L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 11-17 aprile 2011

 
Dice che in settimana le temperature scenderanno di dieci gradi. Speriamo, che ad andare avanti a 30 e passa gradi ad aprile magari è la volta che a giugno si schiatta sul serio. Comunque vada, occhio alla pioggia radioattiva.
Se ieri sera anche voi come me vi siete persi Arrington de Dionyso al Modo Infoshop (io a quell’ora ero a farmi trapanare i timpani dai Lucertulas al Leviatani&Zanzare, voi?), potrete rimediare oggi recandovi allo spazio Meme a Carpi (vicino a casa del Menarca quindi), dove dalle 19 in poi l’irsuto clarinettista flippato per le nenie indonesiane presenzierà alla sua mostra di disegnini accompagnandola con un bel concerto; tutti i dettagli Qui. Martedì a parte lo schizzato Allevi alle Celebrazioni o le mummie semoventi America al Manzoni in giro non c’è nient’altro quindi a meno che non siate cultori della merda o pellerossa ottuagenari in vena di nostalgie potete tranquillamente dedicarvi alla costruzione del vostro rifugio antiatomico (noi lo faremo).
Mercoledì a MeryXM si parla di cinesi e a seguire concerto a base di rumorini analogici e strumenti autocostruiti (info Qui); giovedì, per la serie “ma comunque non riescono a farla finita”, gli Asian Dub Foundation all’Estragon (dalle 23, quindici euro). Troppo 1999.
Venerdì (e sabato) overdose crust punk core animalista all’XM24 con contorno di foto e video di animali carini torturati e gran scorpacciate di tapioca e farro e azuki e succo di carota e soia soia soia soia come se piovesse; dalle 22,  prezzi politici, spuntoni appuntiti e giubbotto sbrindellato con toppe di gruppi D-beat a random obbligatori. Venerdì ci sono anche gli inossidabili Rage al Sottotetto, e sabato Nargaroth (più altri quattro gruppi black metal tutti uguali) al Blogos (dalle 20, venti euro), i nuovi mai-più-senza del post-dubstep peNsante et intellettualmente stimolante Darkstar al Bronson e Lindo Ferretti in amarcord spinto al Velvet (a seguire dj-set amarcord pilotato).
Domenica si piange, si sgranano rosari, ci si cosparge di ragnatele e si sniffano ossa umane polverizzate come se non ci fosse un domani: arrivano i Pentagram in data unica al Bronson, un appuntamento che, per chi sa, ha il sapore del regalo.

 

Perché il freddo, quello vero, sa essere qui, in fondo al mio cuore di sbarbo.

un'istantanea di Justin Broadrick il giorno in cui ha appreso di aver vinto al Bingo

 
Nei mesi più freddi dell’anno è Justin Broadrick overload. In forma come non succedeva da anni (che per uno iperprolifico come lui sono l’equivalente di ere geologiche per gli esseri umani normali), come se il connubio autunno-inverno, e il buio, e il ghiaccio, e la luce gialla dei lampioni la notte, e il clima sempre più rigido e le giornate sempre più corte avessero riacceso un’ispirazione che da sempre si nutre di climi aspri e zone inospitali della mente, e cresce e prolifera in tunnel abbandonati e stanze piene solo di silenzio.
Contemporaneamente al fenomenale Christmas di cui abbiamo già parlato è uscito, sempre in digitale e sempre acquistabile sul sito della Avalanche Inc. alle solite tre sterle, un nuovo EP di Final; My Body Is a Dying Machine (si parte bene già dal titolo) contiene alcune delle cose migliori incise dal proteiforme Broadrick sotto la denominazione più longeva della sua intera carriera (appena tredicenne titolò così i suoi primi demo) dopo quell’abissale viaggio al termine della notte che era (è) il doppio 3 del 2006; probabilmente conscio dell’irripetibilità dell’atto, Broadrick/Final si era poi perso dietro troppi album di improvvisazione per sola chitarra, a volte chitarra e basso, pubblicati in tirature ultralimitate e venduti esclusivamente ai concerti, cui sarebbe seguita una serie di dischi anche piacevoli (se tra le vostre idee di ‘piacevole’ è contemplata un’ambient asfissiante, ultraminimale, da tecnici del suono malvagi e semiautistici presi male) per quanto in eccessiva contemplazione del proprio ombelico (molto bello comunque Fade Away del 2008). In mezzora scarsa Broadrick torna alla guerra: Gravity irrompe immediatamente e di diritto ai piani alti della graduatoria dei pezzi più belli mai incisi dall’uomo, sei minuti di estatiche rifrazioni e angeliche stratificazioni di drones ipersaturi sospesi nel niente che ridefiniscono fin dentro le ossa concetti come ‘nostalgia’, ‘perdita’, e ‘rimpianto’, una morsa di dolore puro che spreme il cuore come un limone troppo maturo e che è l’unico punto d’incontro ipotizzabile tra la 4AD dei tempi belli e il noise più fiero, con un’intensità che basterebbe ad alimentare legioni di centrali nucleari per l’eternità. La title-track (riproposta anche in chiusura in versione ‘live’) procede implacabile come un boia narcolettico per accumulo di pulviscoli di suono (una chitarra e uno stuolo di pedali da rendere irriconoscibile qualsiasi sorgente) pungenti e carezzevoli come cristalli di neve sulla pelle fresca; Black Dollars è una distesa di pece dove la paranoia è annegata da secchiate di sedativi da mandare all’altro mondo uno stegosauro, A Slight Return introduce repentine sciabolate di luce in un’oscurità liquida e ipnotica da trip senza ritorno, un pezzo che come ho letto da qualche parte* è la colonna sonora ideale per una love story tra giovani eroinomani.
My Body Is a Dying Machine raccoglie materiale composto tra il 2005 e il 2010, ma è questo il periodo adatto per fargli spazio nelle vostre vene.
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Gruppi con nomi stupidi “the Christmas edition”: SKITLIV

 

Il disco delle feste 2010 (ma anche del 2009, e del 2011, e del 2012, e se il mondo non sarà andato a puttane del 2013, e… insomma, avete capito) è stato senza dubbio Skandinavisk Misantropi di Skitliv. Skitliv (che significa “vita di merda” in norvegese) è il progetto principale di Maniac; per chi ha avuto un’adolescenza normale, Maniac è stato il cantante dei MayheM (sai, quei norvegesi matti che si ammazzavano tra di loro) dal 1986 al 1988 e dal 1995 al 2004. Pare sia stato cacciato dalla band perché costantemente ubriaco o strafatto di medicinali che avrebbero dovuto fargli passare la voglia di bere (al suo posto è rientrato il temibile ungherese tossico Attila Csihar, già negli psicotropi Plasma Pool, cantante per caso su De Mysteriis D.O.M. Sathanas poi sfruttatissimo dai Sunn O))) ogni volta che sentono il bisogno di vocals maligne) . Il vero nome di Maniac è Sven Erik Kristiansen; vive a Oslo, ha due figli, il corpo disseminato di tatuaggi più o meno da ergastolano e somiglia vagamente a Marco Materazzi. Soprattutto, canta in un modo assolutamente spaventoso, malsano e profondamente perturbante, impossibile da replicare quanto da raccontare; ci si è avvicinato più degli altri Malfeitor Fabban quando nella recensione di Wolf’s Lair Abyss scrisse che la voce di Maniac sembra provenire da un essere deforme incapace di aprire la bocca per bene (le parole precise non le ricordo ma il concetto era questo). Da quelle corde vocali indistruttibili prendono forma i latrati più raccapriccianti che mente umana possa concepire; dopo il trattamento-Maniac, ogni frase diventa un incubo senza fine, ogni periodo la strofa di una poesia in una lingua sconosciuta il cui suono delle parole basta a fare impazzire di terrore.
Insieme al problematico (Niklas) Kvarforth degli Shining svedesi (quelli depressi, non i segaioli jazz) ha dato vita a Skitliv poco dopo la cacciata dai MayheM (la line-up comprende anche tale Ingvar alla seconda chitarra, Tore Moren al basso e una serie già piuttosto lunga di batteristi avvicendatisi in puro Spinal Tap style). Skitliv è la proiezione del marcio universo interiore dell’artista, della sua squilibrata visione del mondo e delle cose del mondo; musicalmente si articola in un black doom metal strisciante, affilato e implacabile, indolente come un pluriergastolano la domenica pomeriggio e gradevole come un appestato che viene a bussare alla tua porta alle quattro del mattino. Ma la componente in assoluto più straniante è costituita dai testi, spesso chilometrici, in cui l’autore si mette a nudo con una brutalità e una totale mancanza di sovrastrutture perfino imbarazzante; il fatto è che il più delle volte le liriche di pezzi dai titoli già di per se emblematici (Slow pain coming, Hollow devotion, Towards the shores of loss, ecc.) sembrano riflessioni private dal diario segreto di un liceale particolarmente problematico dopo la prima pippa con Baudelaire, un devastante incrocio tra inettitudine cronica e intuizioni fulminanti, atroci velleità da poeta maledetto e dolore puro, affettazione sgangherata e disagio tangibile e tagliente come lame, su tutto il riflesso di un ego ipertrofico e straripante, frenetico e sgraziato e probabilmente rimasto imprigionato in un’età mentale che si aggira intorno ai quindici-sedici anni. Veramente micidiale. Forse soltanto i deliri poliglotti dei Worship del terminale Last Tape Before Doomsday sono riusciti a evocare parte degli stessi scenari (tanto per capire di cosa stiamo parlando, poi il gruppo – perlomeno la prima formazione – cessò di esistere dal momento in cui il cantante-batterista-compositore principale Max Varnier si suicidò lanciandosi da un ponte). Skandinavisk Misantropi è il disco che risveglia il peggiore lato oscuro dentro ognuno di noi, ricordi di emozioni che il subconscio si affanna quotidianamente a sotterrare. Pochi dischi, in questo senso, sanno essere altrettanto molesti. Dal 2009 in poi (anno di uscita di Skandinavisk Misantropi), probabilmente nessuno.
Messe di ospiti più o meno ininfluenti alla riuscita del tutto; tra gli altri un catacombale Gaahl, l’amico Attila Csihar e un esagitato David Tibet che declama stronzate nell’intro di Towards the shores of loss.

Il juke-box del suicidio

L’altro giorno Reje mi ha scritto che era uscito il nuovo dei Canaan. È una specie di rituale: Canaan e Colloquio sono i nostri Beatles e Rolling Stones, e la data esatta di uscita del nuovo disco è un evento da segnare sul calendario. In questo, Reje è sempre stato sul pezzo molto più di me, controllando quotidianamente il sito della Eibon – unica fonte per notizie di tal genere – e guai a sgarrare, con la perseveranza e la devozione che solo chi è stato un fan maniacale può conoscere. Quando è uscito l’ultimo dei Colloquio mi ha addirittura telefonato. Io, onestamente era da un po’ che avevo mollato il colpo, anche solo per una banale questione di autoconservazione: avessi continuato a sottoporre la mia mente e il mio fisico all’ascolto reiterato di quei dischi, a quest’ora non sarei qui a scrivere ma sotto un cipresso a farmi divorare anzitempo dai vermi. La ragione è che i Canaan (e i Colloquio, e i Neronoia, che è un progetto in cui confluiscono Canaan e Colloquio, il che è come dire morte più morte) avevano (hanno) il potere di amplificare ben oltre il limite dell’umanamente tollerabile una gamma di sfumature della tristezza virtualmente inesauribile.
Chi non ha mai sentito una canzone dei Canaan finora si è perso una delle colonne sonore migliori per i momenti (o giorni, o mesi, o anni, o vita) di disperazione più nera e dolore mentale più puro, senza filtri né barriere di sorta. Il leader e compositore principale del gruppo, Mauro Berchi, è un professionista della depressione; la sonda, la misura, la abita probabilmente da sempre, l’ha analizzata e vivisezionata instancabilmente, per anni, in lunghe interviste che somigliano piuttosto a esaurienti trattati di psicanalisi, l’ha plasmata a proprio piacimento (si fa per dire) lungo canzoni e dischi che sono la voce di chi la speranza l’ha già persa da un pezzo ma che comunque, per ragioni che ignoro, non riesce a farla finita, l’ha incanalata, attraverso una serie cruciale di uscite-chiave, in una piccola etichetta discografica che è stata un autentico faro nella notte senza fine degli afflitti, i deboli e gli umiliati (ma solo quelli con gusti musicali tendenti al dark più tetro, all’ambient più opprimente e al power electronics più molesto). Dopo aver subito un disco dei Canaan anche aver vinto alla lotteria sembrerà una disgrazia insormontabile. È roba pericolosa, roba che avvelena l’anima, che entra dentro la carne come una coltellata, ed è roba a cui – vai tu a sapere per quali masochistici motivi – non riusciamo a fare a meno.
Credevo di essermi liberato dell’allucinante cappa oppressiva dei Canaan dopo The Unsaid Words, disco che stranamente sentivo ‘distante’, che non mi rispecchiava al 300% come gli altri, e allora avevo lasciato perdere, avevo cercato altrove, ero perfino arrivato a dimenticarmi della loro esistenza dopo il secondo Neronoia; per alcuni mesi sono sicuro di non avere mai, nemmeno per un istante, pensato ai Canaan. Ma è impossibile cambiare quel che siamo, ecco perché non appena Reje mi ha scritto che sul sito della Eibon erano stati caricati due samples del nuovo album dei Canaan mi ci sono precipitato, e poi ho ritirato fuori l’intera discografia e me la sono sucata tutta dall’inizio alla fine, da Blue Fire a The Unsaid Words (che peraltro mi ha dilaniato come mai prima), un tour de force assolutamente scriteriato nelle pieghe dello stare male gratis, l’ultima idea che dovrebbe venire a un essere umano anche solo parzialmente sano di mente se non come anticamera del suicidio. Il prossimo step si intitola Contro.Luce, ed è una tortura a cui non vediamo l’ora di sottoporci. Non lo consiglio soltanto perché non vorrei cadaveri sulla coscienza, però insomma, sapete cosa fare.

Rozzemilia issue #6: MAHATMA/MOTHER PROPAGANDA

(foto di Maria Ambra Silvi)

L’estate 2009, come del resto gran parte delle estati nei dieci anni precedenti, era cominciata anzitempo: già a metà maggio si crepava di caldo fin dalle prime ore del mattino, una cappa di umidità asfissiante e impenetrabile avvolgeva costantemente la città come un sudario e gli unici momenti di tregua erano – quando andava bene – quelle due-tre ore nel pieno della notte in cui, se si era particolarmente fortunati, arrivava pure ad alzarsi una lievissima brezza. Nel tentativo di tornare a respirare per un po’, scappavo al Lazzaretto ogni volta che potevo. Il Lazzaretto è stato la mia seconda casa, oltre che il migliore centro sociale che Bologna abbia mai avuto (di quelli che ho fatto in tempo a vivere perlomeno; ero troppo piccolo e troppo pavido per varcare l’ingresso dell’Isola nel Kantiere quando c’era): una vecchia casa colonica sopra un pezzo di terra che era quasi campagna, da una parte il deposito dei treni e dall’altra il verde, nessun vicino a rompere il cazzo per i volumi, concerti e dj-set quasi tutte le sere, prezzi bassissimi, orari indefiniti, clima temperato e la compagnia di persone con gli stessi interessi. È stato lì che ho visto per la prima volta all’opera i Mahatma. La cornice era una maratona di otto ore di concerti – prevalentemente crust-hardcore – organizzata i primi di giugno come costola del Festival delle Culture Antifasciste, che si teneva in un posto dove invece di problemi con il vicinato ce n’erano eccome: a mezzanotte bisognava chiudere e quindi la serata si spostava al Lazzaretto. Dopo una serie di gruppi grind tutti identici, intorno alle 5 di mattina hanno cominciato a suonare i Mahatma; la formazione era il classico power-trio chitarra basso batteria con un paio di pedali a supporto per rendere il suono (ancora più) crasso e pastoso come un tocco di hashish quando ti si sfalda tra le dita. Esteticamente sembravano una frangia ribelle di hippie appena scappati dalla comune dopo aver sgozzato tutti gli altri: altissimi e dinoccolati, macilenti come una scultura di Giacometti, calzoni sdruciti, magliette sformate che neanche l’esercito della salvezza, capelli lunghi a coprire il viso. Non ci voleva un genio per capire che la musica sarebbe stata diversa, molto diversa, dal precedente bailamme antagonista ipercinetico. E infatti bastarono un paio di riff in cadenzata successione per catapultare la mente in un universo parallelo deformato e deformante, popolato da visioni spettrali, lo stesso luogo che nei decenni precedenti è stato zona franca di spericolati corrieri tossici delle più svariate origini ed estrazioni, unico comune denominatore la propensione naturale all’esplorazione delle zone più oscure del subconscio, preferibilmente con i sensi alterati da dosi robuste di sostanze psicotrope: dai Black Sabbath ai Blue Cheer, dai Saint Vitus agli Electric Wizard fino alle cavalcate stupefacenti (in senso chimico) degli Hawkwind e le risacche acide dei primi Monster Magnet, tutta roba che convergeva nelle micidiali jam semi-improvvisate dei Mahatma, ognuna un diverso microcosmo maligno a sé bastante, sulfureo come una vecchia cava siciliana e spaventoso come una corsa a perdifiato nel buio. Non ero drogato quella notte, ma già dopo il primo pezzo mi sentivo come se avessi tirato a più non posso per ore e ore da un chillum grosso e grasso come una bottiglia di minerale. Trattandosi di un trio di doom rock interamente strumentale la prima associazione mentale a scattare è stata quella – assai prevedibile – con i Misantropus, grandissimo e misconosciuto trio di Latina autore di un paio di splendidi album pubblicati tra il 2000 e il 2002 e tirati esclusivamente in vinile; ma rispetto a loro i Mahatma inglobavano nel loro suono una componente lisergica autenticamente minacciosa e insidiosamente inquietante, pur conservando al tempo stesso una condivisa propensione alla concisione e al controllo. Il risultato, ipnotico e destabilizzante, era una serie di brani (relativamente) brevi e totalmente privi di sbracate divagazioni ad minchiam (che restano il rischio maggiore di qualsiasi musica anche solo vagamente improvvisata), un blocco di suono compatto, magnetico, atemporale.
All’uscita il sole era già alto; intercettando il gruppo per i doverosi complimenti sono venuto a sapere che quello era stato il loro secondo concerto in assoluto (o qualcosa del genere). Da allora non li ho più visti suonare; ogni tanto incontravo casualmente il bassista o il batterista da qualche parte in giro (o l’uno o l’altro, raramente tutti e due insieme), soprattutto all’Atlantide o all’XM24, spesso a orari disumani. Ho poi imparato che il chitarrista Eugenio si è trasferito a Roma, il bassista Tommy è passato alla chitarra e insieme col batterista Carlo hanno proseguito cambiando il moniker in Mother Propaganda. In questa veste li ho sentiti venerdì scorso all’XM24, in una situazione praticamente speculare alla precedente: festival lunghissimo e inizio del loro set intorno alle 5 del mattino. Nemmeno stavolta ero drogato, però non mangiavo da circa 24 ore e i visuals allucinanti (un mix di scenari ultrapsichedelici in computer grafica alternati a scene da Il mostro è in tavola barone Frankenstein) facevano il resto; la musica non è cambiata rispetto ai Mahatma, sempre lo stesso trip velenoso e deragliante e allucinatorio ma la cura nei suoni è maggiore e i pezzi più incarogniti e il groove mentale e assassino assolutamente impressionante. Una macchina da guerra, Tommy con il suo arsenale di pedali (alcuni dei quali autocostruiti) e Carlo che sente ogni colpo sulle pelli come fosse l’ultima cosa da fare prima dell’apocalisse. Come Mahatma hanno inciso due CD-R (l’omonimo e Gilgamesh, entrambi in free download sul loro myspace) ma per ora il vero viaggio è live; con qualche altro concerto all’attivo e un ingegnere del suono coi coglioni potrebbero far piangere parte del catalogo Southern Lord. In ogni caso, musica che farebbe diventare tossico anche Ian MacKaye. Una benedizione.