Il post-post

Il postrock è uno di quei generi su cui la gente, a tipo VENT’ANNI dalla sua informale fondazione, ha ancora l’istinto naturale a pontificare. Presenti inclusi, ovviamente. Per quanto mi riguarda, il più influente contributo all’argomento di questi ultimi anni viene da un amico di Imola che dopo un pranzo pesantissimo alla cooperativa dei pescatori di Cervia aveva deciso che vogliono tutti essere post. Io voglio diventare bravo. Mi sono preso una cotta culturale e non l’ho ancora smaltita. Nel corso dell’ultimo decennio il dettame bravi > post è stato adottato alla grandissima da quella particolare fetta di p*strock che s’era mezza a cazzeggiare a man bassa con la melodia e le aperture orchestrali E QUINDI svilito prima ancora di essere formulato, ma questo se vogliamo è un altro discorso che allungherebbe il pezzo di tremila battute che non vi servirebbero, quindi passiamo direttamente al punto.

Una settimana fa ero a vedere i Mogwai. I Mogwai sono un gruppo scozzese di cui dire male è quasi impossibile o di cui è possibilissimo dire male a patto di essere pronti a buttare nel cestino tutto il roster Temporary Residence, i Pelican, i folli Isis e tutto il postcore apocalittico con aperture melodiche, Giardini di Mir(o)))), il finale di Miami Vice e le musiche di Friday Night Lights, quasi tutte cose che a conti fatti non dispiacerebbe nemmeno troppo buttare nel cestino a parte. I Mogwai li avevo visti una volta diversi anni fa, un concerto all’aperto che non mi fece impazzire e per il quale diedi la colpa al malumore, al fatto che fosse all’aperto e all’idea che in generale queste cose richiedono disposizione d’animo e una ragazza con cui limonare (mancarone disposizione d’animo, mancarone limonare). Il problema è che i Mogwai non mi hanno mai fatto impazzire nemmeno su disco, o meglio ho sempre trovato quasi tutti i loro dischi carini al punto da averne ADDIRITTURA comprato qualcuno ma non è che li metto nello stereo su base mensile pensando che finalmente i mogwai. Il mio disco preferito dei Mogwai è Come On Die Young, ma non saprei dire perché (forse perché lo chiamano amichevolmente Cody), oppure Young Team, oppure Happy Songs perché c’è Hunted by a Freak. Mi piace Auto Rock perché sta –appunto- alla fine di Miami Vice e Miami Vice è il più bel film degli anni duemila e mi ha fatto prendere benissimo anche l’ultimo disco degli Audioslave. E poi basta. Ho visto il DVD di quel cioccolataio di Vincent Moon (presto su questi schermi un bel pezzo-rosicata su quanto mi fa schifo al cazzo Vincent Moon), ho pensato che fossero fighi e anche piuttosto diversi da come ricordo di averli visti io. Dell’ultimo disco in giro si fa un gran dire, anche m.c. si è preso bene su questi stessi fogli, la musica è molto Mogwai e probabilmente lavora un pelo di più su certe cose quintessenziali. L’ho ascoltato due volte ma forse non ero nell’umore –fantastico ma non perfetto, direbbe quel tipo di Glamorama. Mi trovo a rivederli dal vivo perché Delso la sta menando ininterrottamente coi Mogwai da mesi, perché ho un amico con il quale posso fare il viaggio e perché potrebbero –dovrebbero- fare Auto Rock regalandomi il mio momento Miami Vice. Mi presento in completo Armani con maglietta rosa sotto. Il concerto costa 22 euro.

Partono come parte l’ultimo disco. Lo eseguono quasi per intero quasi per niente il resto, una scelta che se non fossimo nel 2011 dei dischi che non si vendono potremmo dire promozionale. Il concerto, considerato che stiamo parlando di rock orchestrale/arioso/melodico pieno di cavalcate e bordate di rumore, è piuttosto freddino. I suoni professionali-issimi, la gente piuttosto ben presa, il gruppo non troppo carico e tutto il resto. Tra le cose vecchie sparano una New Paths to Helicon 1 che probabilmente è l’apice del concerto assieme al mattone finale di 20 minuti di circostanza. Niente momento Miami Vice. Va tutto benissimo, ma se per gli Shellac il collega m.c. parlava di poco più di un karaoke per introdotti qua siamo due passi oltre.  In certi momenti sembra che potrebbero riscuotere lo stesso numero di applausi  stando sul palco a giocare a FreeCell coi visual che scorrono e la musica che pompa da un CD. Persino lo svacco rumoristico finale sembra una specie di barzelletta sporca per filosofi del rumorismo applicato a ‘sto cazzo di niente. Mi sento derubato della mia anima e dei miei 22 euro e mi dirigo all’uscita prima che sia finita tutta la cagnara.

Una delle poche altre volte che mi sono sentito in questo modo è stato un paio d’anni fa, quando gli Explosions in the Sky (probabilmente ad oggi i figli più cagati di Barry Burns) hanno suonato in questo stesso locale, a pochi giorni dall’ATP da loro curato. Non propriamente un concerto coraggioso, eseguirono più o meno per intero il loro disco più riuscito (The Earth is not a Cold Dead Place) e poco altro. Il pubblico urlava a ogni break come se fosse a un concerto del Blasco, a volte faceva perfino i cori dietro alle melodie. Sapete, no? Come quando allo stadio cantavano il riff di Seven Nation Army, però con le chitarrine di First Breath After Coma (uno dei tanti danni prodotti dal libero arbitrio). Sto parlando di ‘sta cosa perché l’altra notizia in merito a ‘ste cose è che sta per uscire il loro nuovo disco ed è stato messo fuori un pezzo in anteprima. Il lavoro si chiamerà Take Care, Take Care, Take Care. La musica contenuta è sarà la stessa musica che stava sugli altri dischi, cioè una versione appena più dinamica e loffia e orchestrale di quella degli zii di cui sopra. Gli unici due momenti in cui gli EITS sono stati speciali sono stati

1 quando hanno infilato i pezzi, cioè ai tempi dell’esordio e di The Earth etc etc.,

2 quando abbiamo sentito gli stessi pezzi a fare da contrappunto sonoro alle storie da eroismo quotidiano per fotomodelli/e di Friday Night Lights.

Il resto, appunto, segna la carriera di un gruppo troppo impegnato a tirare i remi in barca per poter cavalcare la storia del pop di questi anni da protagonista. Il punto è che per un momento ci avevamo davvero sperato, poi la band ha tirato il freno e deciso di gestire l’esistente. La cosa peggiore dei loro dischi post-The Earth è che non sono brutti o sbagliati, anzi. Sono perfettamente in linea con il loro impianto di base, cioè quelle due chitarrine che nei momenti di pathos s’incrociano come le campane di una chiesa. Ci sono perfino segni di evoluzione, qualche beat elettronico micragnoso messo lì a cas(zz)o e qualche pezzo sotto i sei minuti, forse per vedere che aria tira nel Paese Reale. Il problema è che per quanto si possa essere insistenti nel continuare a suonarla a volume altissimo la musica degli EITS da The Rescue in poi non offre un singolo momento di emozione o spontaneità, sostituendole con quegli sdoppiamenti di chitarra a campanellino che fanno tanto prog-rock. L’ultimo disco degli EITS da questo punto di vista è sarà  il degno successore di quello prima e non è sarà necessario mettersi a lavorare di cervello sulla cosa. Questo mi dà il permesso informale e infondato di agganciarmi a un discorso-pippone più generale che considera il modo in cui l’idea di Postr*ck, ammesso ce ne fosse una, era nata in contrapposizione a un certo tipo di approccio celebrativo e pomposo e in una ventina d’anni di attività è arrivato ad una forma definitiva che sembra la celebrazione-alla-enne, un macrosistema della pomposità in cui i gruppi cercano di fingere per quanto possibile di non dare nell’occhio durante la performance (tipo tenendo i capelli sugli occhi) e sparando roba quanto più caciarona, standardizzata, carica, monumentale, elegante, allineata, triste e malinconica sia dato ascoltare oggi giorno. Tutto sommato è lo stesso bisogno di emotività ex-post che sta avvelenando le altre avanguardie del rock peso, ivi compresi gruppi come Earth o Sunn (o))) –figurarci i vari Om, Orthodox e via affastellando, per non parlare di una Chicago quasi equamente divisa tra dischi dei Tortoise sempre più prog metal e gli spin-off etnici dei vari Doug Scharin e Rob Mazurek. A breve usciranno dischi nuovi a firma This Will Destroy You e persino Low, che non ho ancora sentito ma immagino, e in generale mi sembra di stare dentro un paradosso in cui certi paradossi virtuali (la recensione standard di un disco post-qualcosa su una webzine) sono collassati nel mondo reale (la musica che sta dentro i dischi) con il risultato che i gruppi di oggi stanno agli STESSI gruppi quindici anni fa come le mie foto facebook stanno alla mia faccia vera. Magari sto esagerando, ma per sicurezza oggi solo dischi di Laghetto e simili.

MATTONI issue #4: Shellac

Nel ’94 Shellac è un gruppo noise (o qualunque altro sinonimo vogliate trovare) ai confini con il rock’n’roll, diretto e basilare, con pezzi stile mordi-e-fuggi di due o tre minuti e magari la tiratona quasi-psichedelica Il Porno Star che chiude l’ormai classico At Action Park (1994) e che probabilmente suona ancor oggi come il loro pezzo più memorabile. Fino al ’98 Shellac continua ad essere percepito come una sorta di spin-off di Steve Albini, non pubblica dischi e non si sbatte manco un po’ per stare al centro dell’attenzione. Poi, quasi in sordina, esce il secondo album della band, che incidentalmente festeggia il duecentesimo titolo nel catalogo Touch&Go. Il disco si chiama Terraform e si apre con un mattone di dodici minuti che occupa quasi tutto il lato A dell’LP, intitolato Didn’t We Deserve a Look at You the Way You Really Are.

La traccia si costruisce quasi esclusivamente su un pachidermico ed immobile giro di basso in tre quarti, una cosa davvero MOLTO ripetitiva e tediosa, su cui per cinque minuti la batteria di Todd Trainer accompagna con la solita essenzialità e senza improvvisare trucchi di sorta; l’unico fattore di imprevedibilità è qualche rumorino di fondo della chitarra di Steve Albini, che bofonchia a mezza voce il solito testo nonsense ed oscuro. A metà traccia c’è un momento di rock, buttato quasi a caso sulla batteria che raddoppia il passo e sulla chitarra che doppia la parte di Weston, poi tutto torna alla normalità. Al settimo minuto il basso tace per un singolo break, poi si ricomincia tutto uguale. La batteria raddoppia il passo un’altra volta a ridosso del nono minuto, ma tutto torna alla calma, con Steve che continua a bofonchiare e a fare cose a caso con la chitarra, fino a un finale con dieci secondi di “rock”. Didn’t We Deserve è il pezzo più fuori asse dell’intera produzione Shellac, una sorta di alieno che partorirà un solo alieno all’interno della band (The End Of Radio, la traccia che apre Excellent Italian Greyhound, comunque molto più carica e aperta all’improvvisazione) e praticamente nessuno al di fuori, nonostante per certi versi l’ossessività di cui è ammantata si propone fin da subito come una sorta di programmatica coscienza sporca del postrock chicagoano così in voga nello stesso periodo –ma per quasi tutti Didn’t We Deserve e il disco in cui è contenuta solleticheranno critiche tiepide e finiranno per diventare l’informale album minore di Shellac.

Quest’oggi Terraform compie dodici anni. Nelle parole del nostro amico Delso, 12 anni sono importanti. Sei già nel pre-erotismo e vuoi un motorino.

RED SPAROWES – “The fear is excruciating, but therein lies the answer”

Red Sparowes - "The Fear is Excruciating..." Per quei pochi che non li conoscessero veloce riassunto: nati come supergruppo (dicesi supergruppo una unione di musicisti provenienti da almeno due band molto famose che MAI riesce a eguagliare in qualità i gruppi originali) composto da gente che ha nel curriculum robe come Isis, Neurosis e Halifax Pier, i Red Sparowes fecero centro con l’ottimo debutto “At The Soundless Dawn”. Non che inventasse nulla, ma sapeva porsi tra post-rock un po’ Explosions in The Sky e postcore Isis/Neurosis in modo convincente, riuscendo a trovare un buco piuttosto personale in quello stretto spazio. Il secondo lavoro “Every Red Heart Shines Toward The Red Sun” risultava invece leggeremente più dilatato, il tutto quindi sembrava accentuare la componente atmosferica delle (comunque presenti) consuete alternanze post-rock languido con chitarre riverberate/muri di chitarra, e questo nuovo “The fear is excruciating, ma il titolo è sempre lungo” è ancora più lontano dagli Isis, pur mantenendone comunque dei richiami. Come già nel secondo, la sensazione è che ormai la cifra qualitativa dei RS sia quella di una band che va col pilota automatico e si muove agevolmente negli stilemi che propone, che forse non ci dirà mai qualcosa che non sappiamo già ma che comunque quello che fa, lo fa bene. Anche in questo caso, qualche passaggio è leggermente prolisso e non va oltre il discreto sottofondo ma (specialmente verso il finale) c’è spazio per momenti davvero molto riusciti. Come già accennato, rispetto al passato c’è da rimarcare, nella sostanziale continuità del sound, una tendenza meno aggressiva e un maggior indugiare in momenti addirittura delicati/malinconici, a tratti si sentono gli *shels (pubblicità progresso: di questi prendete “Sea of the dying dhow”), anche. Insomma, il lavoro è discreto, non so quanto longevo, ma comunque discreto. Vedete voi se fa al caso vostro.

Thank You @ Officina49, Cesena (23/10/2009)

ty

Uno con un briciolo di sale in zucca si prende in carico la sconfitta ideologica e culturale, se ne torna zitto zitto affanculo nel suo angolo a leccare le ferite e smette di rompere le palle. Nel senso: suonavano i Mudhoney a Bologna e tu cosa cazzo ci facevi a vedere Thank You a Cesena? La risposta è che noi di Bastonate amiamo coprire più eventi la sera stessa. La risposta vera è che sono un pigro del cazzo e Bologna sta a un centinaio di Km da casa mia. Contrariamente all’Officina49 che posso raggiungere in auto con un briciolo di relax in più nell’ordinare il secondo jagermeister. Comunque Thank You è un gruppo USA su Thrill Jockey, e a parte tutte le parentele suonano post-rock. Diffidate da quelli che non vi dicono per filo e per segno cosa intendono per post-rock: probabilmente sono fan dei Mogwai. Che per carità, massimo rispetto (se piacciono a Michael Mann, dico…), ma per me post rock vuol dire più o meno cloni dei Don Cab con la pacca. Gli altri sono post qualcos’altro. Nel caso specifico, cloni dei Don Cab con la pacca E un sacco di influenze kraut-drittose, tipo Damon Che meets Electrelane meets Barbapapex. Da cui l’altra grande domanda: come può un gruppo suonare drittissimo e stortissimo allo stesso tempo? Probabilmente è una questione di attitudine di chi ascolta, o forse basta far pender l’ago della bilancia da una parte o dall’altra a seconda dei pezzi. Sia quel che sia, è musica che acchiappa un sacco. Strumentale, ovviamente: un batterista che mena come il cristo e due che si alternano tra tastiere chiassosissime e chitarre chitarrosissime. Roba un sacco storta e un sacco dritta, orecchie che sanguinano e tutte quelle robe lì. E questo sarebbe un post divulgativo, tipo “non perdeteveli, sono in Italia”. Ma la realtà delle cose è che sono già partiti per Francia e Belgio. Comunque i voli low-cost costano poco.  Essendo low-cost.

Mancaroni: MOLASSES – A SLOW MESSE

Marco Delsoldato scrive su Kronic, Ondarock, SMS e un sacco di altri posti. Ha anche -assieme ad altri- un blog sulla pallacanestro che si chiama come un disco dei June Of ’44.  Che per come la vedo io è un po’ la parabola della sua esistenza, nel senso una qualsiasi storia del cazzo, a patto che ci siano in mezzo i June Of ’44. Il primo ospite a mandarci un Mancarone.

aslowmesseIl DISCO
Nel 2003 esce (per Fancy/Alien8 Rec.) A Slow Messe, terzo disco dei Molasses. Non necessariamente quello da consigliare a tutti i conoscenti. Piuttosto quello da passare- subito- agli amici che stimi per gusto musicale, perché in qualche modo vicino al tuo (quindi il migliore possibile, per inerzia da classifica di fine anno o decennio o secolo).
Si ruota intorno a Scott Chernoff, sorta di direttore d’orchestra, autore e cantante di un manipolo di persone legate alla Constellation (Godspeed, Silver Mt.Zion, Hrsta, Set Fire To Flames, Fly Pan Am), con l’aggiunta, nell’occasione specifica, di Chris Brokaw e Thalia Zedek. Gli episodi sono ventisei (la metà dei quali strumentali, siamo sui novanta minuti), in cui folk-drone, post-rock e cantautorato slow si mischiano al rumorismo di fondo. In breve: alcune, pur dilatate all’eccesso, sono vere e proprie canzoni (Killing Lucy Stone è fra le dieci di un millennio a caso), altre spezzano il ritmo e fanno godere quasi di più, perché alla base del progetto c’è un disordine voluto e ricreato alla perfezione (anche se meno caotico rispetto ad altri lavori con la medesima griffe). In copertina una cattedrale gotica di Montreal. Non è casuale, ma per conoscere la storia comprate l’album e sfogliate il libricino interno (magari ascoltando la conclusiva Slow Mass).

PERCHE’ NON STA NELLE CLASSIFICHE DI FINE ANNO
Da questo ambiente potrebbero finirci gli ultimi Godspeed, gli attuali Silver Mt.Zion o le collaborazioni con Vic Chesnutt. Volendo, ma dovreste cercarne di particolari, i Do Make Say Think. Ed è anche giusto, almeno nel mondo in cui viviamo. I Molasses, comunque, no. Loro non compariranno. Come non troverete i Set Fire To Flames. E non solo perché, ufficialmente (e per entrambi), l’etichetta di riferimento non era la Constellation.

PERCHE’ STA QUA DENTRO
L’ho divorato con continuità assoluta e, decidendo io cosa mettere, non potevo esimermi. Per alcune derive post folk, avvenute fra il 2000 ed il 2009, meriterebbe un invito personalizzato. Occorre aggiungere che è talmente straziante ed urticante da dover essere inserito per diritto narcolettico. In fondo, però, penso sia un puro discorso di estetica.