Il disco più bello di sempre.

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Angel’s wings è la canzone che chiunque vorrebbe rispecchiasse alla lettera la propria vita. Parole che racchiudono il senso stesso di un’esistenza, messe giù con una convinzione e un’intensità che stenderebbero il più coriaceo degli esseri umani, a patto che sia dotato di un cuore funzionante e una predisposizione a buttarsi a capofitto nella vita senza paura di abbracciarne fino all’ultima delle conseguenze, senza riserve, senza remore né paure.
Tutto Sex, Love & Rock’n’Roll è così: la vita senza i momenti morti. Alti che sono picchi al cui confronto l’Everest è una strada appena asfaltata, bassi che sono voragini, buchi neri dai quali esistono buone possibilità di uscire annientato (se ne esci); oppure in qualche modo torni su, e un giorno arrivi a fissare di nuovo la tua immagine riflessa nello specchio sostenendo lo sguardo. Un’altalena che fingere di ignorare è tutto di guadagnato per preservare l’istinto di autoconservazione; in molti lo fanno, a volte diventa necessario, l’unica via per continuare a respirare.

Forse sono solo trip miei, innescati da un disco che mi ha preso particolarmente bene fin dal primo istante per ragioni che non riuscirei a spiegare altrimenti (semplicemente, mi ci sento rispecchiato: ogni volta in cui l’intensità di quello che provo diventa impossibile da gestire, come se improvvisamente sentissi benzina al posto del sangue scorrere nelle vene, ogni volta in cui mi trovo di nuovo stretto all’angolo, ogni volta che sono grato di calpestare questa terra, ogni volta che vorrei morire male all’istante). Ma sono trip che vanno avanti, inalterati, da dieci anni. Il giorno in cui alle prime note di Angel’s wings non mi monterà inesorabile il groppo in gola, oltrepassando la soglia delle lacrime fino a lambire nuovi e sempre mirabolanti orizzonti, sarà un giorno sbagliato.
Sex, Love & Rock’n’Roll è uscito a fine settembre 2004, non ricordo il giorno preciso. viene dopo White Light, White Heat, White Trash, oltre cui ero convinto fosse impossibile spingersi. Mi sbagliavo.
Ne esistono pochi di dischi così. Over The Edge, Warehouse. Ce ne sono pure altri, ognuno ha i suoi (forse, mah), solo che al momento non mi vengono in mente.

Una per J Mascis e i Dinosaur Jr (il ventennale di Without A Sound un puro pretesto)


Feel the pain è il primo pezzo dei Dinosaur Jr che ho ascoltato nella vita. Il singolo era uscito mesi prima dell’album e con un video del genere, finito in heavy rotation all’istante praticamente ovunque, sarebbe stato impossibile non notarlo. Credo con buona approssimazione quel video l’abbia visto più o meno chiunque fosse a contatto con un televisore ai tempi. Per il regista Spike Jonze, un uno-due che giustifica una carriera: nel giro di pochi mesi, quello e Sabotage dei Beastie Boys – quest’ultimo con tanto di storia assurda a motivare: doveva essere un film vero e proprio, parodia blaxploitation meta-qualcosa, roba stupidissima nei risultati e intelligentissima nelle intenzioni, si sono smagnetizzati i nastri (o sono finiti i soldi, non ricordo) e ha dovuto fare con quel che c’era, montaggio alla brutto Dio e via. Il risultato è qualcosa di ciclopico comunque sia andata (anzi, forse è pure meglio sia andata così alla fine: bozzetti appena accennati di situazioni paradigmatiche da poliziesco di serie Q, allucinogena sequela di baffi finti, occhiali a specchio, ciambelle e caffè, nomi assurdi – Alasondro Alegré mi si è tatuato nel cervello da allora – nessuna trama, niente pippe). Per Feel the pain la lavorazione è infinitamente meno travagliata e la storia molto più semplice. Una sola idea, stirata oltre il parossismo: J Mascis che gioca a golf nel centro di New York City, in pieno giorno, asfalto strade trafficate eccetera (Mike Johnson, l’unico altro membro superstite – Murph era stato silurato da poco – è il caddy). A ogni tiro la spara nei posti più improbabili, traiettorie spropositate in sfregio a qualsiasi legge della fisica, con conseguenze spesso farsesche; dopo l’ennesimo tiro mirabolante la pallina finisce sul tetto di un grattacielo al tramonto, lì c’è la buca, con tanto di tappeto verde e bandierina. Ultimo tiro decisivo, pena un umiliante bogey o peggio. La butta piano, finisce in bilico; interminabili secondi a ondeggiare sul filo di lana mentre in sottofondo l’assolo è già partito, primo piano di Mascis che fissa la palla come Christopher Walken la pistola nel Cacciatore, se Christopher Walken fosse un bradipo sovrappeso con la fissità di un tavolo autoptico, la palla va in buca, tripudio. L’ultima inquadratura resta tra le cose più stupide, becere (nell’accezione più nobile possibile) e divertenti io abbia mai visto. Dissolvenza in nero.

Erano giorni strani. Cobain morto da poco, sembrava che il mondo intero stesse immobile, col fiato sospeso, ad aspettare la prossima mossa. Nessuna direzione, il buio più totale; l’urgenza (di più: la necessità) che qualcuno indicasse la strada da seguire, quale che fosse. Per il momento c’era Feel the pain con il suo video simpatico.
Where You Been, la cosa più bella mai uscita a nome Dinosaur Jr, era improvvisamente diventato un remoto non-luogo della mente, abissalmente distante, cancellato da una fucilata (come poi tutto il resto in realtà). Non ancora metabolizzato, non lo sarebbe stato mai. Ne ha scritti tanti di capolavori J Mascis: You’re Living All Over Me, Bug, Hand It Over, Farm. Ma Where You Been è speciale. Una volta lasciato entrare in circolo è la fine, non se ne esce indenni. La portata, l’intensità del dolore che procura, che non smette di procurare, il modo in cui fa sentire, di colpo e senza ritorno, completamente inermi, esposti, vulnerabili, sono qualcosa di impossibile da descrivere, da quantificare. Non esistono armi né barriere che possano in alcun modo contrastare l’assalto frontale che è Where You Been in questo senso, a parte l’indifferenza. Si può scegliere di ignorarlo o passarci attraverso restandone intoccati; succede. Ma dal momento in cui senti che quelle canzoni ti stanno parlando, e ci sei dentro, una volta dentro sei fottuto per sempre. All’istante.
Reggere il confronto sarebbe stato impossibile, per chiunque, e J Mascis nemmeno ci prova. Il testo di Feel the pain lo scrive direttamente in studio, prima di iniziare le registrazioni, questo può far capire quale fosse il mood generale. A parte un pezzo: I don’t think so. Il solo ipoteticamente degno di venire incluso nella scaletta di Where You Been, se non altro per depotenziarne (ma soltanto in superficie) l’effetto globale. Le parole sono le stesse, i concetti gli stessi, cambia la musica: confidenziale, apparentemente disimpegnata, a rendere umanamente sostenibili, perfino sopportabili, stati della mente che sono e restano lame nella carne. Complessivamente una stilettata in pieno petto, del tutto a tradimento. Mi piacerebbe credere che lei abbia pianto per me, ma non lo so. Può essere che lei abbia pianto per me? Non credo. Parole che non smettono di colpire dove fa più male, con perizia e sadismo immutati, ogni volta che le fai girare, regolarmente in corrispondenza di un ricordo che lacera al solo manifestarsi. Il resto del disco lascia il tempo esattamente come l’ha trovato e si dimentica all’istante appena finisce l’ultimo pezzo. Almeno a me succede così, da vent’anni.

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Without A Sound esce il 23 agosto 1994. Copertina orrenda, peggio del solito, niente testi as usual. Sulla scorta del video di Feel the pain diventa immediatamente il disco più venduto dei Dinosaur Jr, ma l’andazzo non dura molto; è un fuoco di paglia, una bolla che si sgonfia a velocità vertiginosa, ne sono la prova le camionate di forati che nemmeno un anno dopo invadono gli scaffali dei negozi a quasi un decimo del prezzo di partenza. Mascis se ne frega, ha altro per la testa; il padre è morto, per elaborare il lutto e tornare sulla piazza gli occorreranno tre anni. Dopo un silenzio radio praticamente ininterrotto (nel mezzo solo Martin + Me, sbracato live acustico pubblicato a nome J Mascis in cui oltre al suo repertorio massacra anche pezzi di Greg Sage, Carly Simon, Smiths e Lynyrd Skynyrd), nel 1997 dei Dinosaur Jr al mondo importa meno di nulla (a parte una risicata schiera di irriducibili, sempre decrescente). Non basta il titanico Hand It Over a risollevarne le sorti (Kevin Shields ai controlli, infatti suona come nessun altro disco dei Dinosaur Jr ha suonato mai, c’è anche Bilinda Butcher ai cori; commovente, squarci di luce a tratti accecanti, un capolavoro assoluto destinato a rimanere incompreso), ci vorrà la reunion con Barlow e Murph relitti nel decennio successivo per riaccendere interesse nelle platee. Mezzi per un fine: Beyond puro riscaldamento, Farm deflagra, riapre ferite che si scoprono ancora spalancate. Più che un disco, una tortura cinese, in costante torsione verso la pop song definitiva. con Plans quasi ci riesce. Non ho ancora sentito I Bet On Sky, continuo a temporeggiare: il ricordo del predecessore ancora brucia dentro di me. Non so, forse non lo ascolterò mai, esiste questa possibilità.

CRASH OF RHINOS @ Circolo Valverde (Forlì, 19/11/2011)


Quello che guida lo conosco bene: siamo amici da circa vent’anni, praticamente siamo cresciuti insieme, ora non ci si vede più tanto spesso ma insieme ne abbiamo fatte tante e soprattutto ci si capisce ancora al volo, quasi senza bisogno di parlare. La migliore compagnia che potessi immaginare per un concerto come questo. Nell’autoradio una raccolta dei Face To Face, il sottofondo più appropriato per una gita fuori porta che ha il sapore cocente dell’amarcord, vedere scorrere giornate, mesi, anni ormai lontani, scanditi da una musica che contribuiva ad amplificare emozioni già in partenza devastanti: Quicksand, Jawbreaker, Still Life,  i misconosciuti Bad Trip che ho amato fino alla consunzione, poi certamente Texas Is The ReasonMineral, Sunny Day Real Estate, in Italia Eversor e Burning Defeat soprattutto, quel suono sempre in bilico tra emocore (quando ancora emocore era un termine legato quasi sempre a qualcosa di vivo e bruciante) indie rock (idem come sopra) ma pure hardcore e metal che è stato la colonna sonora della nostra educazione sentimentale e iniziazione alla vita. Un vissuto che, chissà come, i Crash Of Rhinos sono riusciti a reincarnare e rievocare alla perfezione, a dispetto di ogni possibile differenza geografica, anagrafica o di environment, del resto i temi e le sensazioni di cui si fanno portatori sono universali (perlomeno nella distanza tra le casse dello stereo e un cuore pronto a infiammarsi): essere adolescente negli anni novanta, la scoperta del mondo negli anni novanta. Anche la stagione è quella giusta, l’autunno dell’inizio dell’anno scolastico, dell’ora solare, degli affetti che cambiano, dove tutto trascolora e il freddo fa condensare il fiato, certo settembre sarebbe stato forse ancora meglio ma ora in compenso il gelo il buio e la nebbia favoriscono l’introspezione e il flusso di ricordi. Di nebbia stasera ce n’è pure troppa, la A14 sembra il ponte di un vascello fantasma, il casello di uscita il porto alla fine di una tempesta particolarmente arrogante. Per strada manco un cane, poche auto, ghiaccio sull’asfalto: è Forlì il sabato sera a novembre. Parcheggiamo di fronte a un minimarket sulla cui insegna (spenta) sta scritto “Simpatia” a caratteri rotondi e gommosi; le giacche le lasciamo nel bagagliaio, come facevamo da sbarbi, quando il freddo non ci faceva poi così paura (specie se a contrastarlo ci pensavano svariati litri di birra nello stomaco). Ad accoglierci al Valverde un tizio addetto al tesseramento con simpatici tatuaggi da ergastolano sul dorso della mano e Back In Black a volume moderato dal bancone del bar: splendido. È ancora presto; i ragazzi ci danno sotto con panini e birra ma io sono sulle spine, troppo emozionato al pensiero della mastodontica madeleine proustiana che sta per abbattersi su di me, e nemmeno ci penso a mandare giù qualcosa. Comincia ad arrivare gente. Arrivano altri vecchi amici con cui non capita spesso di incontrarci, da Ferrara, da Cesena, Renato addirittura da Brescia; siamo tutti qui per lo stesso motivo se vogliamo – ritornare indietro nel tempo – ognuno ha scelto la sua strada ma ogni volta che ci si rincontra non importa quanti anni sono passati, la certezza di rivedersi specchiati negli occhi dell’altro è la stessa di sempre, e le nostre strette di mano sembra vogliano esprimere orgoglio (d’altra parte, chissà). Inizia il concerto, la saletta al piano di sotto si riempie in fretta; tra il pubblico più vecchiacci che ragazzini, c’è perfino qualche ragazza, trascinata qui per chissà quale motivo, forse a tradimento. I Distanti sono il tempo che mi separa dai Crash of Rhinos: deve passare, e passa. Dal banchetto dei dischi direttamente sul palco i Crash of Rhinos, facce da working class dei bassi strati, magliette logore (a parte il mezzo cinese che è veramente sciccoso ed elegante), temibili ventri da birra o schiene piegate da programmatore rachitico, sembrano quelli che alle feste se ne stanno in disparte osservando le cose accadere. Due chitarre, due bassi, una batteria e quattro microfoni; sul corpo dello strumento uno dei bassisti (quello irsuto) ha attaccato un adesivo con scritto MINERAL, e già hai capito com’è la storia. Parte il primo pezzo ed è subito un tripudio di urla a tutta gola, le vene del collo prossime al collasso, un muro di elettricità innalzata come scudo contro l’immensa crudeltà del mondo. Avrei voluto pogare ma la letargia del pubblico forlivese non mi disturba poi più di tanto: tempo il secondo pezzo e divento uno zombie immobile io pure, travolto dal cortocircuito spaziotemporale accentuato dalle sfumature post-rock che i pezzi assumono dal vivo e che su disco non avevo colto. Ho di nuovo 16 anni, il tunnel di Underground come l’entrata di una chiesa, i cataloghi della Green Records mandati a memoria come fossero la Bibbia (e di sicuro mi hanno fatto meglio della Bibbia), le fanze lette in classe, le prime legnate ai concerti, i volantini in bianco e nero ancora puzzolenti di Rank Xerox, ingresso cinquemila lire, e fai girare ‘sto microfono, lunedì c’è la verifica di greco e non ho studiato un cazzo, meno male che settimana prossima vado a vedere i June of 44 al Link. E tutti intorno hanno la mia stessa età mentre in tre quarti d’ora i Crash of Rhinos srotolano tutto l’album più uno strumentale inedito che più che un pezzo è una sintesi di tutto ciò che musicalmente è accaduto tra il Midwest e il Kentucky in anni in cui eravamo più giovani ma manco per il cazzo più inesperti: è proprio vero che più le cose cambiano più restano le stesse. Non sempre la nostalgia è una brutta cosa. Non stasera, almeno.