STREAMO: PRO-PAIN – “Absolute Power” (AFM)

calci nei denti

 
I Pro-Pain sono un gruppo hardcore metal newyorkese sulla piazza da una ventina d’anni, nascono dalle ceneri dei thrashers di seconda fascia Crumbsuckers, hanno cambiato mille batteristi in puro Spinal Tap style e i loro dischi, rilasciati con commovente regolarità al ritmo di uno ogni sedici-diciotto mesi, da sempre, hanno una simpatica particolarità: sono tutti esattamente identici. Il loro sound asfittico e incazzatissimo è rimasto invariato nei secoli, così come la struttura dei loro pezzi: batteria pestona, basso in primo piano, chitarre ipersature e voce da cinghiale con le palle rimaste incastrate in una tagliola, strofa ritornello strofa ritornello assolo ignorante poi di nuovo ritornello e via andare, ed ecco pronto un altro album. I tempi passano, le mode cambiano ma i Pro-Pain sono sempre lì, con le loro zucche pelate a scintillare nel sole, le panze all’aria e i baffoni da motociclista del corpulento leader Gary Meskil temibilmente in prima linea; hanno visto nascere e morire infinite scene, infiniti trend, dall’industrial groove metal degli amici Prong al NYHC più malmostoso e bullistico, dal pessimo metalcore al ritorno di fiamma per il thrash metal, incidevano per Roadrunner quando Jamey Jasta probabilmente ancora le prendeva un giorno sì e l’altro pure dai teppistelli del quartiere, quando hanno cominciato Internet era roba da romanzo cyberpunk e i telefoni cellulari li usavano giusto i magnaccia. Probabilmente ci seppelliranno tutti. Di sicuro, ad ascoltare l’ennesimo ‘nuovo’ album di cui cambiano solamente copertina e titoli, il rischio concreto è piuttosto quello di morire di noia, di salire su una torre armati di carabina tipo Charles Whitman, in ogni caso di finire risucchiati in un inspiegabile gap temporale alla Twilight Zone in cui nulla cambia e tutto resta uguale, ed è sempre il 1992 e ci si nutre esclusivamente di Big Mac e l’unica lettura contemplata e ammessa sono i fumetti di Capitan America. Cose del genere. D’altro canto, il fatto che i Pro-Pain continuino ad esistere è in una certa maniera confortante; mi fa pensare a quel romanzo di Jonathan Carroll in cui gli animali sono i guardiani del mondo e i depositari della saggezza, e ci proteggono e vegliano su di noi affinchè non facciamo più cazzate del necessario. Ecco, anche se i loro dischi continuano a farmi schifo, per me i Pro-Pain sono questo.
Il nuovo arrivato si chiama Absolute Power e – l’avresti mai detto? – è esattamente identico a tutti gli altri; solo che qui c’è un featuring di Schmier dei Destruction (brrr…), e un pezzo che si intitola I Apologize (grazie a Dio non ha niente a che vedere con gli Husker Du) che probabilmente è il meno peggio di tutti. Fino alla prossima,

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Fu Manchu @ Ravenna, Bronson, 12/02/2010

Se guardi le foto dei Fu Manchu che giravano nella seconda metà degli anni novanta, Scott Hill era vestito esattamente allo stesso modo. Maglietta bianca a righe orizzontali, jeans neri che arrivano sì e no alle caviglie, vans nere su calzino bianco, capello biondo lunghissimo perennemente sugli occhi e una barbetta ispida da tredicenne che spunta da sotto il mento -roba che se se non avesse la chitarra di plasticone trasparente alla Dave Grohl potrebbe fare il colloquio per diventar pastore di una comunità Amish poco fuori da Vaccaroville, Iowa. Passa il tempo e loro se ne stanno lì, immobili a testa bassa a suonare il loro genere musicale sera dopo sera. Il loro genere musicale, in tempi non sospetti, è stato preso in blocco ed etichettato più o meno a caso (e più o meno con cognizione di causa) come “stoner rock”. Cinque anni dopo produceva senso ex-post ai gruppi che lo suonavano, mummificandosi in una specie di museo delle cere autoimposto che ha generato una fuga di massa e la nascita di vere e proprie schegge impazzite del rock (discorso lungo e contorto, e mi si stanno scuocendo i fusilli). Naturalmente oggi come oggi non ha più senso di parlare di stoner rock, e probabilmente non ha più senso parlare di “rock” in toto e magari manco di musica suonata, se non in un’ottica revivalistica. Il punto è che in anni di frequentazioni extragenere, tutto sommato venute fuori in un contesto parallelo ma contemporaneo a quelle di cui stiamo parlando, abbiamo aumentato il nostro bagaglio di conoscenze extragenere da primi della classe (sai, io sono uno eclettico), e portarselo in giro sta diventando davvero piuttosto fastidioso e ingombrante. Come la storia dello zainetto di George Clooney in Up In The Air.

Stasera apre un gruppo locale che si chiama Herba Mate -naturalmente suona stoner rock, di quello compatto e tiratissimo. Dura un tre quarti d’ora e la gente si diverte di brutto. Poi salgono sul palco i Fu Manchu. In sei secondi netti inizio a fare la conta di quello che NON serve alla musica che ascolto: rap, elettronica, tastiere, spine staccate, voci femminili, inserti gotici, drones, concetti, copertine fighe, doppia batteria, introspezione, baffoni, inserti wave, casse dritte, glitch, folletti, momenti surf, ballad, pezzi apocalittici di ventun minuti, shoegaze, shitgaze, harsh noise, camicie a quadretti attillate, gilet, frangette. I Fu Manchu suonano il set della vita, cioè quello che suonano ogni sera: due chitarre, un basso, una batteria, voce che dir monotona è poco, pezzi che si chiamano tutti Hell On Wheels o King Of The Road o simili, quasi nessun pedale. Suono monotono, precisissimo, tirato oltre ogni limite.

A pensarci bene, tra l’altro, la musica che fanno è difficilmente etichettabile come “stoner”: ha sicuramente qualcosa di rock anni settanta, ma non sono convinto che un gruppo come loro sarebbe potuto esistere prima dell’83 -e a titolo diverso dai Soundgarden di Ultramega OK, tanto per dire. Più corretto sarebbe parlare dei Black Flag evoluti, di primo grunge, COC, Flipper, Suicidal Tendencies e un’altra quarantina di gruppi che -giocoforza- sto tirando fuori dalla naftalina e ricominciando ad ascoltare: punk scranno tirato con le chitarre dei Black Sabbath e meno pretese possibili. Pochissime le variazioni sul tema, e c’è da dire che la gente non ne vuole manco mezza: stagediving, pogo selvaggio, sorrisi a settantuno denti, gente che s’abbraccia a caso in mezzo al posto. Pochissimo primo pelo: ti aggiri per il locale e ti imbatti in personaggi bizzarri di quarant’anni che fanno, o potrebbero fare, gli impiegati in banca. Musica vera. Chiudono con una brutale Evil Eye, vengono richiamati a gran voce e per il bis regalano la “solita” impedibile cover di Godzilla che pone fine all’attività delle orecchie e ci manda tutti a casa. Non sembrano ben coscienti del fatto che il loro suono ti impone di tornare a casa e dare fuoco a metà dei dischi che possiedi: saltano e ballano, danno l’idea di divertirsi come dei liceali e quando è ora di finirla se ne escono alla chetichella, verso la prossima città, nella quale suoneranno più o meno la stessa roba di sempre a volumi indegni, come se niente fosse, come è giusto che sia. CONCERTONE.