Una persona con i miei anni che cazzeggia ancora dietro alla musica indipendente ha qualche storia sui Beastie Boys. A qualsiasi livello. Magari l’ha scritto con la scolorella sullo zaino Invicta sbagliando l’ortografia (è difficile scrivere Beastie a sedici o diciassette anni). Magari s’è scheggiato un dente perché era in mezzo alla pista da ballo quella domenica pomeriggio ed è partita Sabotage. La domenica pomeriggio picchiavano duro. Paradossalmente, io non ho storie su di loro che non siano noiose. Ho conosciuto i Beasties con Sabotage, ma il primo loro disco che ho ascoltato è stato Check Your Head. Lo comprai in cassetta al Media World perché era l’unica cosa a cui ero vagamente interessato (i nastri non è che fosserto tantissimi, al Media World). Il tizio con cui ero in macchina (a quei tempi un amico maggiorenne valeva più di un amico vero) lo sopportò per circa un minuto, lo lanciò via e ricominciò a sentire radio Deejay. Raccolsi il disco, lo portai a casa e passai almeno cinque settimane a non sentire NIENT’ALTRO, come un tossico. Il rap metal era già cosa nota per via di RATM e Downset (e anche il rap e il metal, anche se di entrambi avevo giusto i fondamentali), ma quello era proprio un altro pianeta: sembrava un disco rap con un più cazzeggio che rap, e a conti fatti sembrava l’unica musica che avesse senso ascoltare in quegli anni –nonostante Check Your Head, la prima volta che l’ascoltai, non era manco l’ultimo disco dei Beasties: Ill Communication conteneva la stessa identica musica e appunto Sabotage. e qualcuno m’aveva già scheggiato un dente in pista etcetera. In quegli anni i Beasties sembravano più un monumento all’eclettismo e all’apertura mentale –oltre che una sorta di bagagliaio postmoderno autorigenerantesi che ogni volta che lo riaprivi sputava fuori immaginari a caso ripescati da tutto il dopoguerra senza soluzione di continuità ma in qualche modo sempre e solo cool- che un gruppo rap o crossover vero e proprio. Nel corso degli anni la cesura s’era fatta radicale: mentre TUTTI i gruppi cercavano l’alchimia più riuscita e naturale per mettere insieme quanti più generi possibile in una singola canzone, i Beasties sparavano un pezzo raga dietro uno standard hc-punk senza farla suonare forzata.
Poi siam diventati maggiorenni. Io di anni ne avevo ventuno quando uscì Hello Nasty, quattro anni di distanza dal disco precedente riempiti con degli EP piuttosto pretestuosi, ed ero già pronto come tutti a taggare i Beastie Boys alla voce trionfo dell’old school, a maggior ragione quando il disco arrivò in vetta alle classifiche di tutto il mondo (a parte l’Italia, ovviamente, perché Jovanotti che dava interviste per promuovere L’albero con addosso la loro maglietta non bastava a creare un consenso). Hello Nasty in realtà non era diversissimo dal precedente, fatta salva la totale assenza di chitarre e la collaborazione di Mixmaster Mike che venne venduta come un ritorno ad una purezza originaria che a parte Paul’s Boutique non aveva senso di esistere. Il punto era un altro: i Beasties erano/sono intoccabili, la loro musica modella a prescindere uno standard di pensiero che basta di per sé a giustificarla (oppure si giustifica a prescindere da cosa ne pensi il resto del mondo del pop, che poi quando un disco vende è la stessa cosa). Realizzavano dischi della madonna o niente. È andata avanti così fino ai giorni nostri senza alcun segno di cedimento. Sicuramente li ha aiutati il fatto che nessun altro gruppo nella storia del pop, a parte i Beasties, si può permettere di suonare ogni genere musicale noto all’umanità sembrando sempre e solo i Beastie Boys.
Io stesso non ho ben chiaro se dei Beasties da Hello Nasty in poi mi piacciano i dischi o se piuttosto mi piaccia il fatto di amarli. Che lavori come The Mix Up e To The 5 Boroughs siano musicalmente validi(ssimi) è fuori discussione, per carità: il punto semmai sono i contesti in cui escono e la capacità di resistenza degli album in sé. è se abbia davvero senso considerare To The 5 Boroughs all’interno di un discorso generale che tenga in considerazione il modo in cui si muove il rap nel decennio 2000-2009, anche solo musicalmente parlando, e sicuramente To The 5 Boroughs è un disco rap. Così come The Mix Up è soprattutto un buon disco lounge da ascoltare quando non hai nessun’altra idea di cosa ascoltare, il che ha reso possibile il fatto che dal mese successivo all’uscita ad oggi il disco sia passato sul mio stereo ZERO volte, un po’ poco per un disco che ha preceduto quattro anni di silenzio assoluto. È piuttosto facile pensare che il nuovo album dei Beasties, rimandato ad oltranza per questioni di salute, annunciato per il prossimo mese e messo in streaming ufficiale non appena è spuntato fuori il leak, sarà un album di caratura simile. Il primo ascolto è assolutamente esaltante: la canzone che lo apre si chiama Make Some Noise e mi fa più o meno lo stesso effetto che l’ultimo Gruff fa al mio esimio collega, il resto scivola dentro lo stereo che è un piacere tra chiusure a riccio old-skool (Too Many Rappers), aperture fashion-etniche tipo il pezzo con Santigold e perfino un pezzo chiamato Funky Donkey che richiama la parte stronza di Licensed to Ill. La struttura generale è sciolta e tranquilla ed assomma generi con la stessa facilità dei tempi di Check Your Head, che ancor oggi è senza ombra di dubbio il mio disco preferito, ma in qualche modo tutto il gioco della reunion con se stessi –già al terzo o quarto ascolto- inizia a mostrare la corda. Poco importa riuscire a capire se la cosa è dovuta alla band o –più probabilmente- al fatto che NOI nel corso degli anni abbiamo imparato ad odiare il crossover, i musicisti completi, il pop colto o la musica in generale. Il fatto è che una volta ad ascoltare i Beasties ci si sentiva parte di un esercito in lotta contro la cattiva musica, mentre Hot Sauce Committee Pt.2 sta ai loro dischi migliori come il metadone sta all’eroina –va bene per smettere, ma non se hai già smesso. Ecco.
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