PENSACI (Non ci ha pensato nessun altro, e per questo noi oggi scriviamo due righe sul fatto che secondo i Maya oggi finisce il mondo)

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Nel circo della strada puoi piangere e far piangere. PENSACI. Quel pagliaccio demmerda presa-a-male e portazella ha funzionato, ci ho pensato, la sua frase morbosa e senza senso si è insinuata nella mia mente, e stamattina in motorino ripetevo gracchiante, Nel circo della strada puoi piangere e far piangere!, e così facendo non ho visto il rosso* a Porta Maggiore e un pizzardone (cioè un vigile demmerda) mi ha gridato un roco AOOHHOow e io mi sono fermato come si fermano i conigli se li stai per mettere sotto, che si fermano in mezzo alla strada, avete presente**, per farsi mettere sotto meglio, insomma io mi sono fermato, così, ho pensato poi, se mi doveva prendere la targa me l’ha presa meglio. Questa consapevolezza ha attraversato la mia mente per mezzo secondo, dopodiché ho preferito ricominciare a pensare che: nel circo della strada, puoi piangere e far piangere…

 

Dunque è tutto vero. Piove, porco due, sta finendo il mondo. Ma gli Itzà lo sapevano. Ho scritto Itzà perché mi sono ripromesso che avrei scritto l’unico articolo sulla fine del mondo di tutto internet che non contenesse la parola Maya. Ah cazzo. Nel circo della strada, puoi piangere e far piangere. C’è un effetto di luce bello e particolare a Ciccion Itzà, una città antica del Messico, dove il 21 dicembre di ogni anno il sole fa in modo che un serpente di luce sembra scendere i gradini della piramide, orientati in modo particolare. C’è una foto qui in alto su questo fatto. I Maya erano dei grandi astronomi, e perciò riuscirono a organizzare questa cosa, e la tecnica che usavano per calcolare i movimenti degli astri (e, in base ad essi, immaginare mitologie paurose) era talmente precisa che, come se non bastasse, fecero in modo che il 21 dicembre del 2012 il serpente avrebbe non solo sceso le scale della piramide, ma sarebbe arrivato al centro del grande piazzale dove, in telugu***, avrebbe detto: రహదారి సర్కస్ లో మీరు కేకలు మరియు మీరు కేకలు చేయవచ్చు.

 

E quindi, sta per finire il mondo. Credo “stia per”, dal momento che a rigor di logica l’orario in cui dovrebbe avvenire è mezzogiorno, fuso orario dello Yucatàn. Quindi, adesso che scrivo – sono circa le nove da me – nello Yucatàn sono le tre di notte e i Maya dormono i loro ultimi, dolci sogni di guacamole, prima di morire orrendamente tra nove ore circa. Oddio manca pochissimo, oddio non ho fatto in tempo a dare un bacio d’addio a tutti i miei cari. Bè, sti cazzi. La fine del mondo, in realtà, mi toglie un sacco di pensieri. E anche se questa frase è il mio Concetti Depressi: The Definitive Collection, tuttavia mi scampo: l’orrido giorno di Santo Stefano; l’orrido primo gennaio; tutta quella fase dell’anno in cui fa troppo freddo per girare nudi e troppo caldo per essere vestiti, e perciò ci si ammala; altre migliaia di Enrichi Mentana che aprono il telegiornale con la frase “è stata una giornata nerissima”; l’espressione “lo spread dei bund”; tutti i cazzi della depressiva politica italiana, con Casini che ammonisce e Fini avverte e Bersani tuona e Monti non muore mai, MAI, non muore mai porca troia, lui e la sua banda di mostri, ma aspettate un attimo, ho appena realizzato che Quetzalcoatl oggi ci farà la grazia di uccidere anche l’intero nostro governo, e allora via, che volete che sia che ci vada di mezzo qualche innocente, tipo me, alla fine nessuno è innocente come diceva Malcom McLaren, e nel formulare questo pensiero vengo invaso dallo struggimento di stare per morire senza aver mai più ascoltato la colonna sonora di The Great Rock’n’Roll Swindle, con Who Killed Bambi, con Belsen Was a Gas ed altre hit crudeli; no, aspettate un attimo, è troppo presto, devo ancora fare un sacco di cose, non può finire così! Devo: vedere mio figlio ridere; sentire ancora il calore del sole sulla mia pelle; tuffarmi nel profondo del mare, dove il blu è più blu. Ma vaffanculo, che ci avete creduto? Fottuto Saviano. Lo so io, che c’entra Saviano. Ok, quando si scrive bisogna spiegarle le cose, altrimenti chi legge non capisce: una delle frasi sopra, quella del blu, è di Saviano. Contenti, ora che ve l’ho spiegata? “Contenti chi, a chi stai parlando?” Oddio, sono già morti tutti? “No, è che non ti si incula nessuno!”

 

Nel circo della strada, puoi piangere e far piangere.

 

 

 

 

 

 

 

* Complimenti per la riuscita della pubblicità!

 

** Io no. Mi baso su un racconto giovanile di un mio vecchio zio, a cui accadde questa cosa a Pescasseroli, in Abruzzo, dove un coniglio gli si piantò davanti ai fari della macchina, lui inchiodò, scese, lo prese per le orecchie e lo liberò. Questa storia mi deliziava quando ero bambino.

 

***Se non sapete cos’è il telugu, bè, non lo so nemmeno io. Però è presente in Google Translator, che potete usare per conoscere il significato della frase di cui sopra. Bè ok, ve lo dico qui. Ho scritto “Nel circo della strada puoi piangere e far piangere” e ho chiesto a Google Translator di tradurlo in telugu. Il problema è che, facendo il processo inverso, cioè copiando la frase risultante e facendola tradurre di nuovo in italiano, il risultato – potete provare – è: Si può urlare e urlare per la strada del Circo. Che paura fa!? E quanto è profezia Maya? Porca troia, ho fatto il furbo con Kukulkan, e adesso mi sta punendo. 

 

Non voglio sapere (breve saggio sulla crescita)

in a gadda da vida

“Non avete seguito i ribelli fino alle loro… tane?”
“No, finché non ce ne sia dato l’ordine… (Si corregge) Fino a che lei non ci dia l’ordine, signore. Quali tane?”
(Rafael Spregelburd, La cocciutaggine)

Il 1991 come anno in cui nascere è contemplato a fatica nel database di pensieri a cui io possa accedere; che il 1991 produca in fatto di nascite non soltanto dei neonati, ma dei neonati che crescano e si degenerino nell’adolescenza fino a produrre un genere musicale che, diversamente dai suoi co-neonati, io mai e poi mai potrò capire e dovrò arrendermi a non sopportare, bè, questa, poi.

La mia vita scorreva inquieta ma tranquilla finché, con clamoroso ritardo – immagino – rispetto al tempo reale in cui vivono i Ragazzini oggi, mi piace, +1, la mia solida impalcatura di concetti e conoscenze teoriche non è stata brutalmente scossa da una segnalazione di kekko su questo tizio, Tyler, che produce una sorta di hip-hop troppo tetro e lugubre perché noi si possa apprezzarlo, un suono ostile come gli sguardi di, credo, migliaia di under 20’s che si girano con gli occhi tutti neri mostrando i denti e dicendomi, Vecchio, stanne fuori.

E io ne sto fuori, sto un po’ in disparte lontano dal palco e dal pogo, in un punto in cui la musica arriva male, arriva attutita e, per la prima volta, provo la sensazione di non capire e non mi ci adeguo, e cerco di interpretare quello che vedo applicando mie categorie stantie e vecchie, Clouddead, Prefuse 73, Rayban di plastica rossa, acidi e Ah sì, è una moda, che naturalmente mancano totalmente il punto, acqua, acqua, acqua mentre loro affondano le mie corazzate;

Affondano le mie corazzate perché io sono il gesuita che arriva in Messico e scambia una rappresentazione del Cosmo Increato per una partita di calcio; sono il padre che tira su i pantaloni a vita bassa di mia figlia; sono il Gattopardo e sono, se volete, il vecchio inglese che smonta i Sex Pistols sulla scorta dei Beatles; io sono tutte queste cose, io che sto a guardare e rido ma non so che cosa invidio, che cosa invidio.

L’altra sera ero attorno a un tavolo con altri vecchi e cercavamo pateticamente di ideare qualcosa, un linguaggio, uno straccio di app (mi piace) che permettesse al nostro mestiere antiquato di facitori di libri (-1) di sopravvivere all’ineluttabile. La visione del sito di riferimento di questo Tyler mi ha fatto capire che non ce la faremo mai, e non ce la faremo anche e soprattutto perché io, oggi, adesso, sto parlando di “sito” ma mi accorgo che quel TUMBLR lì nell’indirizzo, ooops, nell’URL (+1), non me la racconta giusta (non mi piace più).

Tagliato fuori, non mi resterà altro che scappare via a casa, in lacrime e sprezzante al tempo stesso, e domani a un concerto di PJ Harvey o chissà chi altro (ma una cosa del genere), con rassicuranti, calde e valvolari chitarre elettriche che mi nasconderanno l’ineluttabile verità, ossia che la musica non più ci appartiene, e siccome in notti come questa l’ho tenuta tra le braccia,
la mia anima non si rassegna d’averla perduta.

Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa,
e questi gli ultimi versi che io le scrivo.