Quando i Nirvana fecero il botto ci si ritrovò di fronte ad una massiva ed impietosa mercificazione del rock indipendente, che prese un numero sterminato di gruppi con una storia gloriosa ed impeccabile e li mise sotto contratto major senza preoccuparsi troppo delle conseguenze sui gruppi. La maggior parte di essi ne uscirono con le ossa rotte e il culo per terra, sull’orlo dello scioglimento, senza un soldo in banca e con la credibilità a pezzi. Fu un momento selvaggio e –visto in prospettiva- davvero molto triste. Non che fosse una cosa inedita, ma in quegli anni furono davvero in tanti a lasciarci le penne. A un certo punto le cose sono FINITE e il mercato è tornato ad essere quello che era prima.
Nel mondo discografico moderno le dinamiche somigliano un po’ a quelle del periodo, senza nemmeno dare più per scontato l’appoggio di una major: arriva un gruppo che ripesca calligraficamente un movimento musicale anni sessanta/settanta/ottanta, è composto da tre o quattro ragazzi carini, magri, newyorkesi e ben vestiti. Qualcuno decide che è la cosa più cool di sempre e ce li si ritrova con dei paginoni sull’NME prima che il gruppo sia riuscito a pubblicare un disco, con le case discografiche che iniziano a fare la fila e dichiarazioni roboanti che ti vogliono come la band più rumorosa del pop contemporaneo, o cose simili. Sotto il palco inizi a vederti spuntare duecento persone a data, tutte più o meno vestite come te –qualcuno anche peggio- e un esercito di indieblogger continua a scattare foto con reflex digitali a pieno formato sempre più numerose ed arroganti. Chi non c’è al primo passaggio del gruppo a Londra o Milano sembra aver perso una fetta di storia del rock. Poi il gruppo becca un contratto su qualche etichetta grossa grossa grossa (Mute, poniamo) e le aziende della moda coi soldi propongono servizi sui paginoni delle riviste al chitarrista. Nel frattempo il vento è girato, i cool-hunters vanno a caccia di qualche altro cool e al tuo secondo/terzo tour ti trovi davanti a un pubblico già esiguo, malvestito e tutto sommato privo d’interesse. A Place To Bury Strangers ha già compiuto il suo giro: Exploding Head ha rimediato in parte alle nefandezze alla Psychocandy dell’esordio, ma il pubblico del giovedì al Bronson conta sì e no una cinquantina di anime, la maggior parte delle quali sembrano capitate un po’ per caso un po’ per assistere ad un evento che non c’è più. Il set sembra concepito per un pubblico di duecento persone in più: fumo a nastro, luci spente sul palco –sostituite da un proiettore che spara dei visual di ballerine anni cinquanta addosso al gruppo- e volumi altissimi. Sembra una di quelle situazioni da film della domenica pomeriggio su Italia Uno, protagonista una cover band dei J&MC che cerca di tornare gloriosa senza più fanatici davanti a sé. Le storie sul genere gruppo più rumoroso della terra mi convincono a portare un paio di tappi per le orecchie, ma dopo il primo pezzo sono talmente preso male che li tolgo e vedo se la cosa migliora (spoiler: no, ma il giorno dopo le orecchie almeno fischiano). Suonano una manciata di canzoni, tutte identiche l’una all’altra, beccano qualche applauso e scendono dal palco senza bis. Sembra davvero abbastanza chiaro che la corsa di A Place To Bury Strangers sia arrivata alla sua fine, con il gruppo senza più polmoni e una piccola grande lezione sul pop contemporaneo. Viene un po’ di tristezza, davvero. Nel frattempo trovo un’applicazione che trucca le foto del cellulare come fossero vintage, il che aggiunge un po’ di sgomento al tutto.