Mogees

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C’è stato pure un periodo in cui mi dilettavo a fare musica in cameretta, e vi ha detto bene di non averla mai ascoltata. All’inizio lavoravo con dei nastri e un lettore CD che aveva la funzione loop, poi ho iniziato a rimediare cose tipo macchinette, tastierine e pedali. Roba suonata alla cazzo stracarica di effetti altrettanto alla cazzo, tutto registrato in cassette che fantasticavo essere al livello di un sacco di altra roba (che non mi sarei mai sognato di comprare e che per un certo periodo ho comprato comunque, così, forse per non sentirmi un cazzone).

Tra le persone che nutrivano le mie fantasie c’era questo nucleo di amici che avevano smesso il postpunk e stavano iniziando a sperimentare sui suoni. Gente in gamba di cui carpivo le chiacchiere cercando disperatamente di salire un attimo di livello: mollai i tape-loop e gli strumenti e i pedalini e iniziai a registrare suoni d’ambiente: per un paio d’anni andai avanti a sentire dischi di field recordings come se fosse una cosa normale, mettevo registrazioni su cassetta e le passavo attraverso effetti, tutto sempre in cassetta. Uno di loro mi regalò un microfono a contatto, altri due o tre li provai a costruire; di quel periodo anche certi sintetizzatori casarecci, registrazioni malfatte/effettate al computer, il disperato tentativo di imparare a usare cose tipo Reason, tutto finito in un mare di merdona nera. Oggi possiedo cinque o sei applicazioni musicali sull’iPhone: una specie di corrispondente del Kaoss Pad, un software di Propellerhead che si chiama Figure e via di questo passo. Penso sempre che quando avrò dieci minuti, nel 2019, ricomincerò ad utilizzarle e magari produrrò musica. Ho idee.

(Figurarsi.)

Bruno Zamborlin è un ragazzo di Lonigo trapiantato da qualche anno a Londra, lavora con la musica e le nuove tecnologie –potrei provare a scendere nei dettagli ma soccomberei. Bruno Zamborlin fa parte dei fioi, vale a dire che oltre a essere veneto è amico mio, e senza saperlo mi ha molto influenzato nel passare dai nastri di merda alle field recording di merda. Nel corso del tempo ho mollato tutta quella roba, Bruno no e ora collabora con i Plaid.

(quei Plaid lì)

(vi ricordate quando Warp era religione?)

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Da qualche anno Bruno Zamborlin sta lavorando a una cosa che si chiama Mogees. Si tratta di un software che processa suoni d’ambiente tramite un microfono a contatto integrato: una cosa piuttosto fica a sentire certi video introduttivi usciti un paio d’anni fa. Ora Mogees è un’applicazione per smartphone e tablet: per l’occasione Bruno e l’altra gente coinvolta hanno iniziato una campagna su Kickstarter. Mogees è un microfono a contatto e un software. Questo naturalmente è uno spottino ad un amico –ciò non toglie che i prossimi giorni ricaricherò la prepagata e caccerò il grano.

MATTONI issue #2: Alan Licht

 

Nell’autunno 2003 A New York Minute, titanico doppio album del chitarrista minimalista Alan Licht, finì in downloading illegale su Internet – come consuetudine – diversi mesi prima che il disco uscisse “fisicamente” nei negozi. Non so come sia andata la faccenda nel dettaglio, sta di fatto che il rip che circolava in rete (e che, ironia amara, tuttora si trova con maggiore facilità) presentava una scaletta diversa da quella che poi, molto tempo dopo, avremmo trovato sul CD; probabilmente qualche fonico dello studio dove Licht stava registrando, preso da un improvviso impeto rivoluzionario, nell’urgenza di fare nel più presto possibile qualcosa di eversivo ha rippato una copia di lavoro dell’album con ancora la tracklist provvisoria. Il problema – ironia doppiamente amara – è che i due pezzi scartati dalla versione definitiva sono, quando non i migliori del disco in senso assoluto, certamente i più stimolanti e affascinanti. Essendo entrambi costruiti principalmente su samples di canzoni arcinote posso ipotizzare che l’esclusione sia stata dovuta all’impossibilità di pagare diritti d’autore che si immaginano esorbitanti, somme che il filiforme Licht non sarebbe riuscito a saldare nemmeno se l’album avesse stazionato nelle zone alte della classifica di Billboard per ere geologiche. Ma sono congetture; la verità, probabilmente, la conoscono soltanto Licht e il fonico manolesta di cui sopra.
Il primo pezzo è la versione originale della title-track; chi conosce bene il disco (beninteso: uno dei massimi capolavori di minimalismo chitarristico dello scorso decennio) avrà imparato ben presto e a proprie spese a skippare di default quell’infernale quarto d’ora di cut-up di previsioni del tempo registrate da una trasmissione radiofonica nel corso dell’intero mese di gennaio 2001 e miscelate al rumore del traffico e ad altro chiacchiericcio molesto assortito carpito chissà dove. Tutt’altra musica e tutt’altro costrutto assume invece il brano nella sua concezione primigenia: i minuti da 15 diventano 23, e intorno al dodicesimo l’incessante fluire metallico di vaniloqui sul tempo sfuma nel ritornello campionato e messo in loop di New York Minute di Don Henley, pilastro assoluto delle stazioni radio FM americane di una volta, pezzaccio strappacuore e bomba nucleare dell’airplay in quegli eighties che Licht, da vecchio rockettaro quale era e comunque resta, conosce come le sue tasche. In a New York Minute/ Everything can change… In a New York Minute/ You can get out of the rain… Estrapolate da un pezzo che è tra le sintesi più cruciali di concetti quali mutamento e perdita e mutamento dovuto alla perdita, queste frasi ripetute ossessivamente come un mantra (con tanto di “u-uuh” spettrale contrappunto che le accompagna) acquistano rinnovata consapevolezza e ulteriore, lacerante urgenza tragica, diventando – forse inconsapevolmente – la più grande e importante trasposizione in musica del post-11 settembre vissuto dai newyorkesi dopo l’intero American Supreme dei Suicide (disco tanto decisivo quanto frettolosamente dimenticato). Un pezzo che strappa il cuore anche a chi il crollo delle twin towers l’ha visto al telegiornale, comodamente seduto sulla poltrona di casa. Anche a chi delle twin towers se ne sbatte allegramente i coglioni. Terminale.
Il secondo brano – questo invece cassato in toto dalla scaletta definitiva – si intitola Bridget O’Riley, dura ventidue minuti ed è interamente costruito su porzioni del giro di synth che apre Baba O’Riley degli Who messe in loop e sovrapposte creando un effetto di “stratificazione” proprio del migliore Steve Reich, una sorta di equivalente “elettrico” della sua Violin phase con in più il calore dell’analogico (i samples sono presi da una copia in vinile di Who’s Next e in più punti si avverte il crocchiare della puntina sul solco impolverato) e la pompa kitsch delle superproduzioni: all’undicesimo minuto infatti il mosaico di loops, ormai divenuto un’ingarbugliata impalcatura a sé stante, entra in collisione con un campionamento – messo a sua volta in loop – del climax di Heart of glass dei Blondie, creando un cortocircuito sensoriale persino superiore alla somma delle parti. In quel periodo Licht era intrippato col bastard pop, e questi due suoi esperimenti sono probabilmente l’unico lascito degno di nota di quell’irritante ennesimo abbaglio passeggero della stampa musicale “che conta”. Entrambi i pezzi sono ora scaricabili, del tutto legalmente, da qui.

STREAMO: FourTet – There Is No Love In You

KLIKKAMI! KLIKKAMI! KON LE KAPPE!

There Is Love In You è il primo disco lungo di FourTet da quattro anni a questa parte, se leggete Pitchfork. Naturalmente non è affatto vero: lasciamo perdere che fa uscire uno spin-off ogni sei mesi, ma almeno un disco come Ringer durava una mezz’ora grassa -vogliamo dirlo? Diciamocelo.

Invece There Is Love in You è il vero e proprio seguito di Everything Ecstatic, il disco “maggiore” dover FourTet smette per un attimo di cercare di cambiar volto alla sua musica e si rimette a cambiare il volto alla musica in generale. C’è quasi tutto quel che avete ascoltato di suo negli ultimi anni, più qualche altra cosina per stare bene. Un sacco di cassa, tanto per dire. Suoni plastiscrausi in altissima fedeltà mischiati alle solite svisate etno-dementi e a un treno di lucidissima paranoia house con le tette rifatte. Roba da ascoltare senza scuse, che il Nostro ci mette gentilmente in streaming su Soundcloud.

Piuttosto pittoresco il commento più recente ad ora: “gimme some that of gamelan house anytime“. Sbrocco meets sbrago.

Grazie a Tomm.