Gruppi con nomi stupidi: AN AUTUMN FOR CRIPPLED CHILDREN

 

 
Campioni di buon gusto: il loro nome tradotto suona più o meno come “Un autunno per bambini azzoppati“, e l’artwork di lancio dell’esordio Lost è tutto un tripudio di carrozzelle disseminate in androni malmessi che ricordano l’inizio di Session 9 e foto di bimbi tumefatti da mandare in fregola preti sadici. Loro sono olandesi e si nascondono dietro foto sfocate sile primi In The Woods e sigle da codice fiscale: txt al basso, cxc alla batteria e l’eclettico mxm ad occuparsi di voce, chitarra e tastiere. Sul loro myspace han messo metà album, tre tracce più il naturalistico video di I beg thee not to spare me che raccontano di un depressive black metal con innesti doom sulla scia degli ottimi Austere ma con registrazione ignobile. Gli ingredienti sono gli stessi: chitarre zanzarose o languide a seconda dei momenti, urlacci da gemello deforme rinchiuso in cantina, tupa-tupa-tupa-tupa di batteria che pare provenire da una catacomba, su tutto un senso di malinconia avvolgente e contagioso, malinconia che diresti autentica. Poi dai uno sguardo ai titoli delle canzoni – To Set Sails to the Ends of the Earth, Tragedy Bleeds All Over the Lost, In Moonlight Blood is Black, financo Gaping Void of Silence e per chiudere addirittura Never Shall Be Again – e cominci a chiederti se ci sono o ci fanno. Nel dubbio, aspettiamo di vederli suonare come special guest alle Paralimpiadi.

Brown vs. Brown @ Spazio SI (Bologna, 21/4/2010)

Si conclude in tono dichiaratamente low-key la breve rassegna imbastita tra le artisticanti pareti del SI (normalmente è un teatrino) dalla neonata associazione Offset: dopo il delirio totale di Yoshida dei Ruins (preceduto dalle legnate in faccia dei Sabot), il forsennato, escheriano math core degli Ahleuchatistas (con dj Balli a destabilizzare in apertura) e le gag da Helzapoppin dei Vakki Plakkula, si tira (relativamente) il fiato con il jazz-core torbido, sinuoso e mentale dei Brown vs. Brown. Loro sono olandesi e per questo figli di un modo di vivere e intendere il jazz tra i più personali e radicali, una scuola immediatamente riconoscibile per quanto unisca sotto la stessa bandiera musicisti e compositori dalle più varie estrazioni e inclinazioni, da Ab Baars ad Han Bennink a Guus Janssen fino a quell’irrimediabile dissociato di Misha Mengelberg e verrebbe voglia di citarli tutti quanti, dal primo all’ultimo: non si può sbagliare. Di recente formazione (suonano insieme dal 2004), il quartetto anagraficamente attraversa tranquillo una generazione (il più anziano è nato nel 1962, il più giovane nel 1980), in comune hanno tutti una vita nomade trascorsa prevalentemente on the road; curiosando sul loro sito vengo a sapere che nel 2006 qualche pazzo li ha fatti suonare al Löwenhof, scrausissimo pub metal sepolto nella provincia più nera (capitato lì per puro caso, ci vidi una cover band dei Depeche Mode eoni fa), e mi mangio le mani per non esserci stato. Esteticamente sembrano un gruppo di impiegati di banca un po’ pazzerelloni, con il chitarrista Jeroen Kimman che sfoggia indomito una micidiale camicia fiorata da offesa alla dignità umana (soltanto in un secondo momento noterò la sua somiglianza impressionante con Daktari Lorenz, l’attore protagonista di “Nekromantik“), il batterista Gerri Jäger un paio di baffoni a manubrio da fare invidia al poliziotto dei Village People e il bassista Viljam Nybacka un berrettino da pittore paesaggista forse frocio, con il compassato sassofonista Dirk Bruinsma unico elemento rispettabile nella sua aria stralunata da professore completamente tra le nuvole. Volendo potrebbero tirare giù i muri, ma questa sera chissà come mai preferiscono dare spazio alla parte più riflessiva e meditabonda del loro repertorio, composta di brani lunghi e stratificati a base di temi atonali ricorrenti, con Bruinsma che di tanto in tanto sforma e plasma i lamenti del suo sax attraverso un Kaoss Pad rudimentale. L’effetto è ipnotico, lunare e sottilmente inquietante, come passare una serata alla Road House. La musica che sgorga è come un noir di Jim Thompson: obliqua, inquietante, decentrata. Solo verso la fine un crasso sussulto di jazzcore ignoranza (nel senso buono) con una legnata che non riconosco e, nei bis, la classica FFF introdotta da urlacci collettivi. Dj Balli suona solo un quarto d’ora. Alla prossima adunata.