Leviatani e Locuste (due recensioni gratis al prezzo di una recensione gratis)

C’è un nuovo disco dei Mastodon. Non è niente di che, opinione intercambiabile in merito ai dischi dei Mastodon da Blood Mountain a esser buoni. Ma il gruppo è figo, piace a tutti e dal vivo spacca. E il batterista, non mi fare manco iniziare sul batterista dei Mastodon etcetera. Il problema che hanno i Mastodon è che come gruppo non traboccano proprio di pezzi, per così dire: si sono inventati una buona linea di condotta (tipo facciamo heavy metal normale però suonato come se suonare heavy metal normale avesse un senso, il che tutto sommato all’epoca era pure un concetto innovativo) e l’han portata avanti con tanta fierezza e tanto incazzo, buttando in mezzo tanti di quei riffoni che ancora quando metti Remission e al limite Leviathan i vicini vengono a bussare con una roncola in mano*. Va bene, insomma. Però non hanno i pezzi. Nel disco precedente, quello dove cantava Paperino, era un problema drammatico perché se NON hai i pezzi e uno di quelli che cantano ha quella voce lì sembra che lo stai facendo per il LOAL e/o per vedere quante sono disposte a prenderne su i tuoi fan. Questo disco qua corregge il tiro ma non guadagna in tiro. Non molto. Un po’. Per dire, lo stesso giorno esce un disco nuovo dei Machine Head. I Machine Head fanno tristezza da Through The Ashes of Empires, e hanno rincarato la dose con The Blackening (nessuno dei due fa proprio VOMITARE, diciamoci la verità, ma sentire i Machine Head ributtarsi su roba alla Burn My Eyes dopo aver fatto Supercharger e quello prima fu davvero una cosa che sgonfiava le palle). Oggi stanno provando a uscire dall’impasse senza che nessuno si aspetti più nulla da loro, eccezion fatta per quelli che li vedono dal vivo (sono ancora bestiali, Robb Flynn continua a urlare anche nelle pause tra una canzone e l’altra) e certi osservanti del metal che ancora pensano Roadrunner possa fare uscire dischi fighi. Paradossalmente, il nuovo disco dei Machine Head è una roba che li mette in fila. Davvero, non c’è piaggeria in questa cosa che dico –ammesso e non concesso che io sappia cosa dico quando dico “piaggeria”. Il nuovo dei Machine Head è una sborrata, un DISCONE. Avete presente i dischi fighi dei Machine Head? Guardano a cosa butta nel mercato in quel momento e ne danno una loro versione abbastanza ragionevole. Ora quindi han deciso di fare un disco un po’ mastodoniano mischiato a cose thrash metal slayeriane osservanti e ovviamente al modo in cui scrive Robb Flynn, che tutto sommato non è così differente da quel che era in Burn My Eyes e The More Things Change. Quello che rende Unto The Locust** un disco della madonna, in ogni caso, è il mondo che gli sta attorno: magari nel 2005 potevamo essere ancora schizzinosi e fare le pulci all’ideologia, oggi bisogna aggrapparsi a qualsiasi cosa PESTONA venga buttata sul mercato. E in più i gruppi con i pezzi sono sempre meno. Quindi dicevo appunto VAFFANCULO, il nuovo Machine Head è un disco PESTONE e c’ha I PEZZI. Il nuovo Mastodon, per dire, no. (al momento sto pensando tipo che non c’è niente di più suicida per un blog peso che dire che i Machine Head fanno il culo ai Mastodon).

*che è una cosa che non capita quasi più, praticamente ormai è pura nostalgia anni novanta. Ah, le musicassette. Ah, il festivalbar. Ah, i vicini che ti vogliono menare.

**l’abbiam detto in tempi non sospetti, nel 2011 arrivano le locuste e puliscono il melo.

DISCONE: Black Sun – Twilight of the Gods (Future Noise)

I dischi che spaccano il culo senza essere niente di speciale ormai sembrano venire tutti da un’altra epoca. Credo siano stati gli anni novanta: la musica rock, specie quella molto pesante, doveva essere sempre molto nuova o molto tradizionalista. Il rock normale ha smesso di esistere più o meno ai tempi in cui AmRep ha chiuso i battenti, lasciandosi trasportare all’interno di un gioco di specchi più o meno infinito in cui quasi tutto quello che musicalmente non è, ehm, niente di che non vale manco la pena di, etc etc. OK, smettiamo di traccheggiare e ci leghiamo all’oggetto: i Black Sun  sono un gruppo di rock normale, persino anonimo. Twilight of the Gods è un disco di metal sabbathiano e vagamente blues che cita più o meno apertamente Melvins, gli Entombed di Wolverine Blues, gli Eyehategod di ogni pezzo in carriera e certo blues-core. Roba aggro, per capirci, musica che neanche tanto tempo fa usciva tranquillamente su base settimanale e non creava sconvolgimenti d’animo. Un tizio su Audiodrome s’è ascoltato il disco e ha concluso ciò che segue:  “sono all’esordio con questo Twilight Of The Gods, ma, visti i presupposti, difficilmente lasceranno un segno nella scena pesante contemporanea. Il loro stile è una miscela di doom, sludge-core e oscurità gotiche che più impersonale non si può, con riffing fiacco che non mette mai a segno un colpo come si deve: in alcuni frangenti i giri si susseguono senza convinzione, generando un’accozzaglia che non trasmette niente. (…) La performance vocale di Russell McEwan, che è anche batterista di questo terzetto, non è niente di che, un po’ hardcore, un po’ death, ma senza la giusta dose di preparazione tecnica che aiuta ad interpretare bene la parte.” Rispondiamo nell’unico modo in cui abbia senso:

beccati questa kotekino

Twilight of the Gods è un disco di puro INCAZZO. Non parla nessun linguaggio dell’estremo, o quantomeno non uno che sia preponderante rispetto agli altri. Sono una decina di pezzi, quasi tutti intorno ai sei minuti, buttati lì apposta per dare a chi canta il modo di sfogarsi, con le parti vocali più scorticate della storia e testi indecifrabili (sono di Glasgow) che dicono cose tipo fuck you love songs, fuck you hate songs. è un disco di INCAZZO come poteva esserlo un disco dei Void, o i Suicide che venivano presi a calci dai punk nella New York di fine settanta o gli Unsane di This Plan: esci dal lavoro, vuoi farti una birra e un dischetto metal cazzone e ti senti vomitare addosso un camion di angoscia paranoica che ti fa tornare in fabbrica per altri quaranta minuti. è un disco così lacerato e preso male che tutto sommato i momenti in cui si respira un po’ sono quelli in cui al microfono c’è il negro degli Oxbow, per dire. Il quale comunque dà una performance enorme: Baby Don’t Cry sarà pure mestiere, ma tocca Life Time con un dito. Non è propriamente roba di quella che infiamma gli m-blog intrippati con l’apocalisse ad ogni costo con quell’attitudine alla stare male meno/stare male tutti, ma se dovessi uscire di testa per un album e fare uno di quegli sbrocchi alla Claudio Sorge sul destino del rock, tra quelli usciti di recente non mi verrebbe in mente nessun altro titolo.