Junior Kimbrough ha inciso il suo primo long-playing a sessantadue anni. Junior Kimbrough era uno di quei figli di puttana conclamati che se li incontri per strada cambi marciapiede, tanto sgradevole, imprevedibile e pericoloso nella quotidianità quanto geniale e rivoluzionario con la chitarra in mano (il suo blues sinistro e ipnotico, ottenuto picchiettando con il pollice le corde delle note più basse, in una specie di drone regolare e continuo, resta tra i lasciti più inimitabili e fieramente incompromissori dell’intera storia del genere). Secondogenito di una famiglia di contadini di Hudsonville, Kimbrough scopre la musica a sei anni, più o meno nello stesso periodo in cui rischia per la prima volta il coma etilico; non molto tempo più tardi si rende conto che la placida monotonia di un posto sicuro alla John Deere non è lo stile di vita per cui è tagliato. Inizia a frequentare i juke joints, e ben presto diventa uno dei più temibili biscazzieri dal grilletto facile di tutto il Mississippi. Da lì in poi, come sempre accade, i confini tra storia e leggenda si fanno sempre più labili e sfumati, le carte si mischiano, fino a quando l’una e l’altra si compenetrano tanto inscindibilmente da diventare impossibili da distinguere; di certo si sa che Kimbrough ha pubblicato un singolo (la cover di Tramp di Lowell Fulson) nel 1967, uno nel 1982 e praticamente nient’altro fino al 1992, anno della consacrazione definitiva grazie soprattutto all’interessamento del critico e autore Robert Palmer (niente a che vedere con l’autore di Johnny & Mary). Nel mezzo, una serie infinita di furti, truffe, risse e tentativi di stupro e omicidio, una collezione di misfatti incredibile per vastità e varietà, molti dei quali oggetto dei suoi stessi pezzi (un esempio? You better run, tra i suoi brani più famosi, è indirizzato a una donna che Kimbrough sta per violentare). Fino alla fine dei suoi giorni (morì nel 1998, a sessantasette anni, per un attacco di cuore causato dalle conseguenze di un ictus), metteva paura solo a guardarlo; la fama che lo precedeva era agghiacciante, e bastava incrociare il suo sguardo o sentirlo parlare per un istante per capire che le dicerie che circolavano sul suo conto erano tutte vere, fino all’ultima. Incontrollabile nella lotta a coltello come tra le lenzuola, lascia al mondo una trentina tra figli riconosciuti e illegittimi.
Ho ascoltato per la prima volta Done got old nella versione contenuta in Do The Rump!, raccolta di sessions risalenti al 1988 pubblicata nel 1997 sotto la ragione sociale Junior Kimbrough & the Soul Blues Boys; fin dal primo impatto non ho avuto dubbi di trovarmi di fronte a una delle più grandi canzoni sulla vecchiaia mai scritte, forse la migliore. Non è solo per il giro di chitarra o le cose che dice e come le dice, probabilmente è per tutto questo messo insieme, sta di fatto che non ho mai sentito qualcosa di altrettanto schietto, lucido e spietatamente brutale, capace di catturare perfettamente l’essenza di un concetto nel preciso momento della sua acquisizione. È come se Kimbrough si fosse reso conto, improvvisamente e tutto in una volta, della sua condizione, ne fosse stato investito e non potesse fare altro che prenderne atto: Beh, sono invecchiato/ Non posso più fare le cose che ero abituato a fare/ Sono vecchio. Come per tutte le rivelazioni, il contenuto è semplice, estremamente semplice. E inconfutabile. Voglio dire, esiste qualcosa di più vero e pregnante che si possa dire a proposito della vecchiaia? Se c’è io ancora non l’ho trovato.
Well, I done got old
I can’t do the things I used to
I’m an old man.
Well, I done got old
Well, I done got old
I can’t do the things I used to do
‘Cause I’m an old man.
Remember the day, baby
That done passed and gone
When I could love you
Most any time
But now things gone changed
And I done got old
I can’t do the things I used to do
I’m an old man.
I don’t look like I used to.
Can’t even walk like I used to.
Can’t even love like I used to.
And now things gone changed
And I done got old
I can’t do the things I used to do
Because I’m an old man.