
Lo capivi dalla faccia che Harvey Williams non sarebbe mai diventato non dico una rock star, ma nemmeno una figura di riferimento cosiddetta “di culto” nella mappa del genere da cui proviene: occhiali all’ultima moda tra i secchioni pestati a sangue dai bulletti, taglio di capelli da geometra sensibile (ma anche nostalgico del Terzo Reich) e colorito ceruleo da programmatore che ha appena finito due turni di straordinari non pagati, Williams era uno che nel giro Sarah Records ci sguazzava (collaboratore per The Hit Parade e Blueboy nonché amico di Bob Wratten dei Field Mice, andrà poi a finire nell’organico di una delle successive incarnazioni, i Trembling Blue Stars), ma era troppo timido e schivo e sfigato per emergere, perfino se paragonato all’intera accolita di dissociati semi-autistici che componevano il roster dell’etichetta. Tra il 1988 e il 1992 con la ragione sociale Another Sunny Day rilascia una manciata di 7 pollici stampati in tirature risibili, con artwork criptici e anonimizzanti ai limiti del puro fastidio visivo (colori orrendi, contrasti accecanti, foto sfocate, caratteri minuscoli e praticamente illeggibili); quattordici canzoni in tutto, questo è quanto costituisce l’opera omnia della band su Sarah Records (restano fuori la partecipazione alla compilation Something’s Burning in Paradise per Subtle e il singolo Genetic Engineering/Kilburn Towers del 1990, unica uscita su Caff Corporation), poi facilmente racchiusa in un cd, London Weekend, pubblicato in contemporanea con l’ultimo singolo New year’s honors. Quel che rende straordinario l’esiguo ma micidiale canzoniere dell’uomo è l’estrema visceralità dell’intero repertorio. Oltre a una particolarità: Harvey Williams è stato l’unico essere umano al mondo a riuscire a copiare gli Smiths meglio degli Smiths stessi. Anche se si tratta di brani scritti, pensati ed emessi nell’arco di quattro anni, il senso di “unitarietà” di London Weekend è impressionante, ogni canzone è legata in qualche modo alla precedente, di cui diventa una sorta di upgrade della storia personale e dei pensieri del protagonista (ovviamente Williams stesso). Come nella maggioranza dei dischi che in qualche modo hanno segnato la nostra esistenza, anche qui si parla di amori: amori immaginati, amori totali, amori vanamente desiderati e brutalmente disattesi, amori straziati e strazianti, ma anche del passare del tempo e del disgregarsi di antiche amicizie (What’s happened to you, my dearest friend?), di quegli attimi di furia nichilista cieca, totale (l’insuperata invettiva You should all be murdered, vetta assoluta del percorso musicale di Williams, con un testo che avrebbe potuto scrivere Charles Whitman poco prima di iniziare a fare fuoco), di disperazione senza riscatto (Rio, quanto di più distante dai Duran Duran sia umanamente immaginabile) e di cieca gioia immotivata, di ricordi e rimpianti e di speranza, e in generale di tutte quelle cose che rendono la nostra vita diversa da quella di un paramecio. Another Sunny Day parte come robetta indie-pop da clone periferico dei Jesus & Mary Chain ma senza le giacchette stilose nel flexi inciso su un solo lato Anorak city, per poi entrare in orbita già dal singolo successivo, praticamente una dichiarazione di intenti: I’m in love with a girl who doesn’t know I exist, una perla di introspezione pop di nemmeno due minuti che si mangia a colazione Belle & Sebastian e compagnia inerte, e anticipa di qualche anno i numeri dei Magnetic Fields del monumentale 69 Love Songs. E tutto quanto London Weekend è così: perfino un sordo si accorgerebbe della verità che esce da quei solchi, di quanto Williams abbia vissuto sulla sua pellaccia di nerd dal cuore massacrato ogni singola parola, fino all’ultima delle situazioni di cui canta. Per chiunque sia vivo si tratta di un ascolto indispensabile.
Dopo due dischi “solisti” (l’EP Rebellion del 1994 e California del 1998, entrambi gradevolissimi ma, come dire, lontani migliaia di miglia dalla radicalità di Another Sunny Day) e altrettanti lustri di silenzio totale e anonimato ferreo (da nerd quale è, trova lavoro alla BBC come archivista), nel 2008 rispolvera il marchio Another Sunny Day per incidere i contributi a un paio di compilation (tra cui un tributo a Bruce Springsteen per il quale rischiava di rubare il pezzo ad Alan Vega); ricomincia pure a esibirsi live, seppur con estrema parsimonia. Il 17 agosto scorso la benemerita Cherry Red ristampa London Weekend, a lungo introvabile (a meno di non affidarsi al downloading illegale, s’intende), con l’aggiunta di sei bonus tracks.
Another Sunny Day – You should all be murdered
One day, when the world is set to rights
I’m going to murder all the people I don’t like
The people who have left me down without reserve
The people who are cruel to those that don’t deserve
The people who talk too much
The people who don’t care
The people whose lives are going nowhere
The people who just give in
The people who don’t fight
The people I don’t like.
The people who broke my heart so bad it never mends
The people who wrecked my life and all my so-called friends
The people who don’t know when to forget and forgive.
These are the people who do not deserve to live.
The people who talk too much, The people who don’t care
The people whose lives just leave me crying in despair
The people who told me I was wrong and they were right
The people I don’t like.