La rubrica pop di Bastonate che a questo giro la chiamiamo MORTI DI FAMA: Rihanna – Unapologetic (Def Jam)

Unapologetic è il settimo album di Rihanna ed il primo ad uscire postumo, ossia dopo la sua morte per overdose in uno squallido appartamento a Camden qualche mese fa. Se vogliamo dirla tutta, Rihanna non è morta ma praticamente è come se lo fosse: sta alzando talmente tanto l’asticella (è partita da popstar più o meno casta ed è arrivata dove è arrivata, arriverà dove arriverà) che per chiudere il cerchio manca solo la morte per droga, oppure un sex-tape, oppure un cambio di sesso, oppure un disco prodotto da Sandro Codazzi (dai Rihanna, fallo! – sia nel senso di voce del verbo fare che di organo riproduttivo maschile).

Comunque, ogni anno a metà novembre esce un disco nuovo di Rihanna ed a questo punto mi chiedo dove troverà il tempo per lavorare a brani nuovi essendo vita natural durante in tour e/o sulle pagine dei siti di gossip et similia. Francamente non lo so (sì che lo so: non scrive lei i brani, assolda produttori affermati e ghost-writer affamati, ha dietro di lei un team che pianifica qualsiasi sua mossa – anche eventuali morti per droga, sex-tape, cambi di sesso, dischi prodotti da Sandro Codazzi) eppure a cadenza annuale il disco esce sul mercato ed è un grande successo nonostante il download selvaggio o forse proprio grazie al download selvaggio. Comunque, questo Unapologetic suona tutto fuorché eccessivamente mainstream (sempre che il concetto di mainstream sia rimasto lo stesso dopo che nell’ultima puntata di X-Factor Simona Ace Ventura ha citato con cognizione di causa i termini “electro-house” e “dubstep”) e per la prima volta pare concepito più per essere un vero e proprio album da ascoltare per intero che una collezione-di-singoli-con-svariati-riempitivi-da-skippare-senza-pietà come erano i precedenti sei dischi (che non ho mai ascoltato in vita mia ma che fingo di aver ascoltato a fondo perché su Ondarock ho letto che i sei precedenti dischi erano così dunque è vero). Dentro Unapologetic c’è tutto: la tipa che a quella festa di Capodanno finì all’ospedale dopo aver spompinato decine di ragazzi ingerendo l’equivalente di una lattina da 33cl di sperma (storia inventata), la stessa tipa che andava in giro in sella ad un Booster pitturato con colori parecchio fluo (storia vera) eche nel ’96 ci vendette la ganja albanese allucinogena all’ammoniaca (storia verissima), due mie amiche che agli autoscontri fanno a botte per futili motivi e noi le incitiamo a darci dentro invece di sedare la zuffa (storia verissima²), il dramma di Eminem ridotto a fare i featuring nei dischi di Rihanna dopo aver avuto il mondo in mano per un paio di anni (segue classica risata di scherno di Nelson dei Simpson), Jump che forse campiona gli House Of Pain o forse no (francamente non riesco a capirlo, magari campiona pure i Van Halen ed io non ci arrivo perché non sono un tipo sveglio – per la cronaca: campiona Pony, l’ho letto su Ondarock dunque è vero) ma pare un pezzo scritto da Skrillex in botta da ammorbidente Vernel, Loveeeeeee Song che pare un pezzo scritto da James Blake in botta da ammorbidente Vernel, Chris Brown con indosso il suo chiodo crust che in Nobody’s Business duetta con la sua ex Rihanna (Chris Brown ultimamente si fa davvero fotografare con un chiodo simil-crust, ma almeno oltre al nero c’é anche il giallo fluo dunque Chris Brown pare un idiota totale che prova a fare il crust), Gabriele Cirilli che imita Nikka Costa a Tale e Quale Show un venerdì sera su Raiuno (momento televisivo definitivo: Cirilli quando lo ha fatto era truccato che pareva Ozzy Osbourne negli anni ottanta ed la sua voce era all’elio grazie ad un autotune che pareva uscito da questo disco di Rihanna), un David Guetta più marchettaro che mai nell’insignificante Right Now, l’apice drammatico del disco costituito da Love Without Tragedy/Mother Mary (questa gliel’avrà scritta Billy Corgan, talmente alla frutta che tempo qualche mese e verrà fuori che fa davvero il ghost-writer per popstar di successo), il beat estremo che ti taglia le vene del singolo Diamonds che non è poi che sia così radiofonico nel senso più commerciale del termine eppure le radio lo passano a manetta ed allora forse qualcosa negli ultimi anni deve essere per forza cambiato – grazie al download selvaggio che ha aperto la mente della gente allargandone i gusti ed il tasso di sopportazione di cose kitsch e/o musicalmente poco digeribili o ben più probabilmente perché la gente non ascolta più la musica davvero ma ascolta solo il nome, il personaggio, la moda, il mito, l’abbigliamento, l’atteggiamento, la posa (ed a questo punto ha davvero senso Simona Ace Ventura giurata in un programma musicale che cita con cognizione di causa i termini “electro-house” e “dubstep”, anzi la figura di Simona Ace Ventura andrebbe elevata al rango di Lester Bangs italiana per un sacco di buoni motivi che non sto qui ad elencare – fondamentalmente uno: la sua amicizia con Flavio Briatore e Daniela Santanché).

Vento d’estate, io vado al mare voi che fate? Non mi aspettate, mi sono perso. Non ci capisco più nulla e chiudo qui l’alato ragionamento su Unapologetic, non prima di aver detto che a Rihanna piace sperimentare, cambiare pelle ed evolversi (Wikipedia scrive così mentre Ondarock no, ma la prendo per buona lo stesso) e che Unapologetic è davvero un buon disco. Pop di qualità, di quel pop che lo ascolti volentieri come ideale pausa di riflessione tra un ascolto impegnato e l’altro (scrivendo “ascolto impegnato” paio Assante e Castaldo, ma frega un cazzo) e che nel contempo interroghi il tuo ed arrivi ad una drammatica quanto spiazzante conclusione: roba del genere cinque anni fa non se la sarebbe cagata nessuno al di fuori di Christian Zingales mentre ora pare addirittura avanguardia durissima & purissima che per un qualche miracolo gira nelle televisioni e nelle radio di regime. Quando esce una versione solamente strumentale di questo Unapologetic? La voce di Rihanna spesso e volentieri è molto fastidiosa, basterebbe anche solo un bootleg strumentale per migliorare lo stato delle cose e permettere anche ai più snob di giudicare senza preconcetti il reale valore artistico di un’opera del genere nel 2012.

“Che cazzo c’hai da guardare, eh??? Ti spacco il culo!”

Pagare la musica #3

“Vicentini magnagatti, veronesi tutti matti”

Vale ancora la pena di spendere soldi per acquistare musica nel 2012? Ci ho pensato qualche sera fa, quando su Deejay Tv ho sentito Rudy Zerbi (Rudy Zerbi chi? Il discografico, deejay nonché figlio di Davide Mengacci? Sì, proprio lui) dire la sua riguardo ad argomenti scottanti come come file sharing et similia.

E che ha detto di tanto interessante Rudy Zerbi? Poco e nulla, se non che – rispondendo alla domanda di uno dei presentatori del programma, un tizio milanese che manco conosco ma che ha giustamente detto che non comprerebbe mai un disco di Giusy Ferreri, al limite lo scaricherebbe per curiosità perché ci son dischi che vale la pena solo scaricare ma non acquistare (io non lo scaricherei manco per curiosità perché di Amy Winehouse ce n’è una sola, è inglese, non faceva la commessa all’Esselunga ed è pure morta) – ha affermato più o meno che scaricare equivale a rubare e che pure tu ti incazzeresti se uno sconosciuto entrasse in casa tua e prendesse un bicchiere senza chiederti il permesso. Eccezionale veramente.

Stendendo un velo pietoso sul fatto che che ho già perso il filo del discorso, e stendendo un altro velo pietoso sul fatto che non capisco il nesso tra un disco di Giusy Ferreri, la musica ed un bicchiere (forse il nuovo look proto-punk della Ferreri, dove proto sta per prot! rumore onomatopeico di un peto), a me ciò che ha detto Rudy Zerbi me pare una strùnzaaata (per dirla come la dicevano i Trettré, ossia gente che ne sapeva parecchio di come gira la vita). Io mica entro in casa da Giusy Ferreri quando scarico un disco, io mica condivido in rete i bicchieri sporchi quando finisco di bere qualcosa (e nemmeno sono il figlio di Mengacci – ho la lavastoviglie, io). La musica mi piace ancora comprarla, ma solo quando ne vale la pena – cioè al giorno d’oggi sempre meno, perché gran parte di ciò che esce attualmente è una riproposizione di cose fatte meglio almeno 5 – 10 – 15 – 20 – 25 – 30 anni fa e non ha senso ripetersi ad libitum (non so con certezza cosa voglia dire ad libitum ma lo scrivo perché mi va di sembrare uno appena uscito dal liceo classico, brufoli compresi). La provo e poi eventualmente acquisto (a volte acquisto pure a scatola chiusa, ma questo è un particolare che non è necessario menzionare apertamente in quanto non funzionale alla finzione narrativa). Mica sono ricco come Mengacci e suo figlio (anche se da piccolo ho fatto la comparsa a Scene da un matrimonio, ma solo per pagarmi il Ritalin), mica posso permettermi di buttare così i soldi, io ho bollette da pagare e conti da saldare. Se avessi pagato proprio tutta la musica che ho ascoltato in vita mia e che ha contribuito ad ampliare il mio bagaglio socio-culturale (nonché a rendermi una persona migliore, ma se scrivessi una cosa del genere potrei sembrare un presuntuoso ed arrogante dunque non lo scrivo) ora sarei sul lastrico, homeless che chiede l’elemosina dei pressi del Dams a Bologna e a fine giornata si spende tutto il ricavato al videopoker. Nulla è come la copia fisica di un disco nuovo che desideri da tempo, ma i soldi in tasca fanno sempre comodo – soprattutto oggi che siamo nel 2012 ed in tasca manca money come cantava Neffa già nel 1996 (Giuliano Palma al ritornello era ancora umano, mica come adesso che canta il ritornello di P.E.S. dei Club Dogo ed il ciccione dei Club Dogo è figlio di padre famoso come Rudy Zerbi – il cerchio si chiude, il pezzo quasi).

Tra l’altro mi sono imbattuto per caso nel programma in cui intervistavano Rudy Zerbi su Deejay Tv (il nome esatto del capolavoro è Late Night With The Pills) mentre vagavo tra un canale del digitale terrestre e l’altro cercando le televendite delle padelle Stonewell e le ennesime repliche di Cantando Ballando, ossia l’unico modo sensato di buttare il proprio denaro e l’unico programma musicale che al giorno d’oggi valga la pena di seguire in tv. La vita a volte è bizzarra e riserva strane quanto illuminanti sorprese.

Felicità a costo zero / Felicità al costo dell’ero

Il Direttore era stato chiaro e più che convincente. “È troppo tempo che non scrivi nulla su Bastonate, scrivi qualcosa al più presto e vedi di farlo bene! Altrimenti te ne puoi anche andare, ‘ché di gente come te ne troviamo finché vogliamo. Anzi, ne troviamo anche di migliore! Perciò regolàti…”. Ed allora io, intimorito da tanta veemenza verbale, ho preso le mie poche cose e mi sono recato nel mio locale di fiducia per aperitivi – rigorosamente analcolici (Tassoni + Aperol è analcolico oppure no?). Meglio berci qualcosa su, meglio mangiare per riflettere, capire, capirsi ma soprattutto farsi venire qualche idea mediamente brillante da proporre al Direttore.

Quella sera (era una domenica, ma poteva essere anche un lunedì o un martedì) suonava un gruppo denominato The Red Wire Corporation, un progetto musicale piuttosto inusuale per terre assolutamente usuali come quelle ferraresi. Del tipo, musiche per film immaginari, proiezioni di spezzoni di film reali, synth liquidissimi, loop ed effetti vari, lingue felpate (per gli ascoltatori che hanno esagerato con gli aperitivi durante l’esibizione), miraggi, miraggi, miraggi, miraggi (l’ho scritto quattro volte perché a Bastonate mi pagano a cottimo. Un tot a battuta, ed allora tanto vale barare. Wale Tanto Wale Barale, Paola Barale quando viene arrestata per droga assieme a Raz Degan. Caz Decàn – e non ho nemmeno esagerato con gli aperitivi). Tipo i Cluster, i Tangerine Dream, Philip Glass, certa elettronica d’avanguardia (elettronica d’avanguardia, termine molto scaruffiano) che usciva per la Mille Plateaux quindici anni fa, i preti che mettono incinte le donne rom, i Radiohead sotto metadone. Una bella storia, insomma. I Red Wire Corporation presentavano il disco nuovo, ed io mi sono gustato la loro esibizione comodamente seduto in poltrona, sfogliando riviste musicali ma soprattutto guardando la gente che mangiava a più non posso, incurante del prodigio musical-cinematografico che stava per avvenire. Cos’è successo? Ad un certo punto – punto certo (cit.) i Red Wire Corporation hanno raggiunto picchi artistico talmente alti che improvvisamente (ed inaspettatamente) si è materializzata la salma di Enrico Ghezzi. Un miracolo degno della liquefazione del sangue di San Gennaro: Ghezzi ha iniziato a parlare fuori sincrono, si è avvicinato a me, ha iniziato a parlarmi e mi ha spiegato che il cinema è morto e l’unica esperienza che vale la pena di vivere è la visione del capolavoro I Mercenari, film che vede come protagonista la salma di Sylvester Stallone accompagnata da altri eroi del cinema d’azione proto-repubblicano ottanta/novanta, cinema che ha spianato la strada ad otto anni di presidenza George W. Bush ma che è roba altissima nella sua bassezza. Il concerto è terminato ed io me ne sono andato a casa, consapevole che Enrico Ghezzi ha sempre ragione anche quando dice cazzate a caso ma soprattutto che certa musica così diversa da quella che si ascolta di solito è in grado di aprire la mente e di far capire tante cose. E mentre guidavo per tornare ho ascoltato il cd dei Red Wire Corporation acquistato al concerto e la mia macchina ha iniziato ad impennare facendomi un po’ sentire come Adriano Celentano in Segni particolari… bellissimo. Qualcosa vorrà pur dire no?

la gigantesca scritta LOAL: Korn III Remember Who You Are (pre-giudizio)

I Korn hanno iniziato a fare schifo al cazzo ai tempi di Issues. Curiosamente, Issues è il primo disco in cui Ross Robinson non aveva nessun ruolo all’interno delle registrazioni (per il precedente Follow The Leader non era produttore, ma fu accreditato come consulente per la registrazione delle parti vocali). Issues fu proprio una doccia fredda. Ero un fan dei Korn, uno di quelli duri e puri -quelli proprio NOIOSI, per capirci. Magliette col logo, pontificazioni, articoloni a tema sulle fanzine, pantaloni larghi -beh forse i pantaloni vennero prima. Scrivevo il nome sui banchetti dell’università e cose simili. Follow The Leader era un disco meno complesso dei due precedenti ma funzionava ancora molto -aveva i pezzi, quantomeno, e riusciva a non farsi rovinare dalla patina rappusa d’accatto dei guest-starring di Ice Cube o Pharcyde. Al cambio di millennio si rompe qualcosa dentro la band; a far viaggiare i ricordi sembrano anche più dei dieci anni che sono passati. Issues, uscito un paio d’anni dopo e prodotto dal temibilissimo Brendan O’Brien, era il primo disco “alla Korn” dei Korn, una raccolta di una dozzina di standard tra Alice In Chains e Depeche Mode con le chitarre ribassate ed un briciolo di teatro in più. Jonathan Davis smise le tute griffate e iniziò a farsi vedere in giro con certe palandrane che gridavano all’omicidio (poi arrivarono il kilt e l’asta del microfono disegnata da Giger -mamma mia). Il disco andò benissimo, naturalmente: erano i tempi della canonizzazione di massa di quei suoni e, uhm, sarebbe stato paradossale lasciar fuori dalla spartizione del bottino quelli che avevano inventato il genere. Paradossalmente fu la band stessa a rivoltarsi alla situazione, chiudendosi a riccio per registrare il quinto disco alle proprie condizioni e facendo levitare il conto dello studio ad un’irragionevole cifra che oscillava intorno ai quattro milioni di dollari. Untouchables non era un brutto disco, tra le altre cose: gothic metal in versione crossover che cercava di sperimentare un po’ sul formato (confronto a Life Is Peachy parliamo comunque di cagatine di mosca) inserendo formati estranei e quasi insidiosi, tipo pezzi di new wave pura e chitarre non-distorte che rimarranno la cosa più sinistra e malata prodotta dai Korn dopo gli anni novanta. Rispetto al precedente, Untouchables vende pochissimo nonostante il Grammy a Here to Stay. In parte è colpa di un leak messo in giro mesi prima del disco ufficiale, in parte -suppongo- colpa della musica. Il disco successivo si chiama Datti una guardata allo specchio ed è ironicamente realizzato in gran fretta/ segreto per non ripetere l’insuccesso del disco precedente. Consta di standard nu-metal che potrebbero essere scritti da un gruppo qualsiasi, suonati con perizia sgrattona alla Korn e tanti saluti. Il titolo probabilmente ironizza sul fatto che il gruppo sia artisticamente al capolinea e pronto a tutto per rimanere sulla cresta dell’onda. Poco dopo Take a Look in the Mirror arriverà il primo Greatest Hits della loro carriera (a questo punto il gruppo ha compiuto discograficamente dieci anni), contenente perlopiù canzoni del periodo brutto -persino una inqualificabile cover di Another Brick in the Wall. Sul resto della carriera dei Korn, semplicemente, è doveroso mettere una pietra sopra. Head, uno dei due chitarristi, esce dal gruppo per dedicare il resto della sua vita a Gesù mentre il gruppo passa a Virgin firmando un contrattone da venti e passa milioni di dollari per due dischi. Il primo è l’ignobile Ci vediamo dall’altra parte, rispetto al quale il disco precedente sembra quasi l’omonimo del ‘94. Il secondo è un disco del 2007 lasciato senza titolo “per permettere ai fans di inventare il nome” (o per cancellare il ricordo di quell’altro disco senza nome, quando i Korn avevano una dignità e spaccavano il culo). È il primo disco dei Korn che mi sono rifiutato di ascoltare. Nel frattempo c’è stato spazio per la tragicomica parentesi unplugged, con tanto di ospitata di Amy Lee (su Freak on a Leash) e due cover-massacro di Creep e InBetweenDays (con i Cure presenti sul palco). Un altro Best of, un altro DVD.

Guardando la cosa a posteriori è difficilissimo ammettere di aver amato i Korn in tempi non sospetti. I Deftones, eterni amici/rivali con una carriera altrettanto lunga (ma molto più ponderosa), arrivano all’ultimo disco di studio con una crediblità che molto probabilmente travalica di gran lunga il valore assoluto delle canzoni. I Korn sono passati in cinque anni dall’essere una congrega di alcolizzati con un cantante tossico che non sapeva nulla di metal a una specie di SpA del gotico americano 2.0, con relativo cambio di fanbase dal primo al secondo stadio; noialtri quei cinque anni ce li siamo vissuti in diretta, e non è stato per niente piacevole -figurarsi per Munky Shaffer. A un certo punto ti guardi indietro e pensi di aver buttato via dieci anni di vita dietro a mignotte e dischi di merda, e ormai la frittata è fatta. Il logorio esistenziale prevederebbe una bella litigata e l’inizio di qualche carriera solista, o la reunion in formazione originale. Poichè tuttavia i Korn in formazione originale ci hanno passato la maggior parte della loro carriera, ivi compresa una bella sfilza di dischi di merda, forse i tempi non sono maturi. In mancanza di ragionevoli alternative, i Korn si riuniscono con il produttore dei primi due dischi e/o il guru del crossover di metà anni novanta, cioè Ross Robinson. Oggi stesso è annunciata l’uscita dell’ultimo disco, che (in onore alla solita maestria dei Korn nel volare basso a mettere un titolo agli album) si chiamerà KORN III.

Insomma, diocristo. KORN III. Sottotitolo ricorda chi sei, dimenticando i sei dischi che hai cagato fuori dal ’98 in poi. Per quanto mi riguarda i Korn continuano ad essere i cinque sopra, non ancora ingrassati nè troppo consci di ciò che stanno facendo. Peccato volermi rovinare quel momento.

Nondimeno, appena mi capita sotto il coltello scrivo la recensione. Per ora mi limito a pensar male, aiutato da un post di GiorgioP che mi fa pensare ancor peggio.. Trivia: il prossimo disco in uscita prodotto da Ross Robinson sarà di quegli art-buzzurri dei Klaxons.

(naturalmente il concetto di pre-giudizio applicato a un blog è una citazione di Kekkoz. Che non sono io, se ve lo state chiedendo.)

What’s The Frequency, Brancher?

La solita sinistra che se non la smette di affidarsi a personaggi che non sono mai stati giovani – come ad esempio Enrico Letta o Andrea Orlando – non vincerà mai più le elezioni è in fibrillazione. Succede infatti che qualche giorno fa è stato nominato ministro tale Aldo Brancher e gli è stato confezionato un ministero ad hoc solo per salvarlo da un processo mediante l’arguto espediente tecnico-tattico del legittimo impedimento (Fernet Brancher ha affermato che non può partecipare all’udienza perché deve organizzare il ministero che ha appena iniziato a presiedere, ed è pure riuscito a restare serio mentre lo diceva). Nulla di radicalmente diverso da ciò a cui ci ha in questi anni abituato Silvan Berlusconi, però questa volta nessuno se ne è accorto perché c’era l’Italia che giocava ai mondiali. Tutto sotto controllo dunque, ma non appena la nostra gloriosa nazionale è stata eliminata dalla competizione è successo un disastro, e nulla è stato più come prima: il Partito Democratico, quel fascista di Di Pietro e quel democristiano fallito di Casini sono arrivati a chiedere le dimissioni del povero Brancher, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è addirittura arrivato a dire che non può esistere legittimo impedimento perché non si sa quale dicastero presieda Brancher ma soprattutto il suo è un ministero senza portafoglio e dunque non c’è un bel cazzo da organizzare. Brancher deve andare a processo e non si sa come andrà a finire. Una vicenda parecchio triste.

Quello che i giornali non dicono è che Brancher si è sacrificato per me. Ha opposto il legittimo impedimento non perché doveva organizzare il ministero come ha dichiarato, ma perché doveva rimanere in ufficio a scaricarmi alcuni dischi nuovi e non aveva tempo di andare in tribunale. Me li ha scaricati, me li ha fatti avere, si è preso gli insulti dei militanti leghisti, medita di dimettersi ed alla fine lo farà: cazzi suoi, io intanto ho quattro fichissimi dischi nuovi da ascoltare, alla faccia dei militanti leghisti che ascoltano solo musica celtica ingozzandosi di polenta e uccelli (non nel senso di peni maschili, ma nel senso di osei, ossia piccoli volatili cacciati di frodo e cucinati secondo l’antica tradizione veneta). Lo ringrazio, però è grande ed ora deve imparare a cavarsela da solo.

Konono N.1 – Assume Crash Positions: prendi una vuvuzela, sfasciala perché ha un suono troppo fastidioso. prendi un gruppo di musicisti del Congo, falli suonare musica a caso con strumenti tipici della loro terra natia ed otterrai un disco come questo, una roba psichedelicissima che dopo due minuti ti manda in trance e a volte riesce perfino a suonare come musica pop. Piacciono anche ai fricchettoni con pantaloni a righe, cane al guinzaglio, capelli a carciofo (o, peggio, a spinacio), zaino dell’Invicta e Birkenstock taroccati ai piedi, ma questo è un dettaglio che nulla toglie allo splendore dell’opera in questione.

Mahjongg – The Long Shadow Of The Paper Tiger: un disco della madonna. Hanno deciso di crescere e di far ballare la gente, hanno indovinato la droga giusta ma soprattutto han capito che coi synth ci puoi ricamare splendide melodie oltre che fare rumore associato a tamburi africani. Come se i !!! avessero come punto di riferimento l’Africa di Fela Kuti e Jay Jay Okocha in luogo degli esperimenti dance dei loro numi tutelari Arthur Russell e Russell Russell, più lo ascolti e più ci entri dentro per non uscirne mai più. Non piacerà ai fricchettoni di cui sopra, visto che a loro fanno schifo i sintetizzatori perché li considerano degli strumenti troppo poco altermondisti (praticamente lo stesso, assurdo preconcetto di Burzum che ad un certo punto ha smesso di usare la chitarra perché la considerava uno strumento da negro ed ha iniziato a fare musica medioevale, visto però con un’ottica leggermente più buonista e vendoliana). E non necessariamente deve essere visto come una cosa negativa.

M.I.A. – ///Y/: qui Aldo Brancher ha fatto un capolavoro. È riuscito a procurarmi un disco molto atteso che deve ancora uscire (ed uscirà tra un paio di mesi) e ci è riuscito accedendo clandestinamente al pc dell’artista anglo-cingalese. Si sente molto male in quanto i mezzi del suo ministero sono molto limitati (è pur sempre un ministro senza portafoglio) però intanto si può intuire che a questo giro M.I.A. farà il botto. Certe melodie ti si appiccicano in testa e non ne escono più, nemmeno se ad un certo punto devi smettere di ascoltare perché il fruscio di fondo dell’mp3 clandestino diventa insopportabile. Se Lady Gaga facesse un disco del genere il mondo sarebbe un posto migliore (con tutto il rispetto per Lady Gaga, s’intende).

Walter Gibbons – Jungle Music: questa raccolta è qualcosa che va oltre l’umana capacità di comprendere a fondo cosa si nasconde dietro il concetto mentale di capolavoro. C’è tutto per essere felici e piangere a dirotto, per ridere e per sognare, dire fare baciare lettera e testamento. Walter Gibbons è la disco music, Walter Gibbons è tra i più credibili progenitori della house music, Walter Gibbons è tra coloro che hanno definito il concetto di remix così come lo conosciamo adesso, Walter Gibbons è uno che si è fatto talmente tanto che ad un certo punto si è stancato di collassare in consolle ed si è trasformato in una specie di integralista cattolico che faceva ancora cose pazzesche con mixer ed effetti ma che bandiva dai suoi set la musica trattante tematiche da lui considerate impure. Io lo preferisco ai tempi in cui sveniva ed il disco che stava suonando continuava a suonare all’infinito, ma è un eroe e come tale va rispettato (anche perché attualmente è morto e i morti vanno rispettati a prescindere) e riverito.

Grazie Brancher, e ora vattene – che io pago le tasse e non voglio pagarti lo stipendio da ministro anche se mi hai scaricato i dischi che volevo.