“La liturgia, come il gioco, ha regole proprie e crea un suo mondo che vale quando si entra in essa e che poi, altrettanto naturalmente, viene meno quando il gioco finisce… La liturgia … [è] una forma diversa di anticipazione, di esercizio preliminare… A differenza della vita attuale, non è intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del donare e del dare” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia)
“La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede… Le immagini del Bello … sono parte integrante del culto” (ibid.)
“Ogni giorno si verificano migliaia di eventi sorprendenti, inspiegabili e perfino miracolosi. Raccontami i tuoi.” (Rob Brezsny, oroscopo, Internazionale, 5-11 maggio 2016)
Abbiamo ascoltato in anteprima il nuovo disco dei Radiohead ed è un capolavoro assoluto. Non è vero, non lo abbiamo ascoltato e al momento non so neanche che titolo abbia (conosco invece ormai bene quello del nuovo Afterhours, storpiato, trollato e lollato da giorni sul web. Il mio personale contributo è: Funiculì o Funiculà. Fa ridere? È che non ho un pubblico tutto mio né amici, e devo dirlo qui), ma ho già assunto una posizione in merito come, del resto, i detrattori.
I Radiohead sono, oltre che l’ultima e la più grande, la sola band ideologica della terra, nel senso che, è stato detto e ridetto, è dal 2000 almeno che impongono la loro linea e sti cazzi. È sempre dal 2000, anno in cui uscì Kid A e nessuno, in un senso o nell’altro, ci capì un cazzo, che i Radiohead sollevano ammirazione a volte anche acritica e ondate di stupido odio, alimentate l’una dall’altra, anche grazie alla fottuta RETE che proprio in quegli anni cominciava a essere più o meno alla portata di tutti. Il fatto è che, io credo e sostengo, se l’ammirazione è perfettamente autocomprensibile e giustificata, è l’odio che dovrebbe piuttosto argomentare, come il negazionismo di fronte alla verità della Shoah, e perciò sono gli odiatori (noi per primi) e non gli ammiratori né gli stessi Radiohead a meritarsi oggi il più tonante dei vaffanculi.
La prima parte del problema è legato alla dannata questione del GUSTO che, credo, sia stata negli anni zero la più dibattuta in assoluto da chi ascoltava musica con abbastanza tigna da parlarne anche online. Il suo corollario era il dibattito sull’OGGETTIVITÀ. Dalle discussioni di musica così intrecciate su questi due concetti di fondo, in sostanza, non si usciva, ma eravamo ventenni e non sapevamo le cose. Ora ho letto abbastanza (dieci pagine di Harold Bloom e le alette di copertina di un libro in inglese intitolato Objectivity) per sapere che, se il gusto esiste, è al tempo stesso irrilevante e insensato se usato come argomento, e quanto all’oggettività, il punto mi sembra essere piuttosto l’innegabile esistenza di gerarchie tra chi usa tutti i mezzi a propria disposizione per cercare di dettare la linea, anche se in un campo irrilevante come il pop, e chi invece non mette il naso fuori dalla sua comfort zone, dai localetti sotterranei con i gruppi assurdi che suonano e che hanno tutto il diritto di vivere e di esistere, ne apprezzo molti, ma a cui in fin dei conti mancano spesso il talento, la voglia o la possibilità di dare ai suoni fichi e ostici una forma che tutti possano capire.
“Gli Autechre lo facevano anni prima!”, dicevano i formidabili stronzi (forse, a volte, me compreso) che all’epoca non riuscivano a sopportare la forza di una Pyramid Song – o il fatto di doverne condividere l’apprezzamento con gente che, in qualche modo, capitava lì per caso – e dopo aver recuperato il mai coperto catalogo Warp ostentava appartenenza al solito club dei duri e puri. Gli Autechre lo facevano col cazzo, oserei dire adesso, perché gli Autechre stavano ai Radiohead di quell’epoca come le cronache danesi medievali stanno ad Amleto. Lo so, è altisonante. Ma in fin dei conti cercare largo consenso attraverso gli strumenti propri della musica leggera, la melodia, la bella scrittura, un certo lirismo, mi sembra un progetto generalmente più condivisibile della chiusura in sé stessi.
La strategia di comunicazione, il marketing, che peraltro mi sembrano efficaci (di Burn the Witch, l’altro giorno, ne parlava – male – pure mi nonna) , non vedo come e perché debbano rappresentare punti a sfavore del tutto, specialmente in un mondo dove tutto è esasperatamente commerciale se non pubblicitario, e dove la definizione buon prodotto non si nega a nessuno ed è di norma considerata un complimento. In un mondo dove Bowie lo può fare alla grande e dove, peraltro, si è finalmente capito che Beyonce, Justin Timberlake o Rihanna non fanno male a nessuno e, guarda un po’, fanno pure musica apprezzabile. Non capisco nemmeno i grandi frizzi e lazzi causati dal fatto che i Radiohead “hanno fatto un video coi pupazzetti”, quando PUPAZZETTO è in fondo la parola che meglio racchiude tutti i contenuti culturali espressi dai fottuti creativi di quest’epoca, compresi quelli che si occupano di bimbi palestinesi, di migranti o di violenza nei college della Ivy League.
Quindi no, Kid A non è la brutta copia di Squarepusher come Elvis non lo era dei canti degli schiavi, Amnesiac non è la brutta copia di Kid A, ma lirico e inarrivabile ai più come i migliori momenti di Hail to the Thief, In Rainbows e King of Limbs (un album che, quando mi arrivò in forma di quotidiano, per irritazione neanche scartai e sbattei da una parte. Poi lo ho sentito per caso in un negozio, mi ha fatto il culo e, dandomi dello stronzo cento volte, ho sviluppato le convinzioni di cui sopra. Il disco ce l’ho però ancora col cellophane). Si potrà essere in disaccordo con me, ma trovo il gesto – di comunicazione, ok – di cancellare tutti i contenuti dal web un atto molto più politico di quelle fregnacce da diplomati IED con, non so, le modelle col bavaglio sulla bocca l’8 marzo o la gente che manda a Repubblica i selfie con l’agenda rossa di Borsellino.
Amo i Radiohead, i pupazzetti di pongo, i loro ultimi due video hanno ridisegnato il mio immaginario e, lo sospetto, qualcuno a momenti mi dirà che questo è tutto un mio trip; ma in fin dei conti, se potessi scegliere per me un aspetto diverso dal mio, sceglierei quello da monaco anacoreta del Thom Yorke di oggi, per sempre perso nella ricerca dell’album perfetto (e nel modo più stronzo possibile di confezionarlo).