Recensioni old skool: THE MELVINS – FREAK PUKE

Ora girano sotto il nome di Melvins Lite e suggeriscono il fatto di non avere più due batterie. Naturalmente supporre che dopo una trentina di anni e di dischi alle spalle i Melvins siano altro che King Buzzo e Dale Crover più una sfilza di manovali tecnicamente dottissimi è quantomeno una forzatura, non fa eccezione naturalmente l’innesto di Trevor Dunn al posto del tizio dei Big Business. E niente, dopo una carriera passata a rovinare amplificatori e palchi e playlist di fine anno ci sta pure che i Melvins infilino di tanto in tanto un disco bruttino come quello di remix o il presente Freak Puke. Oddio, forse “bruttino” non ci sta nemmeno. È più semplicemente un disco prodotto un po’ così e con dei pezzi un po’ così, pochissime punte di classicismo sludge alla Melvins e tante variazioni sul tema quasi tutte abbozzate alla bell’e meglio e quasi tutte fuori contesto. Voglio dire, non è che non c’eravamo quando uscivano gli Honky del caso o il disco con Lustmord, ma non stiamo parlando di niente di così organico o di così volutamente disorganico. C’è una raccolta di pezzi, a un certo punto attaccano degli archi, ci sono abbozzi di suono quasi wave, una cavalcata finale di stampo vagamente kraut rock e tutto un po’ di fango, il tutto suonato come fossero pezzi dei Melvins e con la bruttissima scelta di una registrazione che sembra voler farci credere che King Buzzo e Dale Crover suonino da sempre lo stesso strumento. Va benissimo, ma se devo scegliere prendo la bassa macelleria di The Bulls and the Bees o le cover di My Generation fatte palesemente per ridere. Voglio dire, non è del tutto necessario avere fuori un disco nuovo ogni tre mesi.

DISCONE: Melvins – Sugar Daddy Live (Ipecac)

La ragione per cui i Melvins sono ancora qui mentre tutti i loro compagni di strada prima o poi hanno mollato è che la loro visione è più forte di tutto. Più forte del tempo, che passa per tutti ma evidentemente non per la loro musica, sempre sgradevole e sbilenca e opprimente, sempre meravigliosamente ottundente e pervicacemente uguale a sé stessa. Più forte della vita, con tutti i suoi scomodi ostacoli che vanno dalla fame agli stenti alle bollette da pagare alla droga ai mille bassisti che vanno e vengono all’invecchiamento precoce al bisogno intrinseco di trovarsi un lavoro dignitoso. Più forte perfino dei Melvins stessi, che pure ci hanno provato a domarla, ad addomesticarla a uso e consumo di major, network tv e platee avide di marionette cenciose da spremere fino all’ultimo brandello di umanità nei favolosi anni novanta: dischi per Atlantic, videoclip e improvvise manie di grandezza dello scriteriato Joe Preston (d’un tratto convintosi di essere diventato una rockstar) non hanno intaccato l’inossidabile attitudine respingente, molesta e anti-umana che da sempre è il motore del gruppo. Brutti come la fame, pesanti come un macigno da dieci tonnellate rivestito di cemento armato, lenti e implacabili come la morte in un ospizio, i Melvins hanno attraversato indenni oltre un quarto di secolo di storia della musica pesante, creando scene, lambendone di striscio altre, comunque tracciando un segno indelebile in discipline tra le più diverse e disparate tra cui (almeno) metal, noise, doom, ambient, stoner, sludge e ovviamente “grunge”. Continuano a incidere dischi di cui non frega un cazzo a nessuno (a parte il solito nugolo di irriducibili più dissociati di loro) e a portare i loro grugni inguardabili e i loro temibili ventri da birra a spasso per il mondo a una media di un disco-tour all’anno, inarrestabili come un carrarmato pilotato da un mongoloide. Probabilmente soltanto la morte li fermerà.

Lo scrisse il collega quando si trattò di parlare dei Melvins dal vivo. Per chi si sia perso l’ultimo recentissimo giro in terra bolognese di Buzz e soci (per cause di verdena maggiore il concerto della band è iniziato tipo a mezzanotte di un giorno frasettimana, era un po’ dura per i non residenti con una vita), recuperiamo un sensazionale disco dal vivo che ci ripropone perlopiù una raccolta di versioni paurose di canzoni tratte da Nude With Boots (straordinaria la Dies Irea che riprende il tema di Shining) e A Senile Animal infilando senza fare una piega una manciata di classici tipo la (inserire un termine pescato a piacere tra quelli che piacciono ai giornalisti del  settore, tipo annichilente o apocalittica) chiusura di Boris. Tutte le volte che i Melvins mettono il naso fuori di casa la prima cosa che viene da pensare è che lo fanno perché hanno bisogno di fare la musica che fanno e perché il mondo ha bisogno di ascoltare quella musica lì. King Buzzo e Dale Crover funzionano nella misura in cui non funzionano il mondo, la vita, la musica e le persone di cui ci circondiamo. In un mondo perfetto sarebbero roba da adolescenti; in questo li candiderei tranquillamente alle presidenziali USA.