…e allora canta!

 

Essere pieni di sé – non nel senso dell’orgoglio, ma della ricchezza –, essere travagliati da un’infinità interiore e da una estrema tensione significa vivere con una tale intensità da sentirsi morire di vita.
(Emil Cioran, Al culmine della disperazione)

 

Grandi cuori prossimi al collasso. È una vertigine E allora canta!, il brano che apre Unica, l’ultimo album di Antonello Venditti, ufficialmente nato sull’onda delle proteste di ricercatori e precari sui tetti della facoltà di Architettura a Roma, in realtà parte di un totale ben più ampio: è l’attimo cristallizzato ed espanso per cinque minuti e rotti in cui il groppo in gola si spezza, la faccia si disfa e ogni possibile argine di autocontrollo viene spazzato via per lasciare il campo al pianto incontrollato. È l’esatto istante in cui l’emotività nella sua dimensione più pura prende il sopravvento su tutto e reprimerla diventa uno sforzo insostenibile, ultraterreno, e grosse e rotonde lacrime sgorgano finalmente libere a bruciare le guance. Un attentato al sistema nervoso, il più grande monumento all’immenso potere lenitivo del pianto che l’Orso Bruno sia riuscito a edificare dai tempi di Che fantastica storia è la vita (il pezzo, era il 2003), e prima ancora da chissà quanto, bisogna tornare agli anni ottanta probabilmente. Un totem. Ogni parola al posto giusto, ogni nota a colpire lì dove fa più male, a scavare nell’anima con la stessa facilità con cui una trivella perforerebbe un panetto di burro, con la precisione del più spietato dei cecchini e una maestria nell’individuare le leve giuste per scardinare un cuore che non ha eguali in Italia e pochissimi al mondo; nessuna affettazione, nessuna mediazione, nessuna posa, Antonello è a tutti gli effetti uno di noi, è per questo che E allora canta! fa così male, perché le stesse parole in bocca a chiunque altro suonerebbero fasulle, derisorie, insopportabilmente retoriche, e invece qui è come offrire un bicchiere d’acqua a un annegato. La dimostrazione intercettata per puro caso una domenica sera, Antonello ospite a Che tempo che fa, completamente a tradimento, il groppo in gola che sale inesorabile, la certezza che sarà così per tante altre volte ancora, tant’è che anche oggi dall’uno-due iniziale di Unica non si riesce a uscire indenni.

 


QUATTRO MINUTI: Arabrot – The Brother Seed

VIA
PRODUCED BY BILLY ANDERSON
, e per i restanti tre minuti e cinquanta secondi suppongo che potrei non scrivere un cazzo senza che a un suddito devoto della Musica che Illumina (op.cit.) scenda la fotta di andarsi a comprare il disco. Comunque gli Arabrot, che se non sbaglio son norvegesi, sono davvero piuttosto avanti coi lavori. Personalmente li avevo lasciati a questa sorta di postcore compressissimo da incubo, una delle tante declinazioni esistenzialiste alla (ultimi) Bloodlet e me li ritrovo addosso come una specie di bignami del noise-rock’n’roll marcio di certi Melvins con parti vocali tipo Brian Johnson passato dentro un compressore d’aria. A guardare la cover
STOP

Graveyard – One with the Dead

 

Soltanto a dare uno sguardo alla copertina, ruspante come l’immaginazione di un bimbo cresciuto a film horror di serie Y e trasudante grezzume e fetore di ascella sudata come i dischi di quart’ordine nel bel mezzo dei nineties più ingenui, ho provato una stretta al cuore; quando poi ho letto “mastered by Dan Swanö at Unisound Studios” sono arrivate inevitabili le lacrime. È ufficiale: con l’esordio a lunga durata dei Graveyard siamo tornati nel 1991. Loro sono spagnoli, ma la provenienza geografica conta meno di zero in questo caso, dal momento che il loro cuore pulsante batte all’unisono con la più indomita e orgogliosa scena death metal svedese dell’ultima decade del secolo scorso. Quella scena fieramente guidata dai Grave, dai primi Entombed, dagli Edge Of Sanity, dai Dismember prima che si rimbecillissero irreversibilmente e diventassero la patetica parodia di sé stessi rilasciando dischetti per bambocci in età prepuberale. Tempi irripetibili, da troppi anni, troppa feccia e troppi dischi di merda obliati. One with the Dead è il debutto su CD dopo un paio di split e il demotape (tanto per tornare a quando i demo giravano su cassetta, con tanto di copertina putrida fotocopiata in bianco e nero e le note scritte a macchina in un inglese da subumani pieno di errori di ortografia) Into the mausoleum del 2007, più volte ristampato. Non ci sono scuse, nessuna pretesa ‘alta’ a nobilitare l’operazione, niente che implichi una qualsiasi parvenza di attività cerebrale per quanto minima: il loro è amarcord puro, concepito e suonato con la foga e la dignità di chi sa che sarebbe stato in seconda linea anche negli anni migliori, quella passione divorante che alimenta il culto ben più e ben meglio di tanti nomi che invece sono sulla bocca di tutti. Musica di cuore e di budella che parla alla gente con un passato che ha voglia di ricordare. Il presente è bandito, il futuro nemmeno contemplato. Per chiunque sia cresciuto mandando a memoria certi dischi, leggendo certe riviste e passando lunghi e bellissimi pomeriggi a tentare di tradurre certi testi che, il più delle volte, parlavano prevalentemente di smembramenti, uccisioni e malattie dal decorso rivoltante, One with the Dead è un delizioso e rinfrancante viaggio nella memoria; per tutti gli altri, volgarissimo rumore con un tizio che rutta al posto di cantare, robaccia per cerebrolesi da stigmatizzare quando non da ignorare direttamente. A posto così: a noi non frega un cazzo e a loro neppure. A ciascuno il suo.

PS: leggo sul loro myspace che a marzo verranno a suonare a Varese di spalla agli Horrid, autentici eroi non cantati del death metal italico, altri che hanno lasciato il cuore in Svezia e i padiglioni auricolari a casa di Tomas Skogsberg. Imperdibile per chiunque abbia un’anima.

Edit dell’ultim’ora: mi rendo conto solo adesso che un gruppo che di nome fa “Cimitero” merita di diritto un posto nella categoria “Gruppi con nomi stupidi”. Tag aggiunta all’occorrenza.