Il disco più bello di sempre.

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono tre ragioni per cui lo faccio: la prima è che mi permette di dare un’altra sfumatura a “uno dei miei dischi preferiti”. “Uno dei miei dischi preferiti” posso dirlo di centinaia di dischi. The More Things Change è uno dei miei dischi preferiti,  Zen Arcade è il disco più bello di sempre. La seconda è che mi permette di non scegliere tra Zen Arcade e, non so, End Hits o SxM. La terza è che le ragioni devono sempre essere tre. Il febbraio del 1993 credo sia stato freddo come di solito a febbraio, quando i Nirvana (la formazione è la stessa che ha inciso Nevermind, due anni prima, e che è esplosa in giro per il mondo) entrano in uno studio in culo al Minnesota per registrare il loro secondo disco di inediti su Geffen. il nome degli studi è Pachyderm. Un paio di mesi prima PJ Harvey ci ha registrato Rid of Me (uno dei miei dischi preferiti). Fuori c’è aspettativa. Kurt Cobain è già in down: ha sposato Courtney Love e avuto una figlia, viene massacrato dalle associazioni, divide il mondo tra pro e contro, è già diventato il simbolo di un’inclinazione che non ha idea di cosa sia. Vorrebbe stare bene, ma sta male. Se li ascolti nella provincia romagnola a quindici anni i Nirvana sono un gruppo rock. Magari un gruppo rock grandioso, che piace a tutti e che sta cambiando le cose ed è dappertutto, ma è –di base- un altro gruppo rock. La cosa della musica indipendente e dei Flipper e degli altri duemila gruppi preferiti di Kurt Cobain (il più grande critico rock americano) e di tutto quello che ci sta dietro la sai se hai qualche anno più di me sulle spalle, se leggi i giornali, se hai fatto il primo giro negli anni ottanta e magari racconti con nonchalance di avere visto i Nirvana al Bloom assieme a un altro centinaio di persone. La frase our band could be your life l’ho ascoltata per la prima volta a diciotto o diciannove anni. Odio arrivare dopo.

Per registrare In Utero i Nirvana possono scegliere il produttore che vogliono. È una specie di informale invito a una guerra civile: Kurt Cobain odia Nevermind, il modo in cui è uscito e quel suono così pulito: vuole qualcos’altro che forse sia solo suo, o forse vuole ributtarsi sul mercato dichiarando in faccia al mondo quali siano le sue origini, o forse vuole sabotare la propria carriera con un disco inascoltabile, tornare a suonare nei club e rimettere in piedi la propria vita. Forse vuole solo fare un disco che lo faccia stare bene mentre lo realizza. Difficile dirlo, e in fondo poco importante. Steve Albini lavora con chiunque, ma quando lavora per una major chiede più soldi. Per i Nirvana spunta un compenso di centomila dollari. Non prova alcun affetto per il gruppo. Di loro ha detto cose tipo “REM with a fuzzbox” e per lui non è un complimento. Il disco, secondo i piani, sarà registrato in due settimane al massimo. Albini lavorerà con il suo secondo, un ingegnere del suono di nome Bob Weston. C’è una foto con i Nirvana, i due ingegneri del suono, la figlia di Kurt Cobain e un cane.

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Questa foto l’ho vista per la prima volta due settimane fa, in un pezzo su Rolling Stone. Grazie Chiara. Per la maggior parte della gente immagino sia la foto dei Nirvana con quelli che gli hanno registrato il disco. Per me ha un valore speciale: contiene tutta la mia musica preferita. L’anno successivo uscirà il primo disco del progetto musicale di Steve Albini con Bob Weston, assieme a un batterista del Minnesota di nome Todd Trainer (categoria “il disco più bello di sempre”). Albini e Weston, anche separatamente, produrranno i più sensazionali dischi degli anni novanta e oltre. I Nirvana hanno i nervi a pezzi e sono al loro apice creativo. Le session di registrazione secondo le cronache sono tranquille, con un momento di frizione quando arriva Courtney Love e inizia a metterci il becco. Steve Albini consegna i nastri al gruppo, Cobain fa sentire i nastri alla casa discografica e ai tizi viene un colpo. Si tratta di roba grezzissima, tutt’altro che in bassa fedeltà ma incentrata su un’idea di suono totalmente diversa da qualsiasi standard del ragionevole si possa pensare per un disco pop rock -anche oggi. Le voci non sono doppiate, quasi inintelligibili in certi sfoghi strumentali, le batterie sono piene di echi, come se fossero state registrate dentro l’hangar di un aeroporto. Le tracce parlano perlopiù di tante sfumature diverse per cui l’esistenza fa schifo; i tizi della Geffen non si fanno pregare troppo e decidono di rispedire i nastri al mittente. Delle tracce viene detto “non all’altezza degli standard del gruppo”. Del disco in sé viene detto “impubblicabile”. Kurt Cobain passa dall’euforia dei primi giorni a un’insicurezza cronica; si parla di remixare il disco, Steve Albini s’infuria e rifiuta. Il lavoro di Andy Wallace su Nevermind sembra bruciare ancora un bel po’, finisce con una disputa e la soluzione di compromesso di rimettere le mani sui pezzi che diventeranno singoli. Lo farà il produttore dei REM Scott Litt. e il disco uscirà nel settembre del 1993. Il titolo voleva essere Odio me stesso e voglio morire, ma qualcuno fa cambiare idea a Kurt Cobain.

Nella maggior parte dei casi le situazioni in cui ti ascolti un nuovo disco sono sempre più o meno le stesse, quindi non è facilissimo ricordare cosa hai provato e quando e cosa pensavi fuori dalle orecchie. Questo per i sedici anni: quando sei più adulto semplicemente non hai più quel genere di spinta emotiva e ti occupi di cose che hanno un senso. Però molta gente che ascolta musica ha dei rituali: chi se l’ascolta in cuffia da solo in un viaggio in treno, chi spegne la luce, chi si prende in mano un libro e tutte quelle perversioni lì. Io avevo un mangianastri e facevo quel che potevo. Alcune cose dei dischi che ascolti si perdono nel tempo, alcuni dischi la prima volta manco ti piacciono. Anche quelli belli. Ce ne sono alcuni fatti apposta per non piacerti al primo giro, anche se sono meno di quelli che pensa chi li produce, i dischi. Di In Utero non ricordo dov’ero o con chi o a che volume, no, il volume me lo ricordo, era tutto a destra e io il pomeriggio ero quasi sempre da solo in casa. L’inizio del disco invece è come un film, tutte le volte: ci sono tre colpi di bacchette e poi uno SBRANG terrificante caciaronissimo e poi parte uno dei riff meno carichi della storia del gruppo. I primi due versi li conoscono pure i bambini ma fanno male tutte le volte. E Kurt Cobain li canta e sembra ubriaco. È il più bell’inizio di disco che io abbia ascoltato e il gruppo per ora sta scherzando. Uno se ne accorge quando inizia la traccia due, che invece è la cosa più violenta a cui i Nirvana abbiano mai messo mano e uno dei massimi capolavori di Steve Albini. Da lì in poi ognuno ha la sua classifica. La mia contiene quasi tutte le tracce del disco: persino i pezzi remixati da Litt sono anni luce avanti da certi scempi perpetrati dalla coppia Vig/Wallace su Nevermind. Saltuariamente i ricordi si legano a pezzi di tracce e linee di testo portandomi alla mente il viso di una persona che ho amato o un posto dove stavo o qualcosa che ho detto o non detto a qualcuno, ma per la maggior parte del viaggio, dentro In Utero, sei nella testa di qualcun altro. Di dischi che fanno questo effetto ce n’è pochini, se togli quelli che suonano falsi rimangono cose tipo World Coming Down, metà della produzione di Alan Vega, Life Time, Fausto Rossi e non so nemmeno io che altro. O forse esistono dischi che succedono nella testa delle persone e non suonano come la lettera di un suicida o un grido d’aiuto e magari qualcuno parla di se stesso anche quando parla di lacrimogeni che ti esplodono in faccia e poliziotti che ti prendono a manganellate, ma soprattutto di questi ultimi dubito abbastanza.

Quando finisce All Apologies sono sempre allo stremo delle forze. Questa cosa è difficile da spiegare a qualcuno perché presuppone che la persona con cui parli abbia vissuto da adolescente un periodo in cui la musica più eccitante veniva prodotta da un gruppo che non era pronto, emotivamente, a gestire l’attenzione di così tante persone. E che i cui dischi erano troppo buoni per buttarli fuori dal cono di luce sotto cui stavano così scomodi. Kurt Cobain riuscì a suicidarsi nell’aprile del 1994. Fosse vissuto per sempre, non avrebbe mai scritto e registrato un disco più bello di In Utero. È impossibile. Qualche anno dopo l’internet ci sputerà i confronti coi mix originali delle canzoni. Pezzi sfilacciati. Sono migliori. Suonano verissimi. Odio arrivare dopo. Non ha alcuna importanza.

C’è qualcosa di profondamente disonesto nel continuare ad ascoltare In Utero, c’è qualcosa di personale e non-nostro dentro, che averlo pagato soldi all’epoca non basta a scaricarcelo dalla coscienza. C’è qualcosa di disonesto anche nel prendere un album così figlio dei suoi compromessi e ributtarlo sul mercato in versione super-deluxe, remixato agli Abbey Road da un tizio (lo stesso Albini) che all’epoca non voleva sentirne manco parlare e completato di decine di tracce extra ad allungare il brodo e rendere il viaggio imperfetto e troppo lungo dopo la fine di All Apologies, che già la traccia nascosta in fondo, quando inizia dopo tutto quel silenzio, è troppo da gestire. Un disco che forse era già il massimo che potevamo avere: la testimonianza ultima di un’etichetta che voleva il disco pop e s’è trovata in mano un baccano infernale, di un chitarrista che voleva fare solo un baccano infernale e non riusciva a non buttare fuori le più belle canzoni pop della sua epoca, di un ingegnere del suono che voleva sparire dietro il suo lavoro e che nessuno lo cambiasse. Non ha alcuna importanza: l’altro lato è un mito troppo grande per starci lontani. Ci ha definito nelle sue mancanze e ci ha tenuto svegli. Abbiamo pazientato vent’anni, ora basta: il più bel disco dei Nirvana, il disco più bello di sempre, esce il 23 settembre a celebrare il compleanno in versione ipertrofica. Il menu lo trovate qui. C’è anche un teaser trailer sul tubo, ma è troppo anche per me.

Il listone del martedì: OTTO MUSICISTI CHE NE SANNO A PACCHI DI MUSICA

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Per sfatare il luogo comune secondo cui chi suona nei gruppi sia una capra ignorante che si è sentita sei dischi in vita sua, una manciata di persone i cui ascolti ci hanno influenzato e ci hanno fatto stare bene

TOM HAZELMYER

La storia sarebbe che un tizio di Minneapolis fonda un’etichetta a metà degli anni ottanta per produrre i dischi del suo gruppo, che sarebbe la storia meno originale dell’indie rock di sempre se non fosse che il gruppo si chiamava Halo Of Flies e l’etichetta Amphetamine Reptile. Con la quale, sostanzialmente, Haze ci ha costretto a soggiacere ad un concetto di musica che era totalmente frutto di una sua sega mentale e l’ha imposto fino al punto da creare un genere musicale a sé. Anche da questo punto di vista non è che sia una storia così interessante, o almeno esistono altri esempi tipo Ian MacKaye, Greg Ginn, l’odiosissimo Jello Biafra (il cui unico merito era quello di spacciare musica non-punk ai punk), Greg Anderson/Stephen O’Malley e tutto il resto, ma non mi sembra la stessa cosa, o forse il fatto di avere imposto un’estetica nella quale per un certo periodo potevi stare su un palco con pantaloncini, berretto da baseball e scarpette tipo Reebok Pump ai piedi facendo comunque la figura dell’intellettuale è una cosa che impressiona solo me. (kekko)

STEVE ALBINI

Steve Albini è uno di quelli che dà una opinione sulle cose e quella diventa l’opinione giusta sulla faccenda (lo so che c’è un errore, è per tenerti sveglio).  Questo  riguarda qualsiasi argomento dello scibile, e approfitto dell’autogancio per riportare lo stralcio di un post su Rollins nel forum degli Electrical Audio: I guess I don’t see the point in exertion for the sake of exertion, and the element of vanity inherent in bodybuilding doesn’t appeal to me. If you’re conditioning yourself in order to do something, great. But I don’t see the value in picking things up off the ground and then putting them back. Più in particolare avere a che fare con Steve Albini vuol dire beccarsi un’opinione onesta tranciante e molto spesso negativissima su qualsiasi gruppo in terra ivi compresi quelli con cui lavorato (anzi soprattutto loro, magari perché ha cognizione di causa), questo da prima che diventasse musicista/produttore ma anche e soprattutto dopo. Il tutto è testimonianza per prima cosa del fatto che in certi casi sparuti (tre o quattro al mondo) lavorare bene ti può permettere di lavorare nella musica indie anche se sei una testa di cazzo, secondo che se hai inciso Songs About Fucking il tuo parere conta ancora un bel po’ e terzo (non so, ho avuto difficoltà a trovare la seconda motivazione in realtà). Va a finire che ad ascoltare le opinioni di Steve Albini per un lasso di tempo sufficientemente lungo si finisce plagiati in toto, diventando dei miopi rancorosi ancorché senza cognizione di causa per quanto riguarda microfoni e condensatori, e si inizia a prendere la vita per quello che è: un lungo topic sul forum di hatemusic.org nel quale il miglior gruppo mai esistito sono i Ramones o i Jesus Lizard e il peggiore gli Urge Overkill, e quasi tutti quelli in mezzo hanno qualcosa da nascondere. Va da sé che l’esistenza di Steve Albini non è particolarmente ben vista da chi legge le riviste e pensa che i musicisti passino il tempo a leccarsi il culo a vicenda: qualcuno ancora gli rompe il cazzo perché considera i Pixies un gruppetto (“la loro volontà di essere “guidati” dal loro manager, dalla loro etichetta e dai loro produttori è unica. Non ho mai visto quattro mucche più ansiose di essere prese per l’anello al naso e portate in giro”), qualcun altro lo ripesca di tanto in tanto per nutrire la scena di gossip (tipo l’affare Amanda Palmer: spara lì che chiedere ai tuoi fans di suonare gratis per te dopo che ti hanno allungato un milione di dollari in anticipo è una cosa da idioti, e i siti rititolano “Steve Albini dà dell’idiota ad Amanda Palmer”); qualcun altro rivede il suo giudizio in negativo dopo aver saputo che i Radiohead lo annoiano a morte. Succede. (kekko)

EVAN DANDO

Non è colpa mia se quando è uscito Il Laureato ero ancora dentro ai coglioni di mio padre (e lì sarei rimasto per diversi anni ancora). Nel 1992 però stavo già su questo pianeta, e in quel periodo mi capitava spesso di ascoltare alla radio un pezzo che mi piaceva molto. Mrs. Robinson. Lo cantavano i Lemonheads. All’originale di Simon & Garfunkel sono arrivato grazie a loro.
Nel 1995 esce un filmetto con una colonna sonora da paura: Empire Records. Dentro c’è il meglio di certo pop chitarroso e zuccheroso in equilibrio fatato tra Phil Spector e i gruppi della serie “Nuggets” però riaggiornato in chiave anni novanta e che urla anni novanta da ogni fibra. Una serie di numeri da tre minuti e via spaventosamente vicini all’idea di perfezione assoluta, magia pura, il concetto stesso di paradiso se il paradiso esistesse davvero, roba che farebbe schizzare la glicemia a livelli da polverizzare una mandria di bisonti e che solleverebbe il morale anche a Johnny di “E Johnny prese il fucile”. Quella colonna sonora, indispensabile se si vuole capire cosa significa essere vivi, l’ha assemblata Evan Dando.
Altre frequentazioni di quest’uomo meraviglioso: Eugene Kelly dei Vaselines (If I could talk I’d tell you, un altro pezzo che in meno di tre minuti dice più cose sul paradiso di quante ne dicano i vangeli), Mike Watt (Piss-bottle man, basta la parola), gente del giro australiano tipo Hummingbirds, Smudge, Godstar (basterebbe la loro opera omnia per stare bene vita natural durante), J Mascis e Murph, il regista James Mangold (Evan Dando recita in Dolly’s restaurant, inutile specificare che trattasi di una visione necessaria se avete un cuore e sapete farlo funzionare), poi certo Juliana Hatfield, poi certo i fratelli Gallagher nel periodo di massima deboscia quando l’uomo era diventato una specie di replica inconsapevole di Bez degli Happy Mondays ma ancora più inutile e patetico, il che ovviamente era sublime… E le cover anche, spesso migliori degli originali: Suzanne Vega, Townes Van Zandt, GG Allin, i FuckEmos… Senza di lui, che vita triste… (m.c.)

THURSTON MOORE

Fosse stato per i soldi immagino che i Sonic Youth si sarebbero limitati a continuare ad incidere dischi major di successo fino a diventare una barzelletta non divertente e/o dei reduci di guerra che intraprendono un reunion tour ogni vent’anni con stacchetto rumoristico per accontentare quelli che li preferivano puri, spettinati e confusion is sex. Questa cosa è stata evitata per puro caso per via del fatto che il cantante-chitarrista del gruppo è un fan di musica contemporanea in ogni sua forma, dalla più nobile alla più stronza e gratuita e priva di senso (vale a dire i My Cat is an Alien) Wolf Eyes a cose tipo Anthony Braxton o Rune Grammofon e cose simili. Thurston Moore, tra le altre cose, è la ragione principale per cui noise becero, folk macilento, avant-jazz e rock’n’roll urlato senza senso sono generi ascoltati dalla stessa gente, perlopiù un branco di irredimibili sfigati di fronte a casa dei quali bisognerebbe mettere per legge un cecchino che spari se provano ad uscire. E che pensano oltretutto di essere gli UNICI al mondo con un blend di gusti così vario ed assortito, gli unici ad ascoltare noise insensato e jazz minimale nelle stesse due ore e che odiano Thurston Moore e i Sonic Youth più o meno per gli stessi motivi per cui i fan della roba sponsorizzata da Kurt Cobain odiano i Nirvana, AKA grossomodo essersi svenduti alla musica commerciale e ai jingle del rock alternativo in tempi fin troppo sospetti. VAFFANCULO. Poi su tutto il resto delle cose fatte dai Sonic Youth, sia da su major che in libera uscita, ci si può pure buttare il sale sopra e tenercisi a distanza per puro principio, ma almeno arrendiamoci all’evidenza che i gusti musicali di Thurston Moore ci hanno tirato fuori dalla culla a calci in culo e ci hanno reso le persone sgradevoli che siamo, ci hanno riempito la casa di vinili dei Panicsville color ectoplasma imbustati nei cartoni della pizza e ci hanno fatto passare almeno una notte in bianco quando si trattava di comprare i biglietti per l’ATP più caciarone e coatto della storia.(kekko)

YNGWIE MALMSTEEN
“Lascia che ti chieda una cosa: Se uno dei tuoi colleghi, volontariamente o no, riempisse un suo articolo di errori di ortografia, cosa ne penseresti? Non credi che il suo articolo perderebbe in coerenza? Io ne sono sicuro. Leggere un pasticcio simile non servirebbe ad informare i lettori nel modo piu’ funzionale. E lo stesso vale per la musica. Un articolo pieno di errori di ortografia non piace a nessuno per una ragione molto semplice: Non è buono. Fa cacare.” (Yngwie Malmsteen inviperito dopo che a un blind test un redattore di qualche rivista gli aveva fatto ascoltare i Nirvana)
Le righe che precedono non contengono altro che sconcertanti verità. Certo non sarà facile capirlo per voi, scimmie illetterate che sprecate la vostra adolescenza tra un disco punk e un blog musicale: ma non c’è davvero nulla che si possa obiettare alle parole accordate e pentatoniche di Yngwie, un uomo costretto alle più atroci sofferenze essendo l’unico musicista rock, in fondo, a capirne di musica. Per lui deve essere un vero strazio. Come vi sentite voi, quando siete gli unici a capirne di quello di cui si sta parlando, voi che fate, che ne so, gli idraulici, e io vi chiamo e vi dico: ho il lavello interrotto, e voi: caso mai intasato, sì insomma, ma lo stappi, e voi dite, ok, deve esserci un’occlusione, e io: secondo me è un tappo, grossomodo è lo stesso, ma lei non usa la pompa?, che pompa?, la pompa che aveva il suo collega che venne un anno fa – come vi sentite? Malmsteen, perenne zimbello di praticamente chiunque ad eccezione di strani froci che insegnano chitarra ai tredicenni di Monteverde cercando di adescarli, è l’omino che tira fuori la merda dalle tubature che gli Steve Vai qualunque intasano di tritoni (con la o aperta, non gli animali – Yngwie se legge “tritoni” capisce al volo di cosa si parla) e pentatoniche, e quando finalmente riesce a liberarle, scopre con orrore che Steve Vai è decine di miglia sopra il più virtuoso dei non virtuosi che normalmente incidono dischi, vendono copie e sono adorati da noi giovani che di Bach conosciamo solo Sebastian senza Johann, e perdipiù lo riteniamo solo un personaggio di Una mamma per amica.
Perché il mondo è popolato solo da incolti pezzi di merda senza gusto, perché nessuno sa fare un bend passando correttamente da una nota e l’altra, perché – e non sto neanche ad argomentare la banale nozione che segue – i metallari autoproclamatisi tali non seguono le orme dei loro predecessori, Mozart, Vivaldi, Wagner? Malmsteen ha gusto, Malmsteen fa bend corretti col pensiero, Malmsteen avrebbe due paroline a dire a Wagner: Wagner, la terza corda del dodicesimo violino lì dietro è scordata di sette tritoni. L’animale? No l’animale, la nota! E comunque, a Bayreuth non si capisce un cazzo, rimbomba tutto. Malmsteen non rimbomba. Malmsteen è veloce, Malmsteen suona bene. Anzi, Malmsteen non suona, esegue. Quando Malmsteen esegue la caffettiera, il caffè passa in tre secondi e passando suona il Liebestod. A Malmsteen piacciono le cose pure: le persone a forma di persona, le note a forma di nota: “Lascia che ti dica una cosa……A me non piace Picasso e neppure nessun impressionista. A me piacciono Da Vinci, Rembrandt, Michelangelo……dell’arte “pura”. David Byrne ha recentemente scritto un libro sulla musica, e su questo Malmsteen ha scritto la recensione preventiva perfetta: “Non amo quei coglioni dei Talking Heads, non amo….quelli che fanno cose diverse fini a se stesse. E’ solo una scusa per non ammettere di non essere abbastanza bravi! Mi spiace ma io sono un purista. Trovo disgustoso che della gente paghi dei soldi per ritrovarsi con una merda simile di disco.”
Mi spiace, ma io sono un purista. E voi stronzi – vi leggo dentro – che avete preso per il culo Yngwie ogni giorno della vostra vita, sappiate che nel tempo che vi ci è voluto per leggere ogni parola di questo post, lui ha già eseguito un assolo. (ashared apil-ekur)

KURT COBAIN

Qualsiasi cosa pensiate dei Nirvana, se non vi siete calati nel pozzo di ascolti suggeriti da Kurt Cobain siete dei turisti del gruppo. Se vi siete calati nel pozzo e pensate ancora che i Nirvana siano il più grande gruppo in terra, siete probabilmente dei turisti della musica. L’una o l’altra c’è da perderci qualcosa, tanto vale cioè lasciarsi cullare dagli eventi e vaffanculo. Quando i gruppi punk melodici hanno iniziato a passare su major una delle scuse più usate era che lo facevano per il movimento, o cose simili: andavi a comprarti i Green Day perché stavano su MTV e nel giro di due mesi li sconfessavi per gli Stiff Little Fingers. Sarebbe una scusa stupida e/o un mare di minchiate mal indirizzate, ma èro,a p poi bisognava fare i conti col fatto che a un certo punto della storia dell’umanità è esistito Kurt Cobain. Uno dietro a cui hanno scritto milioni di pagine perché i Pearl Jam gli facevano cagare, che suonava al Saturday Night Live con la magliette su cui aveva scritto FLIPPER senza sapere che qualche anno dopo sarebbe diventata roba da pret à porter. Uno che, tra le altre cose, è responsabile da solo di tutto il culto ventennale intorno a gente tipo Vaselines, Jandek, Daniel Johnston, Wipers, K Records in blocco e via discorrendo (per alcuni di questi è responsabile anche del fatto che qualcuno li abbia mai sentiti nominare, in effetti). Uno che ti sbatteva i gruppi in faccia senza secondi fini e sulla sola forza dell’entusiasmo di farti ascoltare un gruppo perché a lui, buonanima, piaceva. Incidentalmente, la lista degli artisti di cui Cobain era innamorato è il perfetto incrocio tra musica di qualità assoluta ed ostentato bisogno di scavare più sotto del tuo vicino di casa: quasi tutti degli scappati de casa irredimibili che in un’altra vita si sarebbero visti tirare addosso i dischi anche dalle sorelle, roba che su un pubblico di gente “attenta” ha creato un’onda di andate e moltiplicatevi che ha messo in moto una caccia istituzionalizzata al cantautore più scalcinato e stronzo della storia dei cantautori scalcinati e stronzi –contrariamente a quel che mi piace pensare di Cobain la maggior parte del pubblico che ascolta musica sfigata lo fa perché ama la sfiga o non ha gusti musicali o per impressionare le ragazze, o tutte e tre le cose assieme. Cosa ancor più sublime, venire a contatto con gente tipo Wipers o Melvins o Flipper ha portato una ragionevole percentuale di fan dei Nirvana a disconoscere i Nirvana in quanto mezzeseghe e plagiari di tutta una serie di gruppi che hai conosciuto solo perché Cobain era in fotta e pensava che la DOVESSI ascoltare e ti ha fatto il favore di indossare la maglietta nel poster a cui hai dato fuoco nel nome dell’indipendenza e del non ciucciarti quello che si ciucciano tutti gli altri. È un mondo difficile.(kekko)

MIKE PATTON

Uno che ha sciolto i Faith No More prima della crisi creativa (il disco debole dei FNM è tipo Album Of The Year, che se li avessimo ascoltati ai tempi magari Serj Tankian l’avremmo assassinato nella culla) per dedicarsi a tempo pieno a cose tipo Fantomas, diciamocelo, una sua inclinazione ce l’ha. Si è poi scoperto che Mike Patton, erroneamente spacciato come genio da tutta una sottocultura di metallari non-malmsteeniani in cerca di scuse per guardare più al di là del fiacco presente di cui peraltro manco fan parte essendo il presente un luogo fin troppo comodo per uno che sogna di passare la vita dentro una tomba o in sella a un dragone, dicevo Mike Patton è solo un buon cantante, uno che è bravo soprattutto a inzeccare le note e a fare il matto senza esserlo davvero, e una metà grassa dei suoi progetti post-reunion si barcamena in uno spettro qualitativo che va dal poterne fare agevolmente a meno al pesantemente sconsigliato. Quello che invece lo mette in pole position nella lista di chi ne capisce un casino di musica è la mole di uscite fichissime messe insieme sulla inizialmente-non-sembrava-così-importante Ipecac (voglio dire, l’ha fondata col cantante dei DUH!, come faceva a sembrare una roba seria), a cominciare dai 314 dischi dei Melvins per arrivare a cose che stanno tranquillamente tra le migliori uscite degli anni duemila in toto, tipo i dischi di Orthrelm, UNSANE, Zu, Dalek, Locust, Moistboyz, l’antologia su Morricone che non è anni 2000 ma è uscita comunque negli anni 2000 a funerali della musica già avvenuti e a testimonianza del fatto che andare a riproporre musica che tutti già conoscevano e ascoltavano senza sapere di conoscere e ascoltare era molto più fruttuoso che impazzire dietro le seghe mentali di qualcuno che pensava di conoscere e produceva musica che stava a quella di allora come il riso integrale che si cuoce in 40 minuti sta al Carnaroli del supermercato (no, ho sbagliato esempio). Sta di fatto comunque che nel suo voler diventare lo Zorn dei poverissimi e fare di Ipecac la sua Tzadik, ci siamo trovati in mano una roba molto più sciolta e tranquilla che faceva sempre uscire il disco che avevamo voglia di ascoltare, e senza duecentosei dischi di compleanno. Il tutto nonostante Mike Patton ci sia stato sempre più sui coglioni ad ogni nuovo disco uscito, finchè non ci è toccato gettare la spugna e decidere che a conti fatti gli anni duemila sono stati una bella cavalcata e non essere un genio non è poi tutta ‘sta colpa.(kekko)

IL LISTONE DEL MARTEDÌ: dieci foto di gruppi che giustificano da sole la deprecabile arte del fotografare i gruppi

Torna l’appuntamento con il listone del martedì. Questa settimana vorrebbe essere una cosa disimpegnata, ma forse anche boh. Dieci foto che danno un senso parziale ai duemila euro che avete speso per la reflex e il lomokino. E ovviamente la prima della lista è

QUALSIASI FOTO DI JASON NEWSTED
Questa cosa risale ai tempi dei forum e delle webzine metal, sarebbe troppo complicato spiegarla e spiegare come mai tra i più grandi rimpianti della nostra vita ci sia passare notti insonni al computer rompendo i coglioni ai moderatori del forum di metallus.it e derivati.

LA COPERTINA DI LONDON CALLING
Le biografie ufficiali raccontano che Paul Simonon è finito dentro ai Clash nonostante non sapesse suonare, perché era un figo e stava bene col basso a tracolla. Qualche anno dopo viene fotografato nell’atto di spaccare il basso a terra (oppure no) e sbattuto in una copertina che vorrebbe essere lo spoof di un disco di Elvis Presley. Non so se l’ho mai detto qui ma io odio tre o quattro gruppi al massimo quanto odio i Clash. La foto finisce dentro perché in qualche modo poi t’ascolti il disco e pensi diobono, se mi limitavo alla copertina. No, scherzo. No, non scherzo. Continue reading IL LISTONE DEL MARTEDÌ: dieci foto di gruppi che giustificano da sole la deprecabile arte del fotografare i gruppi

IL LISTONE DEL MARTEDÌ: Dieci t-shirt ad argomento musicale che chiedono di essere lavate con benzina ed asciugate con fiammifero (cit.)

Solite regole, cioè il tema era quello nel titolo e lo svolgimento sta sotto.

1 LA MAGLIETTA DEI FLIPPER COPIATA DA QUELLA DI KURT COBAIN

Nel ’92 i Nirvana suonarono al Saturday Night Live e per l’occasione Kurt Cobain scrisse FLIPPER sulla sua t-shirt bianca col pennarone, assieme al disegno di un pesce coi dentoni. Vent’anni esatti dopo ho visto la prima t-shirt stampata FLIPPER con lo squalo addosso a un buzzurro palestrato. Voglio dire, a un certo punto ERA uscita la notizia su Stereogum con tanto di modello figo ad indossarla con il suo bacino perfetto, ma sembrava più una forzatura del vero basata su un possibile culto della personalità di Stereogum. Il tizio s’è messo a scherzare con altri buzzurri palestrati amici suoi, ha offerto un aperitivo a tutti e poi hanno iniziato a tirarsi i ghiacciolini sporchi di Negroni e ad imbrattarsi le rispettive magliette dei Flipper o camicie di lino. Non possiamo nemmeno accusarli di avere una vaghissima idea di chi siano i Flipper, perché –diciamocelo- anche noi COL CAZZO che avremmo ascoltato Generic se non fosse per Kurt Cobain. Il punto è che portare in giro una maglietta slim fit con il disegno uguale a quelli che un lunatico si faceva sulle sue con l’uni posca, ecco, tanto vale che te la fai con l’uni posca pure tu, evitando così (perlomeno) di entrare nel budget con cui Courtney Love riuscirà a farsi il pieno di botox a settembre.

2 BURZUM

Non è dissimile il discorso legato al black, che come nella maggior parte dei casi al mondo è un discorso legato alle magliette di Burzum. Per prima cosa il logo di Burzum è troppo leggibile. Seconda cosa, non voglio essere io a dire quello che devi o non devi fare ma un autentico fan di Burzum è supposto non portare la maglietta di Burzum in un posto pubblico (in effetti, un autentico fan di Burzum è supposto non esserci nemmeno, in un posto pubblico). Questo non vuol dire che chiunque non possa usarla per fare un discorso iconografico anche interessante, tipo maglietta Burzum e pantaloncini rosa e magari un paio di ammennicoli, ma bisognerebbe ricalibrare questo genere di cose e ripensare la propria vita alla ricerca di un domani migliore. Sono del tutto convinto che tu sappia qual è il vero nome del tenutario del progetto, e probabilmente anche il nickname dell’uomo da lui ucciso, ma cristo di un dio pure qua dentro scommetto che se chiedo di dirmi i titoli dei primi quattro dischi in ordine senza sbirciare su google otterrei delle percentuali da rifondazione comunista.

3 LA MAGLIETTA DI TOPOLINO CON L’IMMAGINE DEL PRIMO DISCO DEI JOY DIVISION

Poco tempo prima era saltata fuori la t-shirt di Topolino fatta con la copertina di Unknown Pleasures, cioè come la maglietta dei La Quiete fatta come la copertina di Unknown Pleasures, cioè come un’immagine rubata alla Cambridge Encyclopedia of Astronomy (lo staff raccomanda il copiaincolla). Qualcuno s’è arrabbiato anche molto, specie nei posti in cui incazzarsi o non incazzarsi costa più o meno lo stesso numero di battute, AKA tutta internet in blocco. Naturalmente in questi casi le prime accuse sono di sellout e le seconde sono di stupro ideologico. Entrambe le cose non tengono moltissimo alla prova dei fatti (voglio dire, quando Ian Curtis si uccise la maggior parte della gente che si lamenta manco era nata), ma l’accoppiata tra fumetti per l’infanzia e poeti decadenti morti suicidi sa pericolosamente di timburtonismo.

5 I JOY DIVISION

E comunque, se potessi scegliere, il problema principale del mashup Topolino/Joy Division sono i Joy Division. Non ho ben chiaro quando le magliette con la copertina di Unknown Pleasures hanno smesso di essere appannaggio esclusivo dei darkettoni sovrappeso il cui unico centro di approvvigionamento per i vestiti era la montagnola al sabato mattina e diventati la principale conquista culturale di un branco di giovani generici con Fastweb in tiro e il baffo incolto, ma i darkettoni sovrappeso, con tutto il retroterra nazi-decadente che si portano sulla groppa e li ingobbisce come studenti del DAMS in botta Nouvelle Vague, che poi sostanzialmente è la stessa cosa, davano poca confidenza agli altri esseri umani e si autoflagellavano nel loro calvario di auto-umiliazione ed auto-immolazione. Ora gli stessi individui, per evitare di essere confusi con i rottinculo generici di cui sopra, magari indossano maglie di gruppi autenticamente nazisti tipo Burzum e si stanno organizzando in ronde di sei o sette tizi per ripulire Bologna in generale e la montagnola in particolare dal degrado in cui è piombata. Where will it end?

(torniamo in fila) 4 LA MAGLIETTA DEL GRUPPO CHE STA SUONANDO

Ok, hai preso l’auto e sei venuto a vedere il tuo gruppo preferito, ma che ALTRI gruppi ti piacciono oltre ai Litfiba?

6 DANIEL JOHNSTON

È invece notizia recente quella secondo cui Supreme ha lanciato una linea di t-shirt stampate con disegni a firma Daniel Johnston. Qui entriamo in una specie di incubo mio personale, vale a dire che come tutti i fan di Daniel Johnston al mondo penso di essere l’unico vero fan di Daniel Johnston al mondo, cioè che il mistero intorno alla misteriosa misteriosità dell’Arte di D.J. sia visibile solo ed esclusivamente a me. Le t-shirt sono una figata, è impossibile nasconderlo. Il problema non è indossarle, ma entrare in un posto qualunque, trovarti di fronte qualcun altro che le indossa e iniziare a rimuginare su questioni di attitudine che solo per quelle servono quattro Jagermeister. Che cazzo ne sai tu di Daniel Johnston? Scommetto che ti sei visto sì e no il documentario e la pagina Wiki. Scommetto che non eri al Baraccano nel 2005. Scommetto che non hai comprato i remaster delle prime cassette. Scommetto che NON L’HAI CAPITO. Scommetto che indossi la t-shirt nel modo in cui ne indosseresti una illustrata da Ray Pettibon. Il rischio più concreto nel mettere una t-shirt di Daniel Johnston, in sostanza, è che qualcuno possa venir messo a parte di quel che succede nel tuo cervello.

I’m supposed to keep it together I’m supposed to keep my cool, I might be a big baby but I’ll scream in your ear till I find out just what it is I am doing here

7 LE QUATTRO BARRE NERE

A proposito di Raymond Pettibon, e giuro che non lo sto facendo apposta ma QUANTO CAZZO HANNO ROTTO IL CAZZO QUELLE QUATTRO BARRE NERE DEL CAZZO. I Black Flag, altro gruppo di cui sono convinto di essere l’unico fan al mondo, si sono sciolti col coltello fra i denti verso il 1986 (non potrei giurare sulla data precisa) e per come sto messo ora credo che la prima Rollins Band sia tutto sommato meglio. Qualcuno tra i meno educati di coloro che leggono codeste pagine stanno senz’altro maledicendo Dio e chiedendosi come cazzo hanno fatto ad arrivare al punto 7 di una lista compilata da un tizio che pensa che la Rollins Band sia meglio dei Black Flag. Ecco, quello che dovreste chiedervi è come mai è possibile vedere foto di Fergie con la maglietta dei Black Flag e una t-shirt con la copertina di Life Time finora non l’ha indossata manco Lady Gaga.

8 H&M

L’ultima volta che ho comprato cose da H&M la cassiera indossava una maglietta di un gruppo tipo gli Edguy e anche se io non so cosa suonino gli Edguy ma lo intuisco per via dei dragoni, insomma, premio simpatia alla commessa più classic metal che mi abbia mai fatto pagare una camicia, e anzi se mi permettete colgo l’occasione per dire alla cassiera metal di H&M che LA AMO e l’ho sempre amata, ben oltre i dieci secondi in cui la vidi fasciata da una t-shirt degli Edguy che se fossi il suo capo la licenzierei in tronco o le farei versare alcolici. Recentemente un’amica ha portato alla mia attenzione una t-shirt bianca con il logo dei Guns’n’Roses comprata da H&M dieci minuti prima, e pensavo fosse una scelta di cattivo gusto finchè un altro amico mi ha mostrato nel catalogo online magliette H&M con sopra la copertina di Check Your Head (una foto di Glen Friedman, gran stile) e altri mentecatti tristi e noiosi tipo Bowie o Coltrane. (Di Coltrane non lo so, ma vuoi che si siano fatti sfuggire l’occasione di mischiare le razze in nome del bebop? Lui o i Public Enemy) Comunque se la vostra musica preferita sta su una maglietta timbrata H&M, insomma, io inizierei a farmi domande serie su chi sono e cosa voglio dalla mia esistenza.

9 THREADLESS, IN BLOCCO

Già di suo è diventato difficile, parlando di t-shirt, distinguere tra un’idea geniale e una stronzata galattica. Voglio dire, qualche sera fa ero in giro con la maglietta di una nota marca di antipulci per cani, questioni di emergenza, e qualcuno ha fatto apprezzamenti in ottica indiepop (e per questo la maglietta verrà rimessa in pubblico quanto prima, non voglio dire di essere una persona onesta, sia chiaro). Ma voglio dire, la t-shirt con il giusto non-messaggio può farti apparire una persona profonda e non allineata. Il capo di tutte le t-shirt non-allineate è Threadless, la madre di tutte le “diobò è figa quella t-shirt” e più che altro di tutte le risposte annoiate alla “sì, dai, c’era gli sconti su Threadless”. Vaffanculo, come si fa a vendere la mancanza d’interesse a venticinque dollari al pezzo, chi è che l’ha reso legale o non illegale o eticamente possibile, chi ha eletto Musil esperto di marketing, qualcuno alzi la mano che vengo lì e lo prendo a bastonate e non nel senso che lo assumo come redattore.

10 I GENERICI

Pantera, Slayer, Pearl Jam, Guns’n’Roses, Slipknot, Metallica, Skid Row, Fear Factory e qualsiasi altro gruppo musicale abbia fatto la fortuna di Negative Mailorder negli anni novanta. Voglio dire, sono tutti gruppi grandiosi e con una fulgida carriera, ma anche se fosse, cosa c’entrano la carriera ed il valore artistico di un gruppo con quegli affari stampati col vinavil che l’unico posto in cui le indossi e passi inosservato è quando vai a sentire la cover band del Liga al pub irlandese il venerdì sera? Ma in fin dei conti, a che pro mostrare agli estranei il tuo apprezzamento per un gruppo qualsiasi? Perchè non metti una t-shirt con scritto sopra chi hai votato alle ultime politche, così magari troviamo da dire per questioni di peso culturale?

(per la prossima settimana non abbiamo ancora scelto il listone. mandateci idee)

Ciao, Nevermind. Hai vent’anni. Non li dimostri.

In occasione del ventennale di Nevermind (che cade il 24 settembre) è uscito uno specialone di Spin che fa più o meno il punto della situazione. Non l’ho letto ma ho ascoltato –disgraziatamente- la compilation in download gratuito con cui la rivista ha accompagnato il numero in uscita: si tratta probabilmente del disco più sbagliato dell’anno in corso, il quale già di suo potrebbe passare alla storia come l’anno dei dischi sbagliati.
La cosa, con Nevermind, è che è davvero un disco di cui la gente parla avendolo ascoltato. Di solito la gente parla a vanvera, mentre in questo caso ci sono persone che senza sforzo l’hanno comprato un paio di mesi dopo l’uscita e continuano a sentirselo settimanalmente da allora. Non fa proprio parte delle verità assolute della nostra generazione, ma quasi. Se hai davanti una persona che ha comprato dischi in vita sua E ha più o meno trent’anni, non può dire sinceramente una cosa tipo “non ho mai ascoltato Nevermind da cima a fondo”, il che per qualsiasi altro disco probabilmente non vale –anche per i Beatles. Che so, io posso tranquillamente dire di non avere MAI ascoltato Revolver dalla prima all’ultima canzone, e anzi ringrazio il pubblico di avermi fornito la sponda per poterlo dire ora: non ho mai ascoltato Revolver dalla prima all’ultima canzone. Invece, non so bene quale sia il motivo (o forse sì), NON puoi fare a gara a chi si è sentito più volte Nevermind, perché a volte ti trovi contro dei pazzi furiosi che hanno in carnet sedici milioni di ascolti e ancora stanno lì a periziare i singoli passaggi come se fosse l’unica cosa che abbia senso risentire. Quello che abbiamo fatto (un po’ per celebrazione e un po’ per scrivere “Nirvana” sul nostro blog e un po’ per ricordarvi che c’è un disco-compilation messo in download gratuito da Spin che si chiama Newermind e come si può desumere dal titolo È IL FIGLIO DELLA MERDA) è stato raccogliere pezzi dagli amici nostri e metterli qui sotto. Ad ognuno è stato chiesto “scrivimi tre righe in cui mi dici la prima e l’ultima volta che hai ascoltato Nevermind”. Il concetto di “prima volta”, di “ultima volta”, di “ascoltare un disco” e soprattutto di “tre righe” variano a seconda della sensibilità dei singoli. È venuta fuori una cosa molto lunga, per la quale i prossimi giorni ci prenderemo due minuti e raccoglieremo in una sorta di ebook collettivo. Nel ringraziare chi ha partecipato, Qualora vogliate partecipare all’ebook, mandateci un contributo all’usuale disappunto(at)gmail.com.
Non credo di essere il più adatto a tirare le somme, ma credo che alla fine di tutto ci sia una morale. Un grazie speciale a tutti quelli che stanno qui sotto.  Continue reading Ciao, Nevermind. Hai vent’anni. Non li dimostri.