
Per capire perché detesto questo gruppo di cui parlo credo sia necessario andare indietro al momento in cui sono usciti allo scoperto. Nei primi anni 2000 il metal era ancora dentro la sua più grossa crisi di identità. Gli anni novanta avevano inculcato la parola d’ordine commistione nel cervello della maggior parte dei fan e per una serie di incidenti consequenziali si era arrivati a considerare metal una strana versione ipertrofica a chitarre ribassate di certo pop romantico anni ottanta; dall’altra parte un nutritissimo pubblico di puristi (in Italia erano più numerosi degli altri, stranamente) ne denunciavano lo smarrimento e la perdita di lucidità, ponendo come soluzione l’acquisto di dischi nuovi realizzati da cloni dei cloni di un suono epico che in linea di principio sembrava essere stato spazzato via da roba tipo gli Slayer E INVECE. Poco importa, naturalmente, ai fini del discorso. Esistevano eccezioni, naturalmente, ma in linea di principio per ascoltare musica metal fatta con criterio si doveva guardare a cose trasversali. Di quell’epoca è stata la canonizzazione di gruppi tipo Converge o Dillinger Escape Plan, roba che veniva dal giro accacì e suonava metal tecnico ai limiti del progressive (soprattutto i secondi). Un’etichetta che più di altre sembrava aver raccolto questa filosofia era Relapse, già da tempo un porto sicuro del metal estremo, che dalla fine degli anni novanta investiva soldi per far uscire dischi di gente (vecchia e nuova) tipo Human Remains, Burnt By the Sun, Today is the Day, Neurosis, gli stessi UNSANE e via deliziando. Fu proprio da Relapse che uscì fuori questo gruppo del sud degli Stati Uniti. Si chiamavano Mastodon e suonavano heavy metal, heavy metal vero e proprio intendo: hard rock pesantissimo con un fracco di assoli, fughe strumentali e cose simili. Solo che i Mastodon lo suonavano in un modo talmente complesso e incazzato da farli associare ai gruppi di cui sopra, molto più che alle infinite ripetizioni classic metal di quegli anni. Un po’ dipendeva dal fatto che il batterista aveva militato per dieci minuti in qualche formazione dei Today is the Day, ma per il resto era tutta una questione di musica. Che era tanta, bella e ineccepibile, ma forse non abbastanza da creare un immaginario vero e proprio.
Fosse stata una cosa limitata al primo disco lungo intitolato Remission, e al relativo successo della pubblicazione, quello dei Mastodon sarebbe stato un esempio da recuperare ex-post e una mosca bianca, non so come dire, un uovo di colombo, qualcosa di minuscolo da cui prendere esempio. Ci sarebbe stato, e probabilmente non avrebbe espresso appieno le potenzialità della band. In realtà il gruppo che aveva inciso Remission aveva le idee belle chiare ed era bello e pronto a giocare in serie A. Da questo punto di vista un disco come Leviathan, uscito due anni dopo,può essere considerato senza problemi uno dei massimi capolavori del metal anni duemila: è un disco che si riferisce totalmente al suono di Remission ma sposta le coordinate artistiche in un territorio più ambizioso e programmatico (Leviathan è un concept album su Moby Dick, tanto per dire); la musica scorre più organica, si concede tutte le pause che le servono e indulge spesso in momenti di violenza assoluta. Il gruppo è in forma smagliante e quasi niente sembra lasciato al caso: niente vestiti alla moda, niente copertine bombastiche o art work minimali. Al loro posto magliette lise, barbe folte, capelli lunghi e gli eccezionali artwork di Paul Romano (il cui pennello firma tutte le grafiche del gruppo da Remission a Crack The Skye, assolutamente perfetto per la musica). Tutto meravigliosamente essenziale.
Intorno a loro il mondo inizia a sgretolarsi. Burnt By The Sun in pilota automatico al secondo disco, Today is the Day e Neurosis in un vicolo cieco, quasi tutto il roster Relapse inizia a perdere smalto. I Mastodon di Leviathan volano altissimo e si fanno carico, quasi da soli, di una rinascita metal che metta d’accordo tutti. Leviathan è soprattutto questo, un disco che piace ai metallari di stretta osservanza quanto ai fan del post ad ogni costo, musica le cui tensioni artistiche sono quasi pacificate per dare sfogo a tensioni emotive che –al contrario- bruciano da dio. Da Leviathan in poi i Mastodon sono intoccabili.
Seguono approvazioni massicce, passeggiate trionfali nelle playlist di settore a fine anno, tour con i nomi più grossi in circolazione; tutto perfetto. A metà degli anni duemila, in ogni caso, la crisi creativa del metal è esplosa in ogni direzione: le declinazioni classiche iniziano ad andarsene in pensione, di nu-metal non vuole più sentir parlare nessuno. Di lì a poco la musica estrema diventerà appannaggio di strani personaggi con i capelli piastrati, inesauribili cloni degli At The Gates, improvvisati teorici della fine del mondo con una laurea in saccoccia e Wittgenstein nel cassetto. Tutta gente con cui avere a che fare costa salute ed energia, e dai quali in cambio non arriva un cazzo di buono –musicalmente parlando.

Succede spesso che i gruppi metal smettano di suonare metal. Il metal è un genere a scadenza, per un po’ vuoi suonare musica incazzata e poi vuoi suonare altro. A un certo punto scopri che è un vicolo cieco e torni indietro, o cerchi di scavare una via d’uscita da un lato, o continui a suonarlo come se non fosse successo niente tirando avanti una storia sempre più patetica e vuota. Non sono moltissime le persone che ne sono uscite indenni. Qualcuno prova a suonare qualcos’altro cercando di mascherarlo come un’evoluzione. Non è così. Si smette di suonare metal per accedere al pubblico del rock (che è migliore, più folto, meno esigente e puzza mediamente di meno), o perché non si crede più nel metal. La soluzione più logica e lineare (sciogliere il gruppo, mettere insieme un progetto di altro tipo) dai più non viene praticata, per motivi più che altro economici. Nel 2006 esce il nuovo disco dei Mastodon, si chiama Blood Mountain e non è Leviathan. Per essere esatti è un Leviathan che oltre alle tensioni artistiche sta per pacificare anche quelle emotive; sacrosanto per certi versi, ma quando succede bisognerebbe forse smettere di suonare metal. A conti fatti, effettivamente, il gruppo di Atlanta smette di farlo: le composizioni tirano più dalla parte di un rock progressivo ipertrofico il cui imparentarsi col metal è limitato a due urletti tranquilli e dal lavoro del batterista. Poco altro. Il gruppo a questo punto ha salutato Relapse e firmato con Warner. C’è da dire in ogni caso che per essere una svolta di ingentilimento Blood Mountain è ancora un disco di tutto rispetto, forse perfino rispettabile nel suo non cercare sempre e comunque il colpaccio del singolo riff e della singola canzone e nel votarsi ad un discorso più organico.
La fine degli anni duemila è un momento bruttissimo per il metal. Stretta tra i rigurgiti nu-school heavy metal alla Protest the Hero e l’estremismo black metal risuonato preciso in qualche cameretta del Michigan vent’anni dopo la data di scadenza, la musica di Satana si ritrova alla disperata ricerca di un modo per vivere cercando una via d’uscita alla crisi. Nel 2007 esce il primo disco dei Baroness, che è l’ultima cosa che manca per parlare di scena; mettiamoci dentro i vari Kylesa e Torche e siamo pronti ad una rinascita nu-prog inchiodata ad un immaginario estetico infiorettatissimo (le cover di John Baizley fanno il pari con quelle di Paul Romano, i gruppi tendono a sparire sullo sfondo). Dei Mastodon il mondo imparerà ad amare lo swag. Al momento di registrare il successore di Blood Mountain, tanto per non dare scanso ad equivoci, la band si chiude in studio con Brendan O’Brien ed esce sul mercato nel 2009 con l’opera più ridicola e anonima concepibile da un gruppo come loro. Il disco si chiama Crack The Skye, parti melodiche di voci a cazzo al posto delle urla, un quinto della cattiveria del disco precedente. Le asperità di Remission e Leviathan un ricordo lontanissimo e reso invisibile da una coltre di nulla. Dei Mastodon di Crack the Skye si può dire che sanno suonar bene, che ci sono gruppi peggiori e che bene o male non si ha la sensazione di perdere troppo tempo mentre li ascolti. Canzoni che rimangano in testa, zero meno.
Li incrocio dal vivo all’unico Sonisphere mai fatto in Italia, un caldissimo sabato pomeriggio d’estate all’autodromo di Imola. Lo stesso giorno suonano Rob Zombie, Slipknot, Iron Maiden, Motorhead, Papa Roach e via dicendo: il risultato è che quello che chiunque ormai indica come il gruppo metal più influente in circolazione viene sbattuto sul palco alle due e mezzo del pomeriggio, davanti a un pubblico sparuto di gente che rischia il colpo di sole per non perdere le prime file. Stanti le condizioni, una performance eroica: March of the Fire Ants seconda in scaletta, zero pose, violenza a fiumi. Il pubblico impressionato, io da un lato del palco che dimentico Crack The Skye in mezzo secondo. Poco importa, naturalmente: è una storia morta e sepolta. Segnali tutt’altro che incoraggianti arrivano con il successivo The Hunter: la musica prosegue sul solco tracciato dal disco precedente, con il generalissimo Mike Elizondo (giro Maroon 5 e simili) in cabina di regia, sempre meglio che Brendan O’Brien, ma in tutto il disco non c’è uno straccio di pezzo che si faccia ricordare.
Chi scrive sembra non curarsene, ovviamente. La scena neo-prog è entrata da tempo in una fase di impasse che al confronto viene da rimpiangere il 2007: i Baroness hanno cazzeggiato per un altro disco, e nel 2012 il doppio Yellow/Green ci ha finalmente mostrato il valore del gruppo di Savannah (zero); i Kylesa di Ultraviolet anche più tristi e desolati, tutto il resto alla mercè di cloni dei cloni, un genere musicale da tempo in mano a gruppacci tipo Kvelertak, Howl e simili. Disco dopo disco, questo neo-prog ha incrociato l’incrollabile favore della critica specializzata e sembra essersi trasformato tutto in una gara a chi fa il disco più moscio e merdoso contro chi riesce a scriverne meglio. Il canovaccio naturalmente è sempre lo stesso e va di moda da almeno vent’anni: “la coraggiosa scelta del gruppo dividerà i fans”. Quasi nessuno ha la più pallida idea di che cazzo sta dicendo. Quasi nessuno ha il coraggio di ammettere che dischi come The Hunter, dietro tutto il loro armamentario di buone intenzioni e teorie sulla musica che pulsa e chissà che cazzo altro, non meritano di stare manco nella stessa stanza di Remission, e che questa semplice unica verità non può essere scusata in nessun caso, pena il progressivo svuotarsi di significato del rock pesante fino ai tristissimi livelli attuali. La colpa probabilmente è di chi scrive. Avessimo preso a calci in culo il gruppo ai tempi di Crack The Skye, Brent Hinds e compagnia si sarebbero richiusi in studio assieme a qualcuno di tosto o avrebbero sciolto il gruppo, lasciando intatto il ricordo delle bastonate dei dischi prima del 2005. In un caso o nell’altro sarebbe andata meglio.
Il nuovo Once More ‘round the Suninvece è la stessa sbobba, solo un po’ migliore: prodotto da un altro carneade, Nick Raskulinecz (nel curriculum roba tipo gli ultimi Deftones/AIC, Foo Fighters e simili), copertina bellissima-ma-inefficace di Skinner, un disco di canzoni rock con qualche riff memorabile e tanta noia. Basta e avanza a renderlo il miglior disco dei Mastodon dopo la svolta, sia chiaro, ma fosse uscito dopo Blood Mountain, senza i due dischi precedenti, l’avrei considerato una ciofeca senza senso priva di ogni elemento che rende i Mastodon i Mastodon. In tutti i sensi sembra un surrogato del gruppo di Leviathan messo insieme da un gruppo più scarso ma con più soldi dietro. Del tutto inaccettabile.