il disco più bello di sempre e l’altro disco più bello di sempre

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Io vivo di sentimenti, e quindi, questi, li ho rimasti tutti.
(Arrigo Sacchi)

Ho scoperto i Red House Painters con il secondo omonimo – Bridge lo chiamavano per comodità, perché in copertina c’era la foto di un ponte in mezzo alle frasche – a distinguere dall’altro omonimo, che invece in copertina aveva la foto di un ottovolante arrugginito (da qui, Rollercoaster). L’andazzo lo capivi già da questi gesti: prosaici, elementari, ai confini con l’autismo; quello che porta a fissare una parete bianca per settimane, a non fiatare per anni, forse per sempre, non cinema alla Rain Man. Il pacchetto completo: niente testi, nessuna informazione a parte i titoli dei pezzi, nomi e cognomi evocativi quanto un tampone assorbente e stop, no testi, nel libretto spazi bianchi alternati a foto virate seppia, paesaggi rurali o dettagli senza importanza, globalmente quadretti di rara desolazione e profondissimo abbandono (naturale, mentale), senza alcun elemento umano a spiccare da qualche parte nel niente. L’empatia è scattata all’istante, qualcosa con cui potevo agilmente relazionarmi. Ero in piena fase di rigetto (come dicevano i Gronge), c’ero dentro. Troppo poche primavere sulle spalle, troppo poca esperienza. Salito sulla giostra, finito ustionato un paio di volte, abbastanza da non volerlo ripetere. Superstite autoproclamatosi tale. Nel dubbio mantenere le distanze, in qualsiasi caso, la guardia sempre alzata. I rapporti umani un’eventualità da cui proteggersi, un fastidio da cui tenersi alla larga; incidenti da evitare, circostanze da non cercare né desiderare se non attraverso il filtro del ricordo e del rimpianto verso storie ormai lontane che accidentalmente mi avevano scoperto coinvolto. I dischi armature, scudi innalzati a proteggere dalla cosa vera; un filtro, un tramite. Strumenti per vivere in terza persona, attraverso l’eco di parole e suoni dentro cui sentirsi rispecchiati era fin troppo facile (e comodo, anche), al riparo da situazioni che portano ferite e comportano dolore. In un assetto mentale del genere, Mark Kozelek lo spirito affine più congeniale potessi incrociare sul tracciato; il mio negro fin dal giorno uno.

In alcun modo sarei comunque potuto arrivare preparato al primo contatto: Evil tra i pezzi più terrificanti abbia mai ascoltato, lo è ancora. Da affiancare a We’ve only just begun, a Farmer in the city, alle urla finali in Dead skin mask, a pochissimo altro in realtà. La rappresentazione quanto più possibile grafica dell’orrore puro, come vedere per la prima volta La casa dalle finestre che ridono a sei anni, in piena notte, da solo in qualche casolare pieno di spifferi disperso nella bassa padana più bieca. Esperienze che segnano in tal senso; esperienze in grado di rovinare un’esistenza, di spingerla a imboccare il sentiero sbagliato. Poi la rivelazione (soltanto una delle, ma intanto): a tirare giù il testo di Bubble ho impiegato nemmeno ricordo più quanto. Mesi, parecchi. Il quadro generale era chiaro, non stava lì il problema: volevo il quadro completo. Regolarmente mi incagliavo in certi passaggi, su certe parole al mio orecchio indecifrabili che facevano franare l’impalcatura. Un dolce sbattere la testa in ogni caso: anche con frasi monche, una situazione che in quel momento mi rappresentava al millimetro. A lavoro ultimato, come se avessi decifrato la Stele di Rosetta.

Di I am a rock ho scoperto prima la cover dell’originale: tra i regali migliori abbia mai ricevuto da uno sconosciuto. Prima di mettersi a coverizzare la qualunque, Kozelek era davvero bravo. Allo stesso livello me ne vengono in mente pochi altri: Mike Ness, Evan Dando. Anche qui, aveva capito lo spirito (quale che fosse) restituendolo migliorato; bella Art Garfunkel ma questa volta non c’è partita, non c’è storia proprio. La magia si sarebbe ripetuta con Shock me dei Kiss, qualche pezzo degli AC/DC su Rock’n’roll Singer e What’s Next to the Moon, poi mai più. Altri numeri a seguire: la stasi liquida di Helicopter, quando ancora l’eroina scorre nelle vene, gli ultimi istanti di beatitudine prima dell’atterraggio; una rilettura di New Jersey migliore dell’originale; Uncle Joe, per cui chi sa non ha alcun bisogno di parole per ricordare, e chi non sa con un po’ di fortuna non saprà mai; l’urlo sul finale di Blindfold che è Kurt Cobain meglio di Kurt Cobain, Star spangled banner la prima pisciata fuori dal vaso, indesiderata e non richiesta, presagio che sarebbe sfuggito pure a Cassandra. Su tutto un senso di oppressione soffocante, spesso letteralmente insostenibile; un’incudine sul torace 24/7, la tragedia che dorme ai piedi del letto, il respiro affannoso che tiene svegli (come dicevano i Bloodlet). Lo sapevano bene le pareti della mia stanza quanto ho amato questo disco.

 

Si respira un’aria diversa in Ocean Beach, diametralmente opposta. È il disco della presa a bene, della decompressione, come togliersi dalle spalle un fardello di diecimila chili, in quel momento la certezza assoluta di non indossarlo mai più. È ancora così per me. Ocean Beach è sempre il disco a cui ritorno ogni volta che decido di stare bene indipendentemente dalle circostanze, ogni volta che voglio sole su di me anche quando il sole non c’è, quando il sole non esiste se non dentro la mia testa. Bisogna meritarselo Ocean Beach, non funziona in quanto tale. Richiede un cambio alla base (cambio di velocità, cambio di stile, cambio di scena, nessun rimpianto, come diceva Ian), ne potenzia gli effetti. Il primo, immediato: la sensazione di tornare a respirare a pieni polmoni per quella che ogni volta sembra la prima volta. Il rilascio è immenso, il sollievo incalcolabile. È taumaturgico, sciamanico, come Gil Scott-Heron quando ripete be no rain con la fermezza di un samurai, arrivando a farlo credere davvero. Un miracolo.

Ocean Beach è la sonorizzazione di un temporaneo stato di grazia come i dischi precedenti dei Red House Painters sono stati la sonorizzazione di alcuni tra i più molesti mostri nel cervello una mente umana potesse partorire. Solo chi è o è stato profondamente infelice sa riconoscere, isolare e comprendere entrambe le facce della medaglia. Qui è quando Mark ha deciso, ha scelto, di voler stare bene. Un dono da accettare grati. I momenti tetri sono pochi, rari e lontani uno dall’altro; anche in quei momenti la tristezza non diventa mai disperazione, non un solo istante riemerge il nero che avviluppa i dischi precedenti come una cappa vischiosa da cui uscire resta impossibile. Nessun pezzo uno strumento di tortura, come più volte è stato in passato, una tenaglia che serra la gola quando la vita collassa. Shadows, Drop, più sul contemplativo, altra aria. A rimanere marchiati nella memoria i momenti allegri, allegri sul serio. Gli scambi di battute che aprono Over my head, ai più incomprensibili, in un clima confidenziale, rilassato, così diverso dalla risata sconsolata che apriva Evil, preludio alla pece senza ritorno. San Geronimo, autentico luogo dell’anima. Mai stato a San Geronimo. Nemmeno so se esista una San Geronimo. Ma nella mia testa ci sono tornato decine di volte. Nella mia testa è il mio posto preferito. Associo quel luogo che non ho mai visitato a tutti i posti in cui sono stato (meglio se in aperta campagna, meglio se in primavera o estate, comunque in giornate lunghe e piene di sole), da bambino o non più bambino, a quel momento della giornata dove a una certa ora prima del tramonto mi avveniva di sentirmi contento (come diceva Mersault).

Ocean Beach è il motivo per cui disprezzo quel che Mark Kozelek è diventato. La china che inesorabilmente continua a discendere. Le polemiche montate con band inesistenti, qualsiasi scoreggia stampata per fare cassa, cose del genere. Derive che mai avrei sospettato un giorno sarebbero diventate la sconfortante quotidianità di un uomo un tempo immenso che ha saputo essere Neil Diamond meglio di Neil Diamond, Scott Walker prima di Scott Walker (e senza sterili menate ombelicali), qualcosa di speciale sul serio per chiunque per qualche motivo a un certo punto si sia trovato senza nafta nell’autostrada della vita. Ocean Beach usciva oggi, vent’anni fa.

THE LOAF MAKER – Mark Kozelek/Sun Kil Moon live a Roma

Kozelek

Il biglietto per il concerto di Mark Kozelek l’ho comprato sei mesi fa, da un service di Avellino, o Avezzano, tipo, che serve il Circolo degli Artisti da qualche tempo. L’ho preso la notte stessa in cui avevo ascoltato Benji la prima volta e, preso da questo inconsueto fuoco sacro per il sostanzialmente mai cacato Kozelek[1] – fuoco sacro che mi illudo, come tutti, non avere niente a che fare con la recensione di Pitchfork – ho gridato verso il cielo notturno: COME VORREI SUONASSE A ROMA!, venendo per una volta, una soltanto, esaudito all’istante da Dio, che modificando all’istante la mia ricerca Google, mi deliziava indirizzandomi al service di Avezzano di cui sopra. Ed ecco finalmente un punto, e la fine di un periodo. Che poi, cazzo volete, Thomas Mann li metteva, forse, i punti? Thomas Mann di merda. Tisico del cazzo. Questo Caspar Torp[2], lì, come si chiama il protagonista della Montagna magica? Che poi, la montagna magica per me è sempre stata quella che sovrasta Avezzano, e che accoglie Pescasseroli e la pizzeria San Francisco, la migliore del mondo, che ci crediate o no (la seconda è quella della stazione di Avezzano, non distante dalla quale, tra l’altro, c’è una terza pizzeria che si chiama Nebraska).

Il concerto di Mark Kozelek, dicevo, si è tenuto a Roma la sera del quattro aprile, e non ho alcuna intenzione di recensirlo qui. Il fatto è che le recensioni di concerti non le ho mai capite, perché quale vuoi che sia, il messaggio, alla fine? È stato una ficata, o tu merdaccia che non c’eri, oppure è stato una merda, hai fatto bene a risparmiare i soldi – non che io li abbia spesi, HOT LOAL, perché ero accreditato da un qualche cazzo di media (per la cronaca, di norma Bastonate, oltre al già congruo mensile, ci rimborsa le spese di tutti i concerti compresa una maglietta al banco. Questa volta ho scritto al Direttore, che cazzo, che le magliette di certo non ci sarebbero state, e perciò era un po’ una truffa: per evitare azioni sindacali, mi ha mandato gli otto euro del biglietto in francobolli). Su Mark Kozelek, non saprei cosa dirvi. La cosa che essenzialmente si è perso chi non dovesse essere venuto è uno scazzato totale con una gran voce. Non parlo di me, ma di Kozelek, totale odiatore dei romani  – il che sarebbe anche comprensibile, di norma, ma non nel caso di una audience composta da romani derelitti e innamorati di Kozelek – e facitore non già di loffe[3] (non escludo, ma per fortuna non posso saperlo), ma di tagliente ironia non-divertente, tipo che a Roma c’erano un sacco di graffiti, che ok dillo una volta e il pubblico reagirà con un LOAL (=il pubblico di qualsiasi concerto reagisce con un LOAL a qualsiasi cosa dica il cantante tra una canzone e l’altra), dillo due volte, dillo persino tre se vòi, ma a un certo punto a Markò, amo capito, mo basta.

Il concerto di per sé, che dire, non c’è concerto di per sé in realtà, la ficaggine-stronzaggine dell’artista essendone parte integrante (se non siete d’accordo ascoltatevi il vostro Brahms).  Diciamo che si è trattato del più grande minore del ventennio che eseguiva, voce e chitarra acustica, alcuni dei pezzi più belli sentiti negli ultimi anni, in particolar modo Carissa e I Watched the Film the Song Remains the Same. Perché Benji è un disco straordinario – è qualcuno che ti ha raccontato la verità, e pur facendolo ha mantenuto la grazia di chi si inventa tutto. Che poi c’è questo problema ontologico[4] dell’influenza che i concerti hanno sui dischi: vai a vedere Mark Kozelek convinto che Benji sia l’album dell’anno, torni con lui che ti ha mandato affanculo senza ragione e neanche ti va più di sentirlo. Mia moglie, che è una donna onesta, e ha questa straordinaria capacità di apprezzare o meno gli album senza bisogno di un particolare impianto ideologico, ama Kozelek da anni ma Benji non le piace particolarmente. Io non lo so se questo significa qualcosa, ma l’altra sera lui portava una camicia troppo stretta, e i capelli troppo spessi e crespi, e siamo andati via un po’ prima della fine, con la sensazione che qualcuno ci avesse mentito.



[1] Non del tutto vero. Mi piaceva Kozelek, e una volta, al liceo, imposi un disco dei Red House Painters ai miei amici pariolini in un weekend che passammo nel Cimino. Non ricordo che disco fosse, ma ricordo che suonava nello stereo, un sabato pomeriggio o quello che era, uno stereo abbandonato lì, nella campagna, mentre tutti si facevano i cazzi loro – le canne, le partite di calcio – e io ascoltavo questo Mark Kozelek che riempiva l’aria come in un romanzo o in un blog piagnone, sapendo fin da allora che le sensazioni prevalenti al momento – che quella musica non sarebbe mai più stata così bella, e che le cose piagnone e sdolcinate come questa stessa nota sono a volte profondamente vere – sarebbero state con me tutta la vita, quando sarei andato all’università, quando avrei perso tutti gli amici di quel giorno.

[2] Hans Castorp. Ho controllato dopo. Ma il lapsus mi piaceva, e per onestà intellettuale lo ho lasciato.

[3] Devo spiegarla: mio padre, dieci o quindici anni fa, una mattina si svegliò ridendo dalle lacrime: aveva sognato di essere a Napoli con un importante industriale della zona, e di essersi rifugiato con lui in un portone a causa di una pioggia improvvisa. A questo punto, il tizio gli aveva detto: “È venuta repentinamente, comm no facitore ‘e loffe”.

[4] Almeno credo sia “ontologico”, non faccio filosofia, io sono un catalizzatore di energia (=non ho idea di che cosa io stia citando a memoria ma potrebbe essere Jovanotti).