Bruce Springsteen

bitu

Born In The U.S.A. è uscito trent’anni e sette giorni fa. Ai tempi ero assorbito da questioni più importanti, come centrare il buco del water evitando la tavoletta quando facevo pipì in piedi, masticare bene prima di mandare giù, cercare di non cadere male ai giardini o dormire. La prima volta che ho ascoltato Born in the U.S.A. (qualche anno dopo, non molti) è stata la voce a colpirmi sopra ogni cosa: rauca ma al tempo stesso cristallina, potentissima, vibrante, un urlo che si ergeva tra suoni plasticosi abissalmente distanti in maniera violenta e inequivocabile; alle mie orecchie, la voce di un uomo arrabbiatissimo per qualcosa che non gli andava bene. Stavo in macchina con mio cugino, al secondo pezzo non ci sono arrivato; probabilmente è passata una farfalla, oppure ho visto un cane o qualcos’altro che abbia catturato la mia attenzione, non so. Di compact disc fino a quel giorno ne avevo visti pochi, fisicamente intendo: gli Everything But The Girl, un best of (doppio, peraltro) di Elton John, Touch degli Eurythmics, tutti a casa di mio cugino. Gli anni ottanta nella declinazione più reaganiana. Le alternative erano il metal, l’hardcore, il rap che stava nascendo, le forme più perturbanti della new wave meno addomesticata, eccetera; in tutti i casi, roba che allora non avevo il minimo interesse di scoprire. Una farfalla o un cane erano più interessanti, vuoi mettere? Non c’era storia proprio.

La folgorazione è arrivata non molto più tardi. Si avvicinava il mio compleanno e avevo chiesto al patrigno di mio cugino qualcosa da ascoltare; i miei orizzonti allora si fermavano alla colonna sonora de La storia infinita (il film in compenso non l’avevo visto), le fiabe su 45 giri o cassetta lette da attori famosi, i dischi dello Zecchino D’Oro e La Vita, Amico, È l’Arte dell’Incontro che mio padre faceva girare ogni mattina da molto prima che cominciassi a rendermi conto di quel che mi stava intorno, un lavaggio del cervello in piena regola (sia chiaro: ad avercene). Poteva andare molto peggio, ma sentivo comunque il bisogno di qualcosa di contemporaneo. Mi fece avere due cassette duplicate; la prima non la ricordo, la seconda era Tunnel of Love. Cioè l’ho capito molti anni dopo, che fosse Tunnel of Love: sul risvolto c’era scritto solo BRUCE SPRINGSTEEN e nello spazio che di solito serviva per i titoli TANTI AUGURI MATTEO. Il primo pezzo era una cosetta per voce e chitarra strimpellata malamente, molto breve e piuttosto noiosa e insignificante (per un bambino di sei anni), il secondo in compenso mi ha investito come un treno lanciato a perdifiato in piena corsa fin da subito, fin dalle prime note: un synth lacerante, tristissimo, un suono che faceva male anche a chi non possedeva alcuno strumento per poterlo contestualizzare e comprendere (io). La voce non sembrava la stessa di chi aveva cantato Born in the U.S.A.; non era roca per niente, chi cantava non sembrava incazzato per qualcosa, al contrario. Sembrava scontento. Era la voce di uno che sta aspettando che passi la nottata, sperando con tutte le forze che passi il prima possibile.
Ero sopraffatto. Non riuscivo a gestire la portata di quelle emozioni, impossibile difendersi: non capivo le parole, non avevo mai sentito roba del genere, a momenti nemmeno sapevo cosa stessi ascoltando – a parte il nome: BRUCE SPRINGSTEEN, scritto a penna in rosso, nemmeno il titolo del disco. Un po’ poco. Mi trovavo per la prima volta, da solo, davanti a un pezzo che bruciava di vita e bisogno e necessità inespressa come mai mi era capitato di provare, un’intensità a cui ero completamente, drammaticamente impreparato. Uno spettacolo tanto meraviglioso quanto terrificante, una breccia aperta nell’ignoto che lasciava intravedere scenari fino ad allora sconosciuti, sterminati, impossibili da rendere a parole. La vita.
Per anni sono andato avanti ad ascoltare quel pezzo cercando di carpirne il mistero. Non ci sono mai riuscito. Per anni l’ho poi dimenticato. Fino al giorno in cui mi è esploso in mano come un petardo difettoso: un amico mi aveva prestato il CD di Tunnel of Love e, BOOM, finalmente quel treno in faccia aveva un titolo, un testo, parole che formavano concetti che rafforzavano il legame indissolubile tra quelle note e la mia mente di bimbo formatosi tanti anni prima. Il resto del disco era niente al confronto.


L’impatto che può avere avuto quella roba su di me è semplicemente impossibile da spiegare. Posso cercare di razionalizzarlo ora, ma rendere a parole cosa abbia significato per me ascoltare Tougher than the rest la prima come l’ennesima volta (stessa differenza) è una sfida persa in partenza. Mi ci sono voluti decenni per accettare un’evidenza a mente fredda perfino banale: per quanto per una grossa fetta della mia vita l’abbia trovato farsesco e demenziale, un assunto tra i più impegnativi con cui dover fare i conti, la mia vita un (bel) po’ me l’ha cambiata anche Bruce Springsteen. Certo come si presentava, come veniva venduto da giornali e tv, non era d’aiuto. Non per me. Il culto della personalità (come dicevano i Living Colour), l’asfissiante grandeur di concerti che erano (sono) tour de force in stadi sempre strapieni di fronte a folle osannanti, tutto il pacchetto costituiva casomai un ostacolo, un fattore inibitorio, un freno. A dare retta agli organi di informazione, ma anche agli esagitati resoconti di chi aveva assistito in prima persona al rito (di solito – ma non sempre – gente che va a vedere un concerto ogni due anni quando va bene), Springsteen rappresentava tutto quello che ho sempre detestato, da cui mi sono sempre tenuto lontano galassie: un bifolco arricchito, tronfio e strafottente, con certezze granitiche sulla vita e le cose del mondo e una pervicacia incrollabile nell’importi a forza la sua visione sbagliata, malsana e distorta, che va avanti all’infinito a berciare canzoni che sono la morte di ogni immaginazione sorretto da un esercito di musicisti pleonastici e fastidiosamente spaccatimpani. Prevaricazione, idiozia sorda e cieca, la legge dei grandi numeri elevata a status quo. Questo non mi ha mai interessato. È quasi impossibile prendere le distanze da un ego che sembra tanto smisurato, passare oltre tutte le stronzate e riconoscere alla fine che il “mio” Bruce Springsteen è sempre stato altro. Niente E Street Band, niente stadi ricolmi, niente folle oceaniche, nemmeno una delle abominevoli dinamiche da stadio, aberranti distorsioni di una realtà almeno altrettanto aberrante, dunque niente biglietti andati esauriti in cinque minuti, niente concerti di tre ore e mezza con un esercito in banana sopra il palco, punteggiati da malori plurimi (i più cagionevoli prontamente raccattati dagli energumeni della security) e cori da curva sud, niente bagarini che, come pusher a South Central o mosche in prossimità di una merda di cane appena cagata, ronzano nei pressi dell’ingresso principale tentando di rivendere biglietti con sovrapprezzi da usura, nessuna coda interminabile al casello, manco un secondo di attesa davanti ai cancelli chiusi, pronti a scattare come manco Carl Lewis per strappare infine un millimetro cubo di zolla in mezzo agli altri assiepati, nella speranza di intravedere un puntino lontano.

Solo lui preso male in una stanza. Il mio Bruce Springsteen sta tutto lì.

Col senno di poi, probabilmente la mia fortuna è stata crescere in un periodo – forse l’unico – in cui un concerto di Bruce Springsteen non rappresentava di per sé stesso un evento: la E Street Band dissolta, anni di silenzio poi Human Touch e Lucky Town usciti uno dietro l’altro e finiti direttamente nelle vaschette degli usati a due lire senza passare dal via, silenzio radio, poi The Ghost of Tom Joad, voce e chitarra, che avrebbe fatto passare la voglia di vivere anche a Lazzaro, in mezzo uno dei suoi pezzi più belli di sempre: Streets of Philadelphia, dove si capisce quanto abbia rubato dai Suicide (ma quelli pilotati da Ric Ocasek) molto più e molto meglio che in State trooper. Di fatto, i soli anni in cui l’infernale ingranaggio di cui sopra si era inceppato. A guardarsi indietro sembra impossibile; a ripensarci, una benedizione.

Solo tornandoci sopra, a mente fredda, scoprivi che quasi in ogni disco (per non parlare della vertigine di inediti che spuntavano fuori a getto continuo, out-takes e pezzi finiti direttamente in colonne sonore che regolarmente superavano il film di almeno tre lunghezze) c’erano queste rasoiate in pieno petto, inferte in piena coscienza, totalmente a tradimento; sfumava un pezzo per big band col sassofono e partiva del tutto inaspettata la legnata cupissima, da depressione senza ritorno, da cui uscire indenni era (è) pura utopia. Roba che agiva sottotraccia, lentamente, inesorabilmente, con effetti devastanti dal punto di vista psichico. Come molti film di Steven Spielberg, che sembrano roba innocua e rassicurante per famiglie con prole al seguito, partono piano e all’improvviso deragliano, sparano del tutto a tradimento il dettaglio perturbante che traumatizza per la vita e diventano qualcosa di minaccioso, ostile e perverso, inabissandosi in una spirale senza ritorno dove risalire la china diventa pura utopia.

Della natura profondamente bipolare della musica di Bruce Springsteen è stato il lato dimesso e lacerante e preso male a conquistarmi. A tutto il resto sono arrivato in un secondo momento: Al testo che parla di che mazza da baseball su per il culo dei giovani americani sia stato il Vietnam, a lui che piscia sulla bandiera nel retrocopertina, ci arrivi dopo, se hai voglia di arrivarci. Anche Reagan c’era cascato, e io con lui.