italia a non avere una copertina filosoficamente sobria, bensì un pupazzo pianista fuori luogo, oh ma EHI!, il pianoforte, se lo guardate bene, è un libro. E già qui il corpo del lettore inizia a decomporsi. Poi però il libro lo leggi anche, e scopri che Baricco – parte di una élite di centodiciannove milioni di persone che hanno letto Walter Benjamin in generale e questo scritto in particolare, di cui Bar, fastidiosamente, fa feticcio – ci ha fatto la grazia di curarne un’edizione annotata, ma annotata in senso GIOVANE/ORIGINALONE, tipo che una delle note – giuro – consiste nella frase “Digliela tutta, Walter!”. Il livello è questo. Baricco chi?, Baricco cosa?, Baricco lo stile architettonico?, ma come, dai, Alessandro Baricco, quello che suonava la pianola negli Air. Il giovane Holden ha fatto danni a una profondità difficile da immaginare. (voto 0 a ogni cosa, compreso Il giovane Holden non tanto di per sé – dalla mia posizione privilegiata di essere nessuno lo ritengo un buon 6, addirittura 6,5 se consideriamo solo gli americani del ventesimo secolo. C’è da dire, però, che come tutti gli italiani che hanno letto la famigerata traduzione “classica”, probabilmente non l’ho davvero letto – non di per sé, dicevo, ma per tutto ciò che ha significato, cioè la creazione di una genìa di ragazzi – a volte, peggio, ragazze – bianchi tutti intenti a scrivere del loro buco del culo. Questa è dovuta al mio amico MR, r.i.p., ok mi riprendo. Dicevamo?, ah sì, Salinger, Salinger demmerda, aborro questi personaggi dal grande ego, questi maschi che non sanno fare un cazzo di niente da sé e però vanno con le ragazzine fottendosene, auto-giustificandosi col proprio genio, un genio auto-proclamato, che poi qualcuno ci casca sempre. Lo condannerei all’oblio, e noto con piacere che la casa editrice ISBN è d’accordo con me: ha comprato i diritti di traduzione della biografia, mettendola poi in vendita a 49 euro – quarantanove – che è il modo più subdolo e perfido di tenere la gente lontana, il modo più perfido per dire, in sostanza: a Salinger, ma vaffanculo)

La pesantata del venerdì, n. 3 // Vietcong Apparel

Il comandante Giap e Karl Kraus con la maglia della Lazio (courtesy of fotomontaggifattimale.wordpress.com)
Il comandante Giap e Karl Kraus con la maglia della Lazio (courtesy of fotomontaggifattimale.wordpress.com)

Fallimento USA. Evviva, evviva! Non siamo più gli unici falliti. Oltre ogni più rosea aspettativa, quattrocentomila americani – quanti sono gli americani? – si uniscono da oggi, massimo domani, alla massa felice dei senza speranza. Felice perché il mercato della non-speranza, con tutte le sue sottocategorie, dalle principali (precari nella vita, precari nell’amore, non ci sono i soldi per il cinema, non ci sono i soldi per il teatro) alle minori (chiudono gli istituti di cultura, e ora i baroni non possono più regalare briciole di borse di studio a dottorandi senza senso), ha dato di fatto un orizzonte, una mission, una vision (l’uso di termini aziendalistici fuori contesto è fatto puramente per irritare il lettore, ndr), diciamo un senso, per essere demodé, a tante vite perdute. Gesù Cristo, ma tutto ciò è di un cinismo impressionante. Forse lo è, ma sono sottoposto, incolpevole, innocente, al fuoco di fila dei commenti sulla vicenda da parte dei rivoluzionari da internet – quelle persone, sapete, wiki-educated, facebook-wise, che straparlano di questi fatti con tono guerrigliero e antagonista, rimanendo peraltro indulgenti sulla propria ghiottoneria di consumismo. Postano, twittano, si accalorano, si piacciono (non trovate perverso il meccanismo del “mi piace”?), producendo una gran massa di contenuti che assomma ad esattamente niente. Il tutto per mezzo di canali e strumenti messi a disposizione al costo di diverse centinaia di euro, oppure del fornimento gratuito dei propri dati, da multinazionali malate e ammalanti che costituirebbero, poi, il cuore di tutto ciò a cui si oppongono, e che oggi sta divorando se stesso, in una accelerata forse definitiva verso la morte.

Ovviamente scherzo, io amo gli americani. Tutto ciò che hanno prodotto. Quasi tutto ciò che hanno prodotto. Ok, mi piacciono gli Stooges. No, ma diciamo la verità: quanto cazzo so’ stretti i vestiti di American Apparel? Ma soprattutto: quanto è ingannevole il fatto che, per venire incontro alla gente comune di norma frustrata dal vedere modelli magri e belli pubblicizzare marche che proprio per questo non verranno comprate, ha utilizzato fotomodelle pienotte? No, dico, è uno scandalo, un attentato paradossalmente quasi sovietico alle individualità e alla coscienza personale. Tu non puoi fare la cazzo di 36 stretta puttana merda, perché indossare una 36 ti fa sentire automaticamente un ciccione estromesso dalla vita contemporanea, ma come sarebbe che la 34 non mi sta, io ho lottato tutta la vita per la 34 e adesso sono costretto a tornare di là, prendere la taglia più grande, tornare in questo sgabuzzino dove un altro feroce corpo a corpo con della stoffa corduroy non servirà ad altro che a mostrarmi che anche la 36 è piccola. La 36 piccola è un crimine contro l’umanità, la 36 piccola non deve esistere, ed io piccolo Nguyen Giap del cazzo muoverò abilmente le mie pedine e i miei uomini topo finché non avrò messo in piedi un brand che umilierà il vostro. Che poi, ora che ci penso, i vietnamiti (nord e sud) probabilmente si sarebbero trovati benissimo coi piccoli capi American Apparel. Una nazione con la 29, Dio li benedica. La 38 da American Apparel non esiste proprio. Chi ha vinto, davvero, in Vietnam?

Decadenza e morte. Questo rimane oggi dell’impero che produsse una sovranità mondiale così pervasiva che quando vai in Texas ti ci ritrovi meglio che alla Garbatella. E quello che è irritante, almeno per noialtri pochi reietti che ancora ci aspettiamo una qualche fioca luce dagli intellettuali, è che anche da quel punto di vista, adesso, siamo veramente a ground zero. Prendiamo per esempio l’ultimo libro di Franzen. Tutto questo post è un pretesto, volevo parlare precisamente dell’ultimo libro di Franzen, che si intitola The Kraus Project ed è un’insopportabile riscoperta-appropriamento-riproposizione degli scritti di Karl Kraus tradotti e commentati da Franzen stesso, che in questo modo li dona finalmente agli americani, e per mezzo degli americani a tutti gli americani di provincia, compresi noi stronzi buoi con la nostra editoria stronza e buoa che probabilmente in questi giorni si sta accaparrando i diritti d’autore per proporre più in là una costosa edizione italiana del libro, già me la vedo, Stile Libero Einaudi Big, costina gialla antiestetica e carta da culo usata per l’interno. Una collana capace di rendere brutto qualsiasi libro pubblicato all’interno. Venticinque euro. Qualche mese dopo l’edizione nei supertascabili. Dio maledica l’Einaudi colorata. Affanculo l’Einaudi colorata e l’influenza del book design anglosassone. Ma dicevamo del Kraus Project. Non ho nulla contro Karl Kraus e in generale contro l’entusiasmante Vienna in cui viveva – tra l’altro, avete mai riflettuto sul come la città più straordinaria della modernità si sia trasformata nel giro di pochi decenni nella più bolsa, irrilevante e noiosa meta turistica d’Europa? -, ma io odio gli intellettuali quando si innamorano di autori minori, se ne appropriano e tutti contenti come ragazzini veicolano un messaggio che ne sopravvaluta di molto la portata, e che viene a sua volta fatto proprio da un pubblico talmente ignorante da essere catturato da qualsiasi fregnaccia ben presentata e da essere privo, peraltro, di propri strumenti di valutazione. Dio che odio la copertina del libro, che sagacemente riprende questa grafica primi-900 e Die Fackel. Prepariamoci a questa riscoperta generalizzata di Karl Kraus, il povero, incolpevole, minore Karl Kraus – minore Karl Kraus?!, sì, minore puttana merda, perché anche se il nostro massimo sforzo intellettuale è Crozza, la satira è inferiore all’arte drammatica e un buon battutista, persino il principe dei battutisti, non sarà mai re nel mio cuore. Prima di dire qualsiasi cosa, prendete qualsiasi farsa o satira o commedia di tutti i tempi e paragonatela al momento in cui Ettore chiede pietà, e Achille gli risponde: muori.

Muori: ecco, in appendice, la muori-list della settimana, editata da una commissione di saggi e in uscita tra centovent’anni per Farrar, Straus and Giroux, curata e tradotta dal pronipote del pronipote stronzo di Jonathan Franzen.

–          O tu che domani sovvertirai l’ordine costituito indossando la maschera di Guido Fawkes (#respect) a Roma, riducendo perciò la tua protesta a nient’altro che esibizione (nient’altro che intrattenimento), e impedirai a me di circolare, e intanto continuerai a non leggere, o tu rivoluzionario dei miei coglioni: muori!

–          O gioventù sulla quale ha influenza ideologica non già un filosofo fedifrago o un muezzin berciante, ma un film per ragazzi peraltro brutto come V per Vendetta: muori!

–          O tu che ti spogli in piazza per mostrar che, a differenza della nostra odiosa classe politica, tu non hai niente da nascondere, non il tuo corpo imperfetto, eppure così bello, proprio perché imperfetto: muori!

E in tutto ciò l’ATAC continua a scioperare. Quattrocentomila dipendenti raccomandati e se lamentano. Sarà che gioca la Roma stasera. V per Vaffanculo. Mi incammino. Buona domenica.

NB; il pezzo contiene alcuni elementi di fiction. Del resto, si fa della letteratura, qui. Le finzioni sono le seguenti: i pantaloni di American Apparel taglia 36 mi stanno, anche un po’ larghi (beccati questa Satana). Non è vero che qualunque libro uscito per Stile Libero Einaudi, Big o non Big, sia brutto: Open di Agassi è bello. Lo stesso vale per l’Einaudi colorata, i supertascabili, come si chiamano. All’interno di quella collana, hanno avuto l’ardire di mettere Una questione privata di Fenoglio che è un capolavoro, e se ne muore più triste e solitario di Fenoglio stesso nel vedersi accanto Miyazaki (no, come si chiama quello scrittore giapponese che piace alle donne? Murakami Haruki, tipo?). Invece se non sbaglio proprio i libri di Murakami Haruki li hanno rifatti in una collana con design di Noma Bar, che è un grosso. L’ho conosciuto a Ferrara e mi ha detto di andarlo a trovare se vado a Londra. Non so se diceva sul serio, penso di sì, però nel dubbio ho deciso che non andrò mai più a Londra. Infine, non so quanti siano i dipendenti dell’ATAC, so solo che sono tanti e che l’anno scorso è uscita la notizia che era traboccante di raccomandati. Poi è finita così, scandalo scandalo, è arrivata la domenica, ha giocato la Roma, ha giocato la Lazio, e pace così. Gli autobus continuano a non passare. Quello vaga in bicicletta per i fori imperiali. Io non lo so. Forse mando il curriculum all’ATAC.

PS: la buona notizia della settimana è che ho iniziato Doctor Sleep di Stephen King e le prime trenta pagine mi hanno fatto cacare sotto.