Vitalogy

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Ho accettato da diverso tempo l’idea di essere un egoista e un cinico bastardo. La maggior parte della gente che conosco ha un rapporto di cortesia e amicizia con gli autori dei dischi che ascolta o dei libri che legge; si dispiace delle loro miserie, li considera amici per la pelle sulla base di certe cose che hanno scritto, magari cerca di conoscerli quando va a vederli dal vivo. È statisticamente innegabile che moltissima della miglior musica nasca da situazioni di sofferenza, disagio, abbandono, psicosi, povertà, tristezza, alcolismo, tossicodipendenze e generale negatività: genera empatia. Col cattivo karma dei musicisti mi ci sono foderato la casa, ancora oggi continuo a cercare storie brutte di umanità dissipata nel tentativo di ottenere in cambio qualcosa che mi scuota in modo brutale. Allo stesso modo posso sentirmi istintivamente felice del fatto che tale musicista si sia arricchito e abbia smesso di soffrire, e forse c’è una componente di cortesia interessata, legata alla mia gratitudine per la musica che mi ha dato in passato, che mi fa sentire in obbligo di soppesare i piccoli pregi di un disco che non mi colpisce allo stomaco. Ma parlando sempre su base statistica, la pacificazione e l’arricchimento emotivo e il miglioramento generale della condizione umana producono dischi che non valgono manco la metà dei dischi composti in fasi critiche dell’esistenza. Parlando di musica popolare è una regola quasi infallibile.

Non pretendo che questa cosa sia vera per tutti gli ascoltatori, sia chiaro. È un lato del mio carattere che trovo disgustoso, ma almeno ne sono cosciente. Credo ci sia un informale contratto tra me e i gruppi che ascolto, secondo il quale il gruppo mi dà musica da amare e io lo ripago con i miei soldi e la mia eventuale devozione. Ero sinceramente desolato che Trent Reznor fosse in preda ad una grossa depressione quando ha realizzato cose tipo The Downward Spiral e The Fragile, e se fosse dipeso da me avrei preferito continuare ad essere triste e desolato e non ascoltare With Teeth.

Magari il patrigno di Eddie Vedder era la peggior persona al mondo, o magari era una brava persona che lavorava tutto il giorno e aveva pagato l’istruzione di un figlio non suo perché amava la madre. Magari la sera si metteva in pantofole davanti alla TV e il baccano che faceva il figlioccio con tutti quei dischi degli Who lo mandava via di testa. E lui se ne usciva di casa fino a tardi e tornava ubriaco, mal di testa la mattina dopo. I drammi familiari sono storie lunghe trent’anni in cui ogni discorso conta. Quando dal vivo Ed Vedder attacca l’arpeggio di Better Man, cinquantamila persone urlano e cantano il pezzo così forte che lui non ha più bisogno manco di bofonchiare una parola ogni tanto. La canzone parla del patrigno e della madre e contiene parole che, se fossero dedicate a me, forse mi sarei ucciso. Eddie Vedder la scrisse in cameretta da ragazzo, probabilmente dopo una litigata. Il contratto di cui sopra, quello che ci incita a trarre il massimo dalla sofferenza dei nostri eroi, ci impone anche di fidarci di quel che scrivono. Magari perfino di identificarci con loro e falsare i cardini della nostra esistenza.

Non posso dire di avere una vera e propria issue con mio padre. Intanto mio padre è il mio vero padre, l’ho conosciuto ed è rimasto in casa. Non è che è venuta mia mamma a tredici anni a dire che in realtà il mio padre vero stava morendo o qualcosa di simile. Ha avuto la sua vita, noi abbiamo avuto la nostra; il clima in casa era abbastanza velenoso, ma era più una cosa di strascichi lunghi decenni. Non ha mai pestato nessuno, non l’ho mai visto tornare a casa ubriaco. Ho pensato un sacco di volte di odiare i miei genitori, di odiarli anche profondamente, ma erano stronzate. Penso che la musica e i film abbiano fatto la loro parte: conosco un sacco di termini che si usano per tratteggiare i drammoni con cui mi sono tappezzato la cameretta nell’adolescenza. Baby boomers, famiglie disfunzionali, eccetera. Le storie americane hanno spesso a che fare con l’idea del self-made man: l’eroe nasce nella povertà e nel rigetto ed emerge in un mondo di pari grazie al proprio talento. Quello che succede dopo non esce mai allo scoperto.

I nostri genitori hanno colpe diverse: ci hanno imbrogliato. Ci hanno drogato fin da piccoli con una favola secondo cui s’erano rotti il culo per darci in mano un mondo migliore. Hanno fatto i soldi quando era possibile farli, hanno costruito la loro casa e quella dei loro figli. Evadevano il fisco, occupavano cattedre inventate ad hoc, mungevano soldi pubblici, inquinavano l’ambiente, ci regalavano uno stereo da due milioni e mezzo e si lamentavano del nostro essere fannulloni coi loro amichetti. Si sono spaccati il culo per darci un mondo di case tutte uguali, programmi TV merdosi, campionati di calcio in cui metà delle squadre sono sull’orlo del fallimento, romanzi tristi, partiti politici inesistenti, autoironia, internet, collusione e buon gusto. Non l’abbiamo mai sospettato, in fin dei conti: pensavamo semplicemente di essere troppo complessi per quel mondo, troppo bisognosi di esprimerci in cazzatine marginali tipo arte, sport o scienze sociali. Che i loro problemi non ci riguardassero e che i nostri non riguardassero loro. Poi abbiamo scoperto che di diventare adulti lo si fa per inerzia; che loro erano gli stessi debosciati che eravamo noi, che i loro padri li avevano infarciti delle stesse cazzate, che tutto sommato erano in buona fede e che prima o poi avremmo trovato una nostra via al tutto.

È difficile pensare a qualcosa di più americano dei Pearl Jam: una storia di autoaffermazione di quelle old school, il nordovest degli Stati Uniti, le famiglie disfunzionali, i capelli lunghi, i baby boomers, la musica da bovari, il successo improvviso, cercare un modo di esistere all’interno di quel mondo. Per chi li caga di striscio i Pearl Jam sono espressione del più rancido e muffoso concetto di cock-rock in circolazione; per i fanatici i Pearl Jam sono una delle massime espressioni della libertà artistica e del non-allineamento in musica. Entrambe le visioni hanno qualcosa di giusto, ed entrambe sono perlopiù sbagliate.

Ed stava provando a smontare la nostra formula sin dall’inizio; ha capito subito che diventare ancora più grossi non ci avrebbe necessariamente resi più felici. La canzone, che tu pensavi sarebbe stata veramente grande per il disco, non sarebbe necessariamente stata quella che lui preferiva. Sarebbe stato qualche riff di terza mano o una canzone sciocca: all’improvviso quella sarebbe stata la canzone su cui lui voleva lavorare. Guardandomi indietro ora, posso apprezzarlo. Sono venuto in questo gruppo scrivendo la maggioranza delle canzoni, ed avendo il controllo musicale. Ma se avessi auto il comando per tutto il tempo, a quest’ora il mio stile sarebbe diventato noioso.
(Stone Gossard)

Si è soliti considerare Vitalogy il primo disco della seconda incarnazione dei Pearl Jam, quelli meno allineati con il loro ruolo. Suona ridondante dirlo ora, ma nella provincia romagnola questa cosa non si vedeva. Le persone che si passavano il CD di Vitalogy erano più o meno le stesse che trafficavano con la cassetta di Vs; Vitalogy è un disco tipicamente Pearl Jam, consta di pezzi duri e ballate, tutto molto anni settanta. Ha un suono più secco, è vero, ma tutto sommato non così distante da quello del disco precedente. Quello che è cambiato, in Vitalogy, è il peso dei singoli membri all’interno del gruppo. Eddie Vedder arriva alla realizzazione di Vs in uno stato di pesante disagio; in parte autoinflitto, in parte frutto di scazzi mai sistemati con il fatto di essere diventato suo malgrado una sorta di pensatore della sua epoca. Dentro a Vs doveva finire Better Man, la ballata scritta da Vedder pensando al padrino; il gruppo la prova nelle session iniziali, Brendan O’Brien si esalta e dice che sarà una hit. Il gruppo reagisce togliendola dal programma, minacciandola di regalarla in beneficienza e cose simili. Brendan O’Brien si mette di traverso, sabota le registrazioni e fa sì che venga rimessa in un cassetto.

Non era il momento. Vs, fin dalla foto di copertina, è la testimonianza di un gruppo che racconta di essere intrappolato in un meccanismo troppo grande che lo porterà alla distruzione. Vitalogy è il primo disco in cui il gruppo, per la prima volta, reagisce attivamente per cercare di trovare un proprio modo di esistere. Paradossalmente, il gruppo che lo realizza è sull’orlo dello scioglimento: il batterista verrà fatto fuori alla fine delle session, uno dei due chitarristi è in una brutta fase di tossicodipendenza, l’altro sta perdendo il controllo artistico ed è critico nei confronti di quello che la musica sta divenendo. La comunicazione è ridotta al minimo ed orchestrata più o meno artificialmente dal produttore.

Non è infrequente che un bel disco nasca da una situazione di scazzo totale tra i membri del gruppo. Non so dire perché succeda, del resto non so niente di come si realizza un disco; probabilmente in uno stato di compromesso sistematico le singole personalità vengono sacrificate alla realizzazione di un risultato finale qualsiasi. Better Man torna fuori dal cassetto e diventa uno degli apici di Vitalogy. Incidentalmente, è il disco in cui Vedder inizia a prendere il comando. E anche l’ultimo in cui i testi sono così autobiografici. Come primo singolo viene scelta la canzone più violenta e inaccessibile mai registrata dal gruppo (Spin the Black Circle). Niente videoclip. Il disco esce in vinile due settimane prima del CD, e anche il CD avrà un packaging extralusso (un libro vero e proprio con copertina rigida). Il gruppo è già impegnato nella contesa con Ticketmaster. A leggerle con gli occhi dell’epoca sono piccole mosse di auto-sabotaggio, regali alla base hardcore del gruppo o piccoli vezzi intellettuali. Oggi suonano più come le avvisaglie di un bisogno di autodeterminazione a cui il gruppo ha sacrificato se stesso, buona parte del suo successo potenziale e un sacco di bile. Ci arriveranno un sacco di anni dopo. Il disco successivo, quasi altrettanto bello, verrà realizzato nelle stesse condizioni; quello dopo ancora, appena appena inferiore, inizia a dialogare col mondo. Poi il gruppo troverà un batterista in via definitiva, farà pace con se stesso e inizierà a realizzare dischi tra il carino il medio e l’orribile, sull’onda dei quali continuerà a perpetuare la propria esistenza. Un terzo della loro fanbase è composto ancor oggi da gente con i capelli lunghi, la maglietta nera, il pupazzetto di Alive stampato davanti e le date del tour del ’96 stampate dietro.

Nel 1994 Eddie Vedder sposa la sua morosina del liceo. Divorzieranno qualche anno dopo, lui si metterà con una modella. I drammi familiari sono storie lunghe trent’anni in cui ogni discorso conta. Ogni sera i Pearl Jam cambiano radicalmente la scaletta del concerto, e forse amano ancora la loro musica al di là di tutti i soldi e il prestigio che ha dato loro. Better Man continua ad essere la loro miglior cosa, e il miglior modo per spiegarli agli ascoltatori di passaggio. Vitalogy ha compiuto vent’anni questo sabato: non fosse un disco così bello e sofferente, tutto il desiderio di autodeterminazione della band ci avrebbe portato solo a sbadigliare. Riascoltarlo oggi, in ogni caso, fa ancora un po’ di paura. Una delle ragioni principali è che alla fine ci è toccato diventare i nostri genitori, o stiamo cercando disperatamente di non diventarlo; combattiamo la crisi, teniamo a bada la linea e compriamo camicie all’oviesse per non sembrar pulciari ai colloqui di lavoro. Ascoltiamo dieci album nuovi a settimana, scarichiamo serie TV a nastro e scriviamo pezzi sul ventennale dei nostri dischi preferiti. Di tanto in tanto facciamo bisboccia, torniamo a casa mezzi ubriachi alle quattro del mattino e nostra moglie fa finta di dormire.

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due note:

1 il pezzo tralascia volutamente molti aspetti biografici, per via del fatto che i Pearl Jam sono il gruppo più raccontato tra tutti quelli che conosco. Se volete una bella carrellata sui primi dieci anni del gruppo vi consiglio questo articolo di Spin tradotto in italia da Pearl Jam Online. 

2 i video inclusi nel pezzo (che fanno parte delle sterminate testimonianze ufficiali dei concerti del gruppo) stanno a ribadire il fatto che qualsiasi versione live di pezzi dei Pearl Jam è molto meglio degli stessi pezzi registrati nei dischi da studio.

tema: HO SOGNATO UNA ROCKSTAR. svolgimento:

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di Massimo Fiorio
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(clicca per la fonte)
(clicca per la fonte)

Ho scoperto una cosa bellissima: se ceno mangiando schifezze faccio incubi incredibili. Più schifezze obese ingurgito, più tali incubi risultano essere grotteschi, spaventosi, divertenti. So per certo che, mangiando un kebab all-inclusive dopo le 22, mi sveglierò sudato, spaventato, stremato e felice attorno alle 4, per poi riaddormentarmi un secondo dopo nella speranza di riprendere da dove ho interrotto.

Una volta non era così. Una volta potevo mangiare un labrador senza alcun contorno di sogni spettacolari. Preferisco la situazione attuale.

La cena che ha preceduto il sogno che sto per raccontarvi s’è svolta al Mom (un posto che non frequentavo dal 2006, ovvero dalle serate milanesi durante la registrazione del primo disco dei Canadians): un bloody mary, qualche pizzetta e poco altro. E infatti non ho visto mostri giganteschi durante il sonno e non mi sono gettato dal tetto di un palazzo (una cosa che faccio molto spesso, nei sogni). Che peccato.

 

Iniziamo.

Svolgimento:

 

Vi racconto il sogno di stanotte.

Tutti a San Siro per il concerto dei Pearl Jam.

La location però non è esattamente San Siro, o forse è una parte di San Siro, probabilmente gli spogliatoi.

Spogliatoi giganteschi, grandi quasi come il Forum di Assago. Infatti sembra di essere al Forum.

Ma sembra anche una palestra del liceo, col palco in un angolo, alto mezzo metro, non di più.

I Pearl Jam stanno salendo, io e un gruppo di amici entriamo all’ultimo secondo, da una porticina vicina al retropalco.

C’è agitazione nell’aria, non capisco perché.

Poi vedo che alcuni miei amici iniziano ad uscire.

I Pearl Jam intanto iniziano.

State of Love and Trust.

La felicità.

Altri due miei amici escono.

Non capisco cosa stia succedendo.

Dopo un po’ mi arriva un sms (neanche un messaggio su whatsapp: un sms!).

“Eddie Vedder ha avuto un piccolo ictus”.

Finita la prima canzone, i PJ abbandonano il palco.

La gente non capisce. Io ancora meno.

Dopo un po’ si accendono le luci e il pubblico viene avvisato della sospensione del concerto.

Il tutto è rimandato al giorno dopo. Sempre a San Siro, che è un po’ il forum di Assago.

Mi prendo male. Continuo a non capire (nei sogni sono più stupido che nella vita vera. Anche tu, vero? E sbaglio sempre a digitare i numeri di telefono. Se provo a correre, vado lentissimo. Insomma, sono il tipico concentrato di cliché onirici).

Se ne vanno tutti, tranne il sottoscritto e una ventina di persone.

Ci sediamo per terra, appoggiati a una parete. Dopo dieci minuti arriva Eddie Vedder.

Si siede con noi, ci spiega che, a causa di un forte mal di testa, ha preferito sospendere il concerto.

Mi sconvolge: Eddie Vedder è lì in mezzo a noi, seduto tra questi venti stronzi che avrebbero voluto assistere al concerto. E io continuo a pensare che allora è vero, questi miei eroi che seguo e ascolto/vedo da mille anni, sono davvero miei amici!

Vi capita mai di pensare che quel determinato personaggio famoso, che ovviamente e giustamente ignora la vostra esistenza, sia vostro amico?

A me capita con il cast di Friends, con Eddie Vedder, con qualcuno del cast di Lost (Hugo, Jack, Vincent, etc), con tanti altri.

E mica nei sogni: nella vita vera.

Sì, io sono amico di Eddie Vedder.

Comunque.

Eddie ci tranquillizza, ci dice che il giorno dopo recupereremo tutto.

Qualcuno fa notare che gli 80mila biglietti per il giorno dopo son già stati venduti, dove si metteranno gli 80mila di stasera?

Ci stringeremo

Eddie si alza per andarsene. Ci alziamo tutti e io vorrei che qualcuno mi facesse una foto assieme a lui ma improvvisamente il mio telefono si trasforma in una cosa gigantesca, tipo una palla da basket elettronica, con pulsanti ovunque, impossibile da tenere in mano. Ok, niente foto.

Tristeza.

La sera dopo arriva subito, come se fossero passati 2 minuti.

Siamo tantissimi.

Strettissimi, ma ci diciamo che non può succedere nulla di male.

Parte la prima canzone ed è subito l’apocalisse. Veniamo sbattuti ovunque. La sensazione è spaventosa e divertente: voliamo come in un tornado.

La sensazione è la stessa dell’andare sullo Space Vertigo a Gardaland, quando ti mollano nel vuoto.

Finita la canzone ci si rende conto che siamo in troppi, tutti lì davanti, quindi qualcuno si sposta indietro e la situazione migliora parecchio, però i Pearl Jam sono spaventati che possa succedere qualcosa di brutto (dall’alto della loro esperienza in materia) e sospendono ancora il concerto.

Dopo due ore viene annunciata la cancellazione.

Riesco solo a bestemmiare.

 

Subito dopo m’è suonata la sveglia.

(C’ho un po’ d’agitazione per sti concerti dei Pearl Jam, si nota?

Per il concerto a San Siro ho un biglietto di tribuna.

A Trieste invece prato, e vaffanculo.)

 

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Questo è il primo pezzo di una serie dedicata alle volte che abbiamo sognato gente del ROCK, e affini. Siete liberissimi di contribuire inviando una richiesta alla solita mail disappunto(A)gmail.com

NAVIGARELLA (come se gli hipster esistessero)

ilcaffe

Bastonate è in amministrazione controllata perchè il revisore dei conti ha trovato qualche irregolarità e pare che per il 2014 avremo qualche problema ad incassare i trecentomila euro stanziati come contributo all’editoria indipendente, e questo -assieme al fatto che sono in ferie- è il principale motivo per cui in questi giorni non troverete tantissimi aggiornamenti.

Ieri ha suonato Springsteen a Roma, vale a dire che oggi è quel giorno ogni sei/sette mesi in cui ottocento persone abusano del tuo FB rivelando dettagi della rivelazione, come tanti piccoli pellegrini al santuario di Lourdes. LO SO CHE SPRINGSTEEN DAL VIVO È ESPERIENZA MISTICA E TOTALIZZANTE, me l’avete raccontato con dovizia di particolari DICIOTTO ANNI FA e da allora menate il torrone tutte le volte.

A proposito,’è un nuovo singolo dei Pearl Jam ma fa vomitare. Davvero, lo dico da fan di Backspacer, fa vomitare. In giro tutti quanti parlano di una specie di versione aggiornata dei pezzi veloci di Vitalogy (che è come dire che l’unica canzone rock mai scritta dai PJ è Spin the Black Circle). Non è così, sembra più un ritorno ai gloriosi stocazzo tempi dei pezzi non scritti che stavano nel disco con l’avocado. Con Vedder per niente in parte. Speriamo sia la classica  mattata alla Pearl Jam di mettere fuori un singolo che non c’entra niente col resto e che il disco nuovo (si chiama Lightning Bolt, LIGHTNING BOLT dico io, ma ti pare) sia in realtà pieno di pezzi epici e cafoni tipo la seconda parte dell’ultimo.

A proposito, per il ventennale di In Utero, che se non lo sapete è il miglior disco dei Nirvana, uscirà una deluxe edition. Di solito sono contrario a queste puttanate stile doppio/triplo CD con inclusi gli scherzi telefonici di Kurt Cobain a Evan Dando, ma a questo giro sono abbastanza fomentato. Il motivo è che a quanto dicono sarà incluso il mix originale dell’album così come uscito dalle session con Steve Albini, a cui qualcuno (non si è mai capito bene se l’etichetta o il gruppo in prima persona) si è opposto ed ha mandato diversi pezzi ad un mixaggio aggiuntivo. Nerdate.

A proposito, già che siamo parlando di #grunge e #Nirvana, se vi collegate a Vice trovate un mio pezzo sul ripescaggio di Jason Everman, non so se avete letto la storia (nel caso in cui non, continuate così). riporto un pezzo al solo scopo di allungare il brodo: C’è una morale nella storia di Everman? Non credo, ma nel caso non riguarda l’intervento americano in Medio Oriente quanto il fatto che le storie di cui è composto il rock fanno mediamente schifo (il motivo principale per cui non c’è modo di tirar fuori un film decente dalla storia di un gruppo). Avete presente? Quelle robe che piacciono ad Alberoni o a Rolling Stone USA: i Suicide presi a sassate durante i concerti perché erano troppo punk anche per i punk, Jim Morrison che urla di volersi scopare la propria madre durante un concerto al Roxy o quel che era. L’equivoco secondo cui lo stardom musicale è composto da un branco di drop-out che hanno avuto il culo, o l’intelligenza, di infilare una singola mossa che ha permesso loro di svoltare è uno dei più frequentati nella storia del pop; in effetti non è insensato ricondurre le carriere di quasi tutti i musicisti famosi a una singola mossa, come quella volta che Lady Gaga cantò “Paparazzi” imbrattata di sangue ai VMA. E da lì in poi diventare immortali. Mio padre diceva che Zucchero non era un cazzo di nessuno finché non ha scritto “Diamante”, peraltro non scritta da lui ma forse da Rihanna. Poi i sogni infranti sono diventati un buon materiale, e poi una droga di cui ci facevamo sempre più spesso: all’inizio degli anni Dieci ci si beccava una reunion ogni settimana; dalle foto sui giornali iniziavi a capire chi aveva avuto la decenza di conservarsi intatto fino a oggi e chi no. Il pezzo completo, come detto, è qui.

A proposito, rimanendo su Vice c’è un bellissimo pezzo di Quit the Doner che rende conto di un festival tenutosi a Bologna la scorsa settimana. Si chiamava STRUMMER LIVE FESTIVAL, maiuscolo obbligatorio perchè nonostante sia intitolato a Joe Strummer il festival ha ospitato gente tipo Alborosie Manu Chao e Modena City Ramblers (e usato come logo la foto di Paul Simonon, vabbè). Il pezzo si concentra più che altro su questioni ideologico-musicali abbastanza concrete, tipo che i gruppi che stanno segnando questa (se mi passi il termine) generazione nel vivo sono gli stessi identici che l’avevano segnata (tra l’altro a torto) dieci anni fa e passa. Ve ne incollo un pezzettino ma va letto davvero in blocco. I gruppi che si esibiscono sono gli stessi dell’epoca del social forum, ma siccome abbiamo perso e ci hanno massacrato di botte talmente tanto che adesso nei giorni di pioggia riusciamo a vedere in Civati una speranza, quasi nessuno qui esibisce slogan o contenuti politici. Il vero collante sociale della situazione, il sole dell’avvenire, sono i bottiglioni, la più grande invenzione che la Spagna abbia dato al mondo dopo le donne con i baffi.

A proposito, sempre parlando di festival, Carlo Pastore ha messo un editoriale sull’ultima edizione del MI AMI, maiuscolo. Al MI AMI quest’anno c’erano diversi rapper e insomma P ha deciso di giustificarla volando basso e paragonandolo al momento in cui nel 2008 Jay-Z venne invitato a Glastonbury e questa cosa suscitò polemiche a ruota. Quel che dà fastidio è che nel frattempo il MI AMI si sta trasformando, come è giusto e buono che sia, in un normalissimo festival musicale di successo (la stessa metamorfosi che sta subendo Rockit, ormai un buon prodotto “mainstream” di roba italiana). Tra le altre cose non ricordo che Jay-Z a Glastonbury abbia fatto gridare così tanto al boicottaggio, ma dando per scontato che sia una mia disattenzione va anche detto che 1 Jay-Z è Jay-Z e Dargen d’Amico è Dargen d’Amico, 2 Glastonbury è Glastonbury e il MI AMI è il MI AMI. Dopodiché naturalmente c’è da fare una riflessione su quello che succede nella testa di chi decide di scrivere un editoriale del genere. Comunque non è la prima volta che C.P. parla di una cosa su cui lui o Rockit hanno fatto soldi (che è giustissimo e sacrosanto, sia chiaro, anzi gliene auguro il doppio ed Enrico Ruggeri headliner della prossima edizione al posto di Patty Pravo) come di un momento di rottura artistica e progresso culturale senza precedenti, come se stessero tutti lì a disegnar baffi alle Gioconde da mattina a sera. Lo stesso era successo nel famosissimo episodio del DIY (il post non c’è più, volendo è copiato in questa discussione su neuroprison): a prescindere dal fatto che sia stupido o meno quel che dici, dà comunque un gran fastidio essere nella stanza mentre lo stai dicendo. Nello stesso editoriale l’autore si chiede come sia possibile bollare il MI AMI come un posto per “hipster” o fighetti di città, cito testualmente. Come se fosse questo il problema. Come se gli “hipster” esistessero. Come se il punto con i festival tipo MI AMI non sia la loro natura omnicomprensiva (e quindi per sua natura anti-hipster) o il fatto che funzionino, negando all’ascolto musicale la sua componente di appartenenza e di non-appartenenza, di ascoltare una cosa perchè è come te e diversa dagli altri, che a dispetto del fatto di essere denigrata da svariati giornalisti di professione è la cose più importante dell’ascoltare la musica, l’atto politico nel farlo. Perchè una musica che viene spacciata come “indipendente” dovrebbe a qualsiasi titolo unire? Non potremmo lasciare questo compito ai rapper di adesso o ai democristiani?

A non-proposito, c’è un nuovo episodio della querelle Pipitone VS Daft Punk. Del primo avevo parlato brevemente qui chiedendomi “se la voglia di prendere a calci nei denti (metaforicamente parlando) chi abbia scritto e/o scelto di pubblicare un pezzo di questo genere non sia di per sé condizione sufficiente ad adorare il nuovo disco dei Daft Punk”. Oggi, a seguito di qualche polemica, Pipitone scrive un nuovo post sull’argomento dando conto di un esercito di troll organizzati che invadono il suo spazio, cercando di metterlo in croce per aver anteposto il suo libero pensiero al VERBO (che credo sia “RAM è un ottimo disco”, e ci possiamo anche stare direi). In realtà è un post abbastanza perdibile, ma fa specie come possa una persona scrivere un post che bolla come creduloni e tamarri i fan dei Daft Punk e poi sentirsi deluso se qualcuno s’incazza.

il listone del martedì: I DISCHI DEI PEARL JAM IN ORDINE CRESCENTE

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La seguente lista considera i soli dischi di studio dei Pearl Jam saltando a piè pari i live ufficiali, i bootleg ufficiali, le raccolte tipo Lost Dogs, i video e tutto il resto. Il motivo è abbastanza semplice: tutti i fan dei Pearl Jam sono individui a un passo dalla pazzia che pensano loro e solo loro di essere in possesso del SAPERE in merito al gruppo, dividendosi quasi equamente tra

(1)   protometallari ritardati che pensano da dopo Ten sia iniziato un progressivo sputtanamento della musica del gruppo che duecento dischi dopo non ha ancora impedito a molti di loro di continuare ad ascoltarne le nuove uscite;

(2)   ultras di Springsteen mancati e/o lettori del Buscadero in cerca di qualche musicista non-sgradevole uscito negli ultimi venticinque anni, così da poter camminare a testa alta e con la coscienza a posto almeno fino al 2016;

(3)   strani personaggi che gravitano immeritatamente intorno all’indie rock, già si cagavano i PJ ai tempi di VS e considerano il gruppo (vedi alla voce MACCOSA) una delle pochissime manifestazioni etiche all’interno del rock americano da grandissimi numeri, una specie di Fugazi del cock-rock.

Io faccio parte della terza categoria, ovviamente, il che mi rende in qualche modo ridicolo tra i ridicoli e oggetto di sfottò da parte delle altre persone. In particolare la mia fidanzata continua a sfottere il mio comprare nuovi dischi dei PJ nonostante in casa sia sostanzialmente proibito il loro ascolto, e mi continua a dire che secondo lei i Pearl Jam hanno inciso una sola canzone, nella fattispecie Long Road –curiosamente assente nei dischi dei PJ, può darsi le abbia spaccato un po’ le palle col DVD Touring Band. In ogni caso, che apparteniate alla categoria 1, 2 o 3 è sicuro che avete almeno trentadue anni, o in alternativa una psicosi gravissima che vi rende nostalgici di una stagione del rock che io al posto vostro ringrazierei il cristo di essermi evitato, non fosse altro per il fatto che Eddie Vedder continua ad essere la mia principale ispirazione nel vestire (parliamo di uno che sono vent’anni che guarda i vestiti nell’armadio e sceglie i peggiori). Insomma, l’idea di mettere in lista solo i dischi di studio che sono forse la cosa peggiore del gruppo (e quella che ho ascoltato di meno a conti fatti) è dovuta al non volervi ammorbare con le questioni da fan dei PJ. Ma sono qui ad assicurarvi che se ci trovassimo mai a parlare in privato sarei perfettamente in grado non solo di mettere insieme un doppio CD con i miei pezzi preferiti dei PJ compresa la roba non presente nei dischi lunghi, ma anche di registrarvene uno equivalente con le mie versioni live preferite dei suddetti pezzi. L’invito a voi, dunque, è di starvene buoni e non urlarmi addosso che l’ordine dei dischi è sbagliato, altrimenti vengo lì e vi elenco centocinquanta versioni live di Corduroy migliori di quella merdosissima contenuta in Vitalogy.

AVOCADO

Il principale merito dell’Avocado è di essere uno dei dischi più sbagliati della storia della musica e di avere una copertina tra le più brutte della storia della musica, quindi di brillare di una certa onestà di fondo che mette in pari con i propri demoni interiori. Questa cosa che i Pearl Jam abbiano inciso l’Avocado, tra l’altro, mette in prospettiva un sacco di cose, prima fra tutte la mia dedizione alla causa dei Pearl Jam –evidentemente non-assoluta, nel senso che non sono disposto a difendere l’Avocado e a dire che sì, tutto sommato l’Avocado insomma dentro c’è World Wide Suicide e subito ti viene su una voce da sotto la coscienza che urla VAFFANCULO e ti invita a riconsiderare qualsiasi altro disco di rock americano di merda uscito prima o dopo. Seconda cosa, vista da fuori è una nozione di base che dà una certa rispettabilità di fondo al mio parere: mi piace Backspacer ma detesto l’Avocado. I dischi dei Pearl Jam si dividono tra dischi decenti e Avocado. Il quale poveretto ha pure una copertina così brutta che la gente ha smesso quasi subito di chiamarlo Pearl Jam e ha giustamente iniziato a chiamarsi come l’oscena copertina di cui sopra.

TEN

Ten non è propriamente quel che si dice un disco di merda. Ten è un disco diciamo carino, in prospettiva, col difetto di essere prodotto in modo agghiacciante e di contenere un’idea di ROACK talmente cafona e deprimente che insomma, se avessi avuto pesantemente a che fare con Ten nel momento in cui era uscito è probabile che avrei odiato a ragione i Pearl Jam per il resto della mia vita. Che schifo Ten, davvero. Che schifo i Pearl Jam che in concerto potrebbero tranquillamente suonare una infarinatura di brani e cover sparse lungo tutta la carriera, un brano o due per disco, e poi eseguire Ten nella sua interezza allargando la cosa alle out-take di quel periodo tipo State of Love and Trust. Lo so perché è successo a Venezia un paio d’anni fa. L’unica cosa buona di Ten sono i pezzi, che effettivamente alcuni stanno tranquilli tra i migliori dei PJ (soprattutto i lentoni tipo Black o i pezzi-cafonata alla Alive); il mio desiderio da fan del gruppo 3 è che Ten fosse ri-registrato in blocco dai Pearl Jam dell’epoca Binaural o Yield, ma mi sono dovuto accontentare di averne una versione decente di tracce prese dai bootleg ufficiali con l’ordine cambiato (nel senso che l’ho fatto davvero e mi sembrava sensato iniziasse con una Release fatta a Seattle tipo nel novembre 2000, che idiota). I remaster usciti qualche anno fa non sono niente di che: sono canzoni che van proprio –tipo- risuonate in blocco e ributtate sul mercato. Ora è troppo tardi.

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BACKSPACER

Backspacer fa sostanzialmente vomitare fino a Just Breathe esclusa, poi diventa un bel disco in un modo del tutto insperato. C’è una teoria non moltissimo frequentata, tra i fan dei Pearl Jam, secondo la quale l’ingresso in formazione di Matt Cameron (anche in qualità di autore, appunto) sia stato la più grande sciagura mai capitata al gruppo dopo Roskilde. Sono abbastanza d’accordo. Poi i PJ infilano una terna di canzoni fichissime tra cui appunto Just Breathe (della quale pensate probabilmente male ma solo perché a un certo punto la sentivate quaranta volte al giorno alla radio), Amongst the Waves ed Unthought Known che sono tipo canzoni di Yield aggiornate ai PJ di adesso, cioè all’Eddie Vedder a cui sono stati estratti i genitali ed è costretto a cantare solo note alte e ben scandite.

BINAURAL

Binaural è più o meno sinonimo di disco brutto dei Pearl Jam, questo secondo una definizione popolare piuttosto frequentata secondo la quale il gruppo aveva portato a casa le penne con Yield ma adesso per favore anche basta. È il primo disco dei PJ (dai tempi di VS) non registrato da Brendan O’Brien, cioè il principale motivo per cui i PJ vanno ascoltati nelle versioni live e non su disco (Brendan O’Brien è davvero tipo il nemico, il lato oscuro del rock brutto anni novanta, la lista dei dischi da lui prodotti è impressionante per il quantitativo di cose brutte sul totale: si salva sostanzialmente solo Danzig II), ma il gruppo non riesce a staccarsi dal cordone ombelicale del gruppo e lo chiama a mixare. Che schifo Brendan O’Brien diobono. Il più grande difetto di Binaural è quello di contenere Nothing as it Seems, ma ci sono comunque cose buone da fan tipo God’s Dice o Thin Air e simili, voglio dire, come scivoloni ce ne sono stati di più brutti (tipo l’Avocado).

VS.

Ho conosciuto (nel senso di ascoltato un disco intero, era impossibile non conoscerli pure prima) i Pearl Jam ai tempi di VS., questo vuol dire essere devastato dai passaggi radiofonici e/o in discoteca della canzone più antipatica mai incisa dal gruppo (Daughter), antipatica in quanto passata in radio e disco e cassette di amici e birrerie più di qualsiasi altra canzone nella storia del rock anni novanta (Come as You Are al confronto è un pezzo fresco, per dire). Però VS contiene anche cose tipo Blood, anche questa sentitevela in qualche versione dal vivo magari, o tutte le altre canzoni buone di VS che dai, diciamocelo, non sono proprio pochissime (RVM, Dissident, Elderly stocaxxo, Go, Animal, etc). Pare che pure Betterman fosse stata registrata per VS, poi il gruppo se l’è tenuta nel cassetto e ha deciso di farla uscire in un disco dove avesse senso. Bravo gruppo. Dicevo, ho conosciuto i PJ ai tempi di VS., e questa cosa mi ha segnato molto. Avevi a che fare con ragazze che pensavano ne capissi di musica perché possedevi una cassettina di VS., le stesse che oggi pensano che tu ne capisca di musica sentendo puzza di sudore stantio uscire da sotto la tua maglietta il cui logo non riconosci ma diocristo sarà un gruppo del cazzo ascoltato da sedici persone. Allora tu magari cerchi di far vedere questa cosa e di comprare altri stracci ma più simili agli stracci che si metteva il gruppo e ti ritrovi in una classe di ventisette alunni di cui venticinque vestiti con una camicia a quadretti. Giuro su dio, è successo.

pj

RIOT ACT

Questo qua diciamo che è il mio premio-simpatia. Fino a Riot Act sono un fan prudente dei Pearl Jam, li odio ma mi piacciono i dischi, non so come spiegarlo bene. Considerato anche Binaural, tutti quanti s’aspettavano che Riot Act sarebbe stato il peggior disco della storia dell’uomo, quello in cui i PJ sarebbero diventati i vice-Springsteen ufficiali, un processo di degrado artistico e umano che andava avanti dai tempi di Yield. Questa cosa effettivamente succede, ma la prima volta che mi sento la prima traccia del disco (si chiama Can’t Keep e non sta, inspiegabilmente, in nessuna top ten del gruppo) mi metto quasi a piangere decidendo seduta stante che in realtà sono sempre stato un fan del gruppo ed è ora di accettarlo e iniziare a odiare qualcun altro –e per caso nello stesso periodo inizio ad accanirmi sui Soundgarden, voglio dire, quanto fa schifo riascoltare oggi i dischi dei Soundgarden? Mica dico quella cacata di Down on the Upside, dico in generale, anche roba alla Louder than Love. Che palle i Soundgarden. È vero anche che il resto del disco contiene robaccia alla Love Boat Captain e in generale non è buono quanto Can’t Keep, ma ci sono cose ancora molto belle tipo Save You o soprattutto I Am Mine e Thumbing My Way. La cosa peggiore del periodo Riot Act, in prospettiva, è che Eddie Vedder in questa fase ha i capelli corti e ricciolini e sembra un impiegato di banca capitato per caso sul palco al posto del cantante dei Pearl Jam. Davvero, Ed Vedder ha questo skill di passare da uomo più figo della terra a impiegato di banca con un taglio di capelli.

YIELD

È abbastanza chiaro che i tre dischi più belli dei PJ, specie se fate parte del gruppo 3, sono quelli in cui Stone Gossard smette di farla da padrone e il gruppo smette di vendere dieci milioni di dischi a botta. La battaglia più che altro è quale sia l’ordine esatto dei tre. Yield, comunque, è sicuramente il terzo. Cioè ci sono cose fichissime in Yield, tipo Wishlist è il singolo dei PJ che s’è sentito di più nelle radio generiche ma ancora oggi fa piacere che lo passino, nonostante il testo ormai suoni davvero atroce.

VITALOGY

NO CODE

Sono arrivato alla fine e non ho davvero voglia di raccontarvi perché sono così un fan dei Pearl Jam. Questi giorni li sto riascoltando perché li ho suonati in macchina con la bambina e lei faceva strane boccacce di apprezzamento.

La ragione per cui No Code sta davanti è che ha un po’ più l’aria da disco snobbato. Voglio dire, me lo sono ascoltato due milioni di volte ma ancora nel lato B c’è qualcosa che mi suona nuovo, mentre Vitalogy ha più quel che da scorpacciata di pezzi fighi che dopo un po’ stanca. E Vitalogy è registrato peggio, cioè in un modo che rende meno giustizia ai pezzi di Vitalogy che pure sono migliori di quelli di No Code (e di quelli negli altri dischi dei Pearl Jam, se è per questo). E le canzoni sono suonate tendenzialmente un po’ meno spesso ai concerti, almeno per quanto riguarda le cose migliori del disco (Sometimes, Off He Goes etc) quindi di questa cosa ce ne si accorge un po’ di più. Comunque siamo lì, insomma. C’è anche da dire che probabilmente No Code è il disco meno rappresentativo dei PJ di tutta la carriera dei PJ. Voglio dire, non ve lo consiglio per iniziare: uno si farebbe un’idea del gruppo tipo di una versione hillbilly dei Joan Of Arc che di tanto in tanto non si sa a quale titolo se ne esce con dei tiratoni hard rock tipo Hail Hail. E in realtà sono arrivato in fondo alla lista senza nessuna voglia di continuare a scrivere, quindi.

PJ20 – nei cinemi

Stasera fanno PJ20 in certi cinema, diciamo una dozzina in tutta italia. PJ20 è un film di Cameron Crowe che celebra il ventennale della band. Cameron Crowe, oltre ad essere abbastanza amico della band da averli infilati dentro Singles quando non erano ancora un cazzo de nessuno, è responsabile di quelli che sono probabilmente i cinque minuti più rock mai visti al cinema, cioè la cover band dei Lynyrd Skynyrd che suona al funerale di Elizabethtown. Le premesse, se uno è un fan, ci sono. Io sono un fan.