CRASH OF RHINOS @ Circolo Valverde (Forlì, 19/11/2011)


Quello che guida lo conosco bene: siamo amici da circa vent’anni, praticamente siamo cresciuti insieme, ora non ci si vede più tanto spesso ma insieme ne abbiamo fatte tante e soprattutto ci si capisce ancora al volo, quasi senza bisogno di parlare. La migliore compagnia che potessi immaginare per un concerto come questo. Nell’autoradio una raccolta dei Face To Face, il sottofondo più appropriato per una gita fuori porta che ha il sapore cocente dell’amarcord, vedere scorrere giornate, mesi, anni ormai lontani, scanditi da una musica che contribuiva ad amplificare emozioni già in partenza devastanti: Quicksand, Jawbreaker, Still Life,  i misconosciuti Bad Trip che ho amato fino alla consunzione, poi certamente Texas Is The ReasonMineral, Sunny Day Real Estate, in Italia Eversor e Burning Defeat soprattutto, quel suono sempre in bilico tra emocore (quando ancora emocore era un termine legato quasi sempre a qualcosa di vivo e bruciante) indie rock (idem come sopra) ma pure hardcore e metal che è stato la colonna sonora della nostra educazione sentimentale e iniziazione alla vita. Un vissuto che, chissà come, i Crash Of Rhinos sono riusciti a reincarnare e rievocare alla perfezione, a dispetto di ogni possibile differenza geografica, anagrafica o di environment, del resto i temi e le sensazioni di cui si fanno portatori sono universali (perlomeno nella distanza tra le casse dello stereo e un cuore pronto a infiammarsi): essere adolescente negli anni novanta, la scoperta del mondo negli anni novanta. Anche la stagione è quella giusta, l’autunno dell’inizio dell’anno scolastico, dell’ora solare, degli affetti che cambiano, dove tutto trascolora e il freddo fa condensare il fiato, certo settembre sarebbe stato forse ancora meglio ma ora in compenso il gelo il buio e la nebbia favoriscono l’introspezione e il flusso di ricordi. Di nebbia stasera ce n’è pure troppa, la A14 sembra il ponte di un vascello fantasma, il casello di uscita il porto alla fine di una tempesta particolarmente arrogante. Per strada manco un cane, poche auto, ghiaccio sull’asfalto: è Forlì il sabato sera a novembre. Parcheggiamo di fronte a un minimarket sulla cui insegna (spenta) sta scritto “Simpatia” a caratteri rotondi e gommosi; le giacche le lasciamo nel bagagliaio, come facevamo da sbarbi, quando il freddo non ci faceva poi così paura (specie se a contrastarlo ci pensavano svariati litri di birra nello stomaco). Ad accoglierci al Valverde un tizio addetto al tesseramento con simpatici tatuaggi da ergastolano sul dorso della mano e Back In Black a volume moderato dal bancone del bar: splendido. È ancora presto; i ragazzi ci danno sotto con panini e birra ma io sono sulle spine, troppo emozionato al pensiero della mastodontica madeleine proustiana che sta per abbattersi su di me, e nemmeno ci penso a mandare giù qualcosa. Comincia ad arrivare gente. Arrivano altri vecchi amici con cui non capita spesso di incontrarci, da Ferrara, da Cesena, Renato addirittura da Brescia; siamo tutti qui per lo stesso motivo se vogliamo – ritornare indietro nel tempo – ognuno ha scelto la sua strada ma ogni volta che ci si rincontra non importa quanti anni sono passati, la certezza di rivedersi specchiati negli occhi dell’altro è la stessa di sempre, e le nostre strette di mano sembra vogliano esprimere orgoglio (d’altra parte, chissà). Inizia il concerto, la saletta al piano di sotto si riempie in fretta; tra il pubblico più vecchiacci che ragazzini, c’è perfino qualche ragazza, trascinata qui per chissà quale motivo, forse a tradimento. I Distanti sono il tempo che mi separa dai Crash of Rhinos: deve passare, e passa. Dal banchetto dei dischi direttamente sul palco i Crash of Rhinos, facce da working class dei bassi strati, magliette logore (a parte il mezzo cinese che è veramente sciccoso ed elegante), temibili ventri da birra o schiene piegate da programmatore rachitico, sembrano quelli che alle feste se ne stanno in disparte osservando le cose accadere. Due chitarre, due bassi, una batteria e quattro microfoni; sul corpo dello strumento uno dei bassisti (quello irsuto) ha attaccato un adesivo con scritto MINERAL, e già hai capito com’è la storia. Parte il primo pezzo ed è subito un tripudio di urla a tutta gola, le vene del collo prossime al collasso, un muro di elettricità innalzata come scudo contro l’immensa crudeltà del mondo. Avrei voluto pogare ma la letargia del pubblico forlivese non mi disturba poi più di tanto: tempo il secondo pezzo e divento uno zombie immobile io pure, travolto dal cortocircuito spaziotemporale accentuato dalle sfumature post-rock che i pezzi assumono dal vivo e che su disco non avevo colto. Ho di nuovo 16 anni, il tunnel di Underground come l’entrata di una chiesa, i cataloghi della Green Records mandati a memoria come fossero la Bibbia (e di sicuro mi hanno fatto meglio della Bibbia), le fanze lette in classe, le prime legnate ai concerti, i volantini in bianco e nero ancora puzzolenti di Rank Xerox, ingresso cinquemila lire, e fai girare ‘sto microfono, lunedì c’è la verifica di greco e non ho studiato un cazzo, meno male che settimana prossima vado a vedere i June of 44 al Link. E tutti intorno hanno la mia stessa età mentre in tre quarti d’ora i Crash of Rhinos srotolano tutto l’album più uno strumentale inedito che più che un pezzo è una sintesi di tutto ciò che musicalmente è accaduto tra il Midwest e il Kentucky in anni in cui eravamo più giovani ma manco per il cazzo più inesperti: è proprio vero che più le cose cambiano più restano le stesse. Non sempre la nostalgia è una brutta cosa. Non stasera, almeno.