Una cosa in comune i Mudhoney ce l’hanno coi gruppi garage rock alla Nuggets che da sempre hanno idolatrato: come loro, hanno scritto una sola canzone veramente memorabile. Perché è inutile menare il can per l’aia: a chiunque sia dotato di un paio di orecchie funzionanti Mudhoney ha smesso da almeno due decenni di riportare alla mente l’omonimo film di Russ Meyer. No: Mudhoney sono il riff di Touch me, I’m sick, al cospetto del quale tutto il resto – qualsiasi altra cosa abbiano mai composto – passa in secondo piano, per la semplice ragione che rispetto a Touch me, I’m sick in secondo piano passa tutto il resto della musica scritta nella storia dell’umanità, a parte i primi dieci secondi di Bastards of young, il giro di chitarra di Return of the rat, e pochissime altre cose. Solo che, a differenza dei gruppi garage rock da un singolo e via con cui condividono ben più che lo spirito e la strumentazione, dopo quel singolo i Mudhoney sono rimasti su piazza, pubblicando dischi anche ben più che dignitosi (i miei preferiti sono l’omonimo e Tomorrow Hit Today, ma come per ogni gruppo discograficamente attivo da più di una generazione ognuno ha i suoi), ma mai riuscendo a bissare l’assoluta perfezione di quei due minuti e trentacinque secondi che per sempre saranno il loro dono e la loro maledizione. A vederli di persona dimostrano almeno una decina di anni in meno, e nonostante siano passati attraverso tanta di quella droga da spedire al Creatore una mandria di bisonti sono ancora qui, e in una forma molto migliore di me che scrivo e voi che leggete messi assieme. Soprattutto the freewheelin’ Mark Arm, quarantasette anni di amplificatori disintegrati e non sentirli, un fisico da fotomodello frocio e una voce alla cartavetrata che è rimasta quella di un tempo, forse perfino migliore. Il che porta a due conclusioni: 1) L’eroina fa bene, e 2) Copiare gli Stooges allunga la vita. Probabilmente i Mudhoney sanno benissimo di incarnare oggi un’idea di musica che è quantomeno museale, unici depositari rimasti vivi e vegeti di un’epoca in cui le chitarre suonavano per davvero, la produzione di un disco poteva durare mesi, i CD costavano trentacinquemila lire e farsi in vena era considerato socialmente accettabile. Proprio loro che con l’ondata grunge avevano in comune solo due cose: la provenienza geografica e la chitarra al collo. Ma quella dei Mudhoney era anche un’epoca in cui i musicisti avevano rispetto per il proprio pubblico, per chi sborsava bei soldi per vederli all’opera dal vivo, ed è per questo che un concerto dei Mudhoney è un concerto: un’ora e quaranta tra set di base e (numerosi) bis, scaletta capillare che pesca un po’ dappertutto cercando di soddisfare tutte le aspettative, brani sparati a mitraglia uno dietro l’altro dritti senza pause, interazione col pubblico puntuale ma sobria e mai servile (Mark riesce chissà come a essere convincente anche quando ci assicura di essere stati absolutely a-ma-zing, unendo il pollice all’indice per creare una “O” con le dita). Ma non è abbastanza per chi cercava la scintilla, il fuoco sacro della passione totalizzante, il sudore vero, quello che va a pari passo con il sangue e le lacrime. Loro sono formalmente perfetti, giusto un pelo troppo statici ma l’esecuzione è chirurgica e i suoni incredibilmente nitidi nonostante il volume decisamente aggressivo e la distorsione perenne; a mancare è il combustibile, il crederci spinto alle estreme conseguenze, il parossismo, l’urgenza. Quel che mettono in scena somiglia piuttosto all’esibizione di una band da oratorio, precisa e impeccabile e tecnicamente ineccepibile ma appassionante quanto uno scaldabagno guasto. O, peggio ancora, a uno sterile karaoke accontenta-gonzi buono giusto a far esaltare i ragazzini scalmanati e qualche reduce con le ascelle sudate in mezzo al pogo. Perfino Touch me, I’m sick, piazzata lì a caso tra un brano e l’altro, sembra una canzone come tante. Soltanto verso la fine, con una When tomorrow hits di quasi dieci minuti, sembrano rianimarsi, scuotersi un minimo dal piattume normativo che li avvolge forse inconsapevolmente (mi è stato raccontato di un’esibizione dirompente a Roma la sera prima a cui a questo punto non so più se credere); ma è poco, troppo poco per smarcarsi da una performance di strettissima sufficienza, pura routine da prepensionamento al termine della quale s’insinua prepotentemente il sospetto che, a mettere su i loro dischi a casa pogando contro il muro mi sarei, probabilmente, divertito di più. Here comes boredom.