Ho accettato da diverso tempo l’idea di essere un egoista e un cinico bastardo. La maggior parte della gente che conosco ha un rapporto di cortesia e amicizia con gli autori dei dischi che ascolta o dei libri che legge; si dispiace delle loro miserie, li considera amici per la pelle sulla base di certe cose che hanno scritto, magari cerca di conoscerli quando va a vederli dal vivo. È statisticamente innegabile che moltissima della miglior musica nasca da situazioni di sofferenza, disagio, abbandono, psicosi, povertà, tristezza, alcolismo, tossicodipendenze e generale negatività: genera empatia. Col cattivo karma dei musicisti mi ci sono foderato la casa, ancora oggi continuo a cercare storie brutte di umanità dissipata nel tentativo di ottenere in cambio qualcosa che mi scuota in modo brutale. Allo stesso modo posso sentirmi istintivamente felice del fatto che tale musicista si sia arricchito e abbia smesso di soffrire, e forse c’è una componente di cortesia interessata, legata alla mia gratitudine per la musica che mi ha dato in passato, che mi fa sentire in obbligo di soppesare i piccoli pregi di un disco che non mi colpisce allo stomaco. Ma parlando sempre su base statistica, la pacificazione e l’arricchimento emotivo e il miglioramento generale della condizione umana producono dischi che non valgono manco la metà dei dischi composti in fasi critiche dell’esistenza. Parlando di musica popolare è una regola quasi infallibile.
Non pretendo che questa cosa sia vera per tutti gli ascoltatori, sia chiaro. È un lato del mio carattere che trovo disgustoso, ma almeno ne sono cosciente. Credo ci sia un informale contratto tra me e i gruppi che ascolto, secondo il quale il gruppo mi dà musica da amare e io lo ripago con i miei soldi e la mia eventuale devozione. Ero sinceramente desolato che Trent Reznor fosse in preda ad una grossa depressione quando ha realizzato cose tipo The Downward Spiral e The Fragile, e se fosse dipeso da me avrei preferito continuare ad essere triste e desolato e non ascoltare With Teeth.
Magari il patrigno di Eddie Vedder era la peggior persona al mondo, o magari era una brava persona che lavorava tutto il giorno e aveva pagato l’istruzione di un figlio non suo perché amava la madre. Magari la sera si metteva in pantofole davanti alla TV e il baccano che faceva il figlioccio con tutti quei dischi degli Who lo mandava via di testa. E lui se ne usciva di casa fino a tardi e tornava ubriaco, mal di testa la mattina dopo. I drammi familiari sono storie lunghe trent’anni in cui ogni discorso conta. Quando dal vivo Ed Vedder attacca l’arpeggio di Better Man, cinquantamila persone urlano e cantano il pezzo così forte che lui non ha più bisogno manco di bofonchiare una parola ogni tanto. La canzone parla del patrigno e della madre e contiene parole che, se fossero dedicate a me, forse mi sarei ucciso. Eddie Vedder la scrisse in cameretta da ragazzo, probabilmente dopo una litigata. Il contratto di cui sopra, quello che ci incita a trarre il massimo dalla sofferenza dei nostri eroi, ci impone anche di fidarci di quel che scrivono. Magari perfino di identificarci con loro e falsare i cardini della nostra esistenza.
Non posso dire di avere una vera e propria issue con mio padre. Intanto mio padre è il mio vero padre, l’ho conosciuto ed è rimasto in casa. Non è che è venuta mia mamma a tredici anni a dire che in realtà il mio padre vero stava morendo o qualcosa di simile. Ha avuto la sua vita, noi abbiamo avuto la nostra; il clima in casa era abbastanza velenoso, ma era più una cosa di strascichi lunghi decenni. Non ha mai pestato nessuno, non l’ho mai visto tornare a casa ubriaco. Ho pensato un sacco di volte di odiare i miei genitori, di odiarli anche profondamente, ma erano stronzate. Penso che la musica e i film abbiano fatto la loro parte: conosco un sacco di termini che si usano per tratteggiare i drammoni con cui mi sono tappezzato la cameretta nell’adolescenza. Baby boomers, famiglie disfunzionali, eccetera. Le storie americane hanno spesso a che fare con l’idea del self-made man: l’eroe nasce nella povertà e nel rigetto ed emerge in un mondo di pari grazie al proprio talento. Quello che succede dopo non esce mai allo scoperto.
I nostri genitori hanno colpe diverse: ci hanno imbrogliato. Ci hanno drogato fin da piccoli con una favola secondo cui s’erano rotti il culo per darci in mano un mondo migliore. Hanno fatto i soldi quando era possibile farli, hanno costruito la loro casa e quella dei loro figli. Evadevano il fisco, occupavano cattedre inventate ad hoc, mungevano soldi pubblici, inquinavano l’ambiente, ci regalavano uno stereo da due milioni e mezzo e si lamentavano del nostro essere fannulloni coi loro amichetti. Si sono spaccati il culo per darci un mondo di case tutte uguali, programmi TV merdosi, campionati di calcio in cui metà delle squadre sono sull’orlo del fallimento, romanzi tristi, partiti politici inesistenti, autoironia, internet, collusione e buon gusto. Non l’abbiamo mai sospettato, in fin dei conti: pensavamo semplicemente di essere troppo complessi per quel mondo, troppo bisognosi di esprimerci in cazzatine marginali tipo arte, sport o scienze sociali. Che i loro problemi non ci riguardassero e che i nostri non riguardassero loro. Poi abbiamo scoperto che di diventare adulti lo si fa per inerzia; che loro erano gli stessi debosciati che eravamo noi, che i loro padri li avevano infarciti delle stesse cazzate, che tutto sommato erano in buona fede e che prima o poi avremmo trovato una nostra via al tutto.
È difficile pensare a qualcosa di più americano dei Pearl Jam: una storia di autoaffermazione di quelle old school, il nordovest degli Stati Uniti, le famiglie disfunzionali, i capelli lunghi, i baby boomers, la musica da bovari, il successo improvviso, cercare un modo di esistere all’interno di quel mondo. Per chi li caga di striscio i Pearl Jam sono espressione del più rancido e muffoso concetto di cock-rock in circolazione; per i fanatici i Pearl Jam sono una delle massime espressioni della libertà artistica e del non-allineamento in musica. Entrambe le visioni hanno qualcosa di giusto, ed entrambe sono perlopiù sbagliate.
Ed stava provando a smontare la nostra formula sin dall’inizio; ha capito subito che diventare ancora più grossi non ci avrebbe necessariamente resi più felici. La canzone, che tu pensavi sarebbe stata veramente grande per il disco, non sarebbe necessariamente stata quella che lui preferiva. Sarebbe stato qualche riff di terza mano o una canzone sciocca: all’improvviso quella sarebbe stata la canzone su cui lui voleva lavorare. Guardandomi indietro ora, posso apprezzarlo. Sono venuto in questo gruppo scrivendo la maggioranza delle canzoni, ed avendo il controllo musicale. Ma se avessi auto il comando per tutto il tempo, a quest’ora il mio stile sarebbe diventato noioso.
(Stone Gossard)
Si è soliti considerare Vitalogy il primo disco della seconda incarnazione dei Pearl Jam, quelli meno allineati con il loro ruolo. Suona ridondante dirlo ora, ma nella provincia romagnola questa cosa non si vedeva. Le persone che si passavano il CD di Vitalogy erano più o meno le stesse che trafficavano con la cassetta di Vs; Vitalogy è un disco tipicamente Pearl Jam, consta di pezzi duri e ballate, tutto molto anni settanta. Ha un suono più secco, è vero, ma tutto sommato non così distante da quello del disco precedente. Quello che è cambiato, in Vitalogy, è il peso dei singoli membri all’interno del gruppo. Eddie Vedder arriva alla realizzazione di Vs in uno stato di pesante disagio; in parte autoinflitto, in parte frutto di scazzi mai sistemati con il fatto di essere diventato suo malgrado una sorta di pensatore della sua epoca. Dentro a Vs doveva finire Better Man, la ballata scritta da Vedder pensando al padrino; il gruppo la prova nelle session iniziali, Brendan O’Brien si esalta e dice che sarà una hit. Il gruppo reagisce togliendola dal programma, minacciandola di regalarla in beneficienza e cose simili. Brendan O’Brien si mette di traverso, sabota le registrazioni e fa sì che venga rimessa in un cassetto.
Non era il momento. Vs, fin dalla foto di copertina, è la testimonianza di un gruppo che racconta di essere intrappolato in un meccanismo troppo grande che lo porterà alla distruzione. Vitalogy è il primo disco in cui il gruppo, per la prima volta, reagisce attivamente per cercare di trovare un proprio modo di esistere. Paradossalmente, il gruppo che lo realizza è sull’orlo dello scioglimento: il batterista verrà fatto fuori alla fine delle session, uno dei due chitarristi è in una brutta fase di tossicodipendenza, l’altro sta perdendo il controllo artistico ed è critico nei confronti di quello che la musica sta divenendo. La comunicazione è ridotta al minimo ed orchestrata più o meno artificialmente dal produttore.
Non è infrequente che un bel disco nasca da una situazione di scazzo totale tra i membri del gruppo. Non so dire perché succeda, del resto non so niente di come si realizza un disco; probabilmente in uno stato di compromesso sistematico le singole personalità vengono sacrificate alla realizzazione di un risultato finale qualsiasi. Better Man torna fuori dal cassetto e diventa uno degli apici di Vitalogy. Incidentalmente, è il disco in cui Vedder inizia a prendere il comando. E anche l’ultimo in cui i testi sono così autobiografici. Come primo singolo viene scelta la canzone più violenta e inaccessibile mai registrata dal gruppo (Spin the Black Circle). Niente videoclip. Il disco esce in vinile due settimane prima del CD, e anche il CD avrà un packaging extralusso (un libro vero e proprio con copertina rigida). Il gruppo è già impegnato nella contesa con Ticketmaster. A leggerle con gli occhi dell’epoca sono piccole mosse di auto-sabotaggio, regali alla base hardcore del gruppo o piccoli vezzi intellettuali. Oggi suonano più come le avvisaglie di un bisogno di autodeterminazione a cui il gruppo ha sacrificato se stesso, buona parte del suo successo potenziale e un sacco di bile. Ci arriveranno un sacco di anni dopo. Il disco successivo, quasi altrettanto bello, verrà realizzato nelle stesse condizioni; quello dopo ancora, appena appena inferiore, inizia a dialogare col mondo. Poi il gruppo troverà un batterista in via definitiva, farà pace con se stesso e inizierà a realizzare dischi tra il carino il medio e l’orribile, sull’onda dei quali continuerà a perpetuare la propria esistenza. Un terzo della loro fanbase è composto ancor oggi da gente con i capelli lunghi, la maglietta nera, il pupazzetto di Alive stampato davanti e le date del tour del ’96 stampate dietro.
Nel 1994 Eddie Vedder sposa la sua morosina del liceo. Divorzieranno qualche anno dopo, lui si metterà con una modella. I drammi familiari sono storie lunghe trent’anni in cui ogni discorso conta. Ogni sera i Pearl Jam cambiano radicalmente la scaletta del concerto, e forse amano ancora la loro musica al di là di tutti i soldi e il prestigio che ha dato loro. Better Man continua ad essere la loro miglior cosa, e il miglior modo per spiegarli agli ascoltatori di passaggio. Vitalogy ha compiuto vent’anni questo sabato: non fosse un disco così bello e sofferente, tutto il desiderio di autodeterminazione della band ci avrebbe portato solo a sbadigliare. Riascoltarlo oggi, in ogni caso, fa ancora un po’ di paura. Una delle ragioni principali è che alla fine ci è toccato diventare i nostri genitori, o stiamo cercando disperatamente di non diventarlo; combattiamo la crisi, teniamo a bada la linea e compriamo camicie all’oviesse per non sembrar pulciari ai colloqui di lavoro. Ascoltiamo dieci album nuovi a settimana, scarichiamo serie TV a nastro e scriviamo pezzi sul ventennale dei nostri dischi preferiti. Di tanto in tanto facciamo bisboccia, torniamo a casa mezzi ubriachi alle quattro del mattino e nostra moglie fa finta di dormire.
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due note:
1 il pezzo tralascia volutamente molti aspetti biografici, per via del fatto che i Pearl Jam sono il gruppo più raccontato tra tutti quelli che conosco. Se volete una bella carrellata sui primi dieci anni del gruppo vi consiglio questo articolo di Spin tradotto in italia da Pearl Jam Online.
2 i video inclusi nel pezzo (che fanno parte delle sterminate testimonianze ufficiali dei concerti del gruppo) stanno a ribadire il fatto che qualsiasi versione live di pezzi dei Pearl Jam è molto meglio degli stessi pezzi registrati nei dischi da studio.