True believers: GINO CASTALDO/DOLCENERA (split issue)

occupy Paludi Pontine (fonte: Wiki)

“Ti ricordi di Antoine Rocamora? Mezzo nero mezzo samoano, lo chiamavano Tony Rocky Horror.”
“Sì mi pare, quello grasso”
“Beh io non arriverei a chiamarlo grasso, ha problemi di peso, che deve fare, è samoano.”
“Credo di avere capito di chi stai parlando”
(Gino Castaldo ed Ernesto Assante, dialogo)

Stefano ha trentasei anni, dorme due ore in meno di quanto dovrebbe per notte, sta facendo la posta da troppo tempo a una graduatoria per entrare come ricercatore in un ateneo di scarsa rilevanza culturale alla corte di un baronetto che gli fa gestire il lavoro delle dottorande assunte a scopi sessuali, un totale di dodici persone che si fumano assegni di ricerca facendoli piovere adosso a cattedre di fondamentale importanza tipo Sociologia ed economia comportamentale del coito anale telematico. Stefano lavora troppo ma non è un vero lavoro e per cinque giorni alla settimana a pranzo mangia un panino alla bresaola e una banana. Soffre di acidità di stomaco. Vuota tre o quattro bicchieri di vino del cazzo tipo morellino di Scansano o Syrah accompagnandoli a crostini riscaldati e fonduta di infima qualità al dell’università, tutte le sere dalle sei alle sette. Ogni anno si sente più vecchio triste e preso male, poi riesce a scoparsi una tesista e scaccia il pensiero per altri dodici mesi. Stefano non è una persona che conosco, ma potrebbe esserlo. La sua storia mi serve solo a farvi concepire l’esistenza di esseri umani che 1 leggono Repubblica, 2 hanno comprato dischi in vita loro e 3 sono disposti a dare credito a un articolo di Castaldo all’inizio del 2012.

True believer #1: Gino Castaldo. Nasce a Napoli nel 1950, vale a dire che era trentenne e nato a Napoli all’epoca in cui i Dead Kennedys facevano uscire il loro primo disco. Non ho altro da dire su Castaldo, lascio la sua bibliografia per dimostrare qualcosa che non ho chiaro nemmeno io.

  • Dizionario della canzone italiana – Armando Curcio Editore, 1990
  • La mela canterina. Appunti per un sillabario musicale, Minimum Fax 1996
  • La Terra Promessa. Quarant’anni di cultura rock, Feltrinelli 1994
  • Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano (con Ernesto Assante), Einaudi 2004
  • Trentatré dischi senza i quali non si può vivere. Il racconto di un’epoca (con Ernesto Assante), Einaudi 2007
  • Il buio, il fuoco, il desiderio. Ode in morte della musica, Einaudi 2008
  • Il tempo di Woodstock (con Ernesto Assante), Laterza 2009
  • Music Box – Contrasto 2011

(trovata sulla pagina Gino Castaldo su Wikipedia italiana, la quale ad imperitura testimonianza del nostro rosico NON contiene una voce “Bastonate”)

Insomma, oggi Gino è sulla traccia con il suo solito* articolo sulla fine del rock come genere da classifica e/o testimonianza della rivolta popolare, cioè sulla fine del rock come concetto. Non è facilissimo mettersi a fare le pulci a un articolo su delle cose del genere, sarebbe più o meno come sgattaiolare alle spalle di Umberto Bossi e sussurrargli all’orecchio “è Mark Lanegan. Non so se lo conosci, era il cantante degli Screaming Trees”. Vi basti sapere che come esempi moderni di rock (nelle uniche due righe che non parlano degli U2 o dei Coldplay) sono Bon Iver e Fleet Foxes, nella nostra scala di valori due tra le più eloquenti testimonianze dell’assenza di un Dio a cui rivolgere le nostre preghiere. Tra l’altro qualcuno mi manda per conoscenza un articolo di manco un mese fa scritto da Paolo Giordano sul Giornale, nel quale commenta la morte del rock sempre partendo dal fatto che l’ultimo disco dei Coldplay non ha venduto un cazzo. Nello stesso articolo parla di Adele definendola il Calimero del pop, cioè tipo come fai a chiamare Calimero L’UNICA poppettara non nera di successo nel 2011? Vabbè. Paolo Giordano del Giornale non è lo stesso Paolo Giordano che ha scritto il libro. Ci sono due Paoli Giordani a questo mondo, ed entrambi scrivono un sacco. Tornando a Castaldo, l’Uomo si prende un paio di righe per cercare di capire le cause (sembra ce l’abbia con gli iPod, non riesco a capire perchè). Arriva ad accusare il mercato di avere sabotato il rock e di continuare a farlo, anche e soprattutto in Italia dove gruppi parecchio incazzati tipo Ministri e Teatro degli Orrori vengono continuamente boicottati e sabotati (non dagli indieblogger, eh, proprio tipo dal MERCATO MUSICALE), lo stesso giorno in cui i Gazebo Penguins pubblicano una nota FB nella quale sentono il bisogno di difendersi da accuse di sellout (WTF?). Risposta possibile:

Gira e rigira finiamo sempre a fare i balletti intorno agli storpi, insomma. La cosa più rock a cui riesco a pensare ad inizio del 2012 in Italia, a pochi centimetri di di scroll dalla recensione degli Obake, è un video di dieci secondi nel quale Dolcenera (mai così elegantemente anoressica) sorride sul palco di TRL e accontenta uno sparuto gruppo di liberaldemocratici che le sta urlando FACCENSALUTO. Il video tra l’altro risale al 2009, mi è rimbalzato sulla bacheca di FB e non riesco a smettere di spararmelo. True believer #2: DOLCENERA. Il nome d’arte di Dolcenera (all’anagrafe Emanuela Trane), come tutte le cose brutte successe in Italia da Piazzale Loreto in poi, è una citazione di Fabrizio De Andrè. Era uno con un bel senso dell’umorismo, starà stappando. L’ultimo disco di Dolcenera si chiama Evoluzione della specie, per fugare i dubbi ideologi sull’opera di Darwin. Contiene canzoni sinceramente rock, nel senso Gianna Nannini del termine, nelle quali compaiono righe di testo tipo nella giungla senza legge ci sono gli animali e Roma non è più di nessuno. I miei pezzi preferiti sono

1 Evoluzione della specie UOMO: Celentano meets KT Tunstall meets LO SCRANNO, testo davvero piuttosto incredibile e/o imprendibile sul sesso o sull’autocoscienza o sul rapporto tra uomini e donne o niente di tutto questo.

2 un pezzo verso metà disco la cui musica è clamorosamente a metà tra Lust for Life e il primo degli Strokes che si chiama Nel regime delle belle apparenze e contiene la linea di testo io ti ho visto dare fuoco ad ogni ipocrisia con il tuo spirito. Giuro. I nostri figli e nipoti, che fortunatamente non ci siamo ancora presi il disturbo di procreare, sono alla mercè di una messe di generatori automatici di odio di classe, e questa è probabilmente una cosa positiva (voglio dire, a questo punto passare da Dolcenera a Jeff Hanneman diventa solo una questione di commitment).

Non so nient’altro di Dolcenera, ma mi sto documentando. Esteticamente è quel che la gente al mio bar definisce una gran figa, ha vinto Sanremo Giovani, sembra avere un taglio di capelli radicalmente diverso ogni mese, ha una voce della madonna. Ha fatto innamorare e/o sbroccare Baccini durante un reality show, ha partecipato al concerto per l’Abruzzo a San Siro. Il suo ultimo disco è prodotto da Martin Hannett e John Olson (Dead Machines, Wolf Eyes). Il secondo videoclip tratto dal disco in questione è prodotto assieme a Playboy, si chiama L’amore è un gioco e nella descrizione di VEVO c’è scritto, cito testualmente: “Una sequenza di immagini come invito alla consapevolezza della propria personalità, a crescere e ad esprimersi, per sentirsi affini con la persona che si ama e con chi ci circonda: è questo il messaggio che emerge dal videoclip” (il primo fotogramma è un tubo di rossetto Pupa). Il testo recita cose tipo “se solo invece di scarpe coi tacchi avessi un paio d’ali io volerei lì da te”. Giriamo la questione alla Stiletto Academy: perchè non si può recare da lui a piedi? Non saprei. Dolcenera in ogni caso ha più un problema di comunicazione che altro. Personalmente ci sono  TROPPO dentro, l’altro ieri sapevo sì e no chi fosse ed ora mi sa che mi sparo l’intera discografia. La smentita di Dolcenera su Facebook è un po’ deboluccia. L’altro ieri, tra l’altro, Bastonate è stato al centro di una polemica che lo voleva finanziato pubblicamente in quota AN e in grave difficoltà per via dello scisma finiano. Ad essere sinceri era una polemica autoalimentata, ma insomma.

Ecco, i due true believers di cui sopra non sono proprio legati, ma nel caso vogliate rispondere al sondaggio di Repubblica “il rock è finito?” (tre risposte: , no, terza opzione senza senso perchè a metterne solo due poi pare che non hai la pacca) che scaturisce dal lungimirante editoriale di Castaldo, tenete conto che in questo esatto momento Dolcenera sta operando sotto la vostra sedia. Tra l’altro insomma, dalla morte e decomposizione del rock potrebbe venire qualcosa di positvo: un cantante black metal potrebbe inalarne il fetore per esibirsi al pieno delle sue possibilità. Sieg howdy.

*non sono convintissimo che sia il SUO solito articolo, in realtà. è sostanzialmente impossibile distinguere Castaldo da Assante. Magari è il primo articolo scritto da Castaldo in assoluto su qualsiasi argomento.

DISCONE: Obake – s/t (RareNoise)

Obake è puro sludge metal basilare risuonata con l’orecchio e la mano del musicista avant, di colui che ha imparato a frequentare i circoli dove l’estetica viene decisa o quantomeno rimescolata ma non ha dimenticato ciò da cui viene. Obake gioca all’interno di una forma mentis che prevede una sorta di secondo grado dell’insincerità (vuoi etica, vuoi procedurale) nella formula di base per poter elaborare democraticamente un suono la cui complessità è (massimo paradosso) definita dal costruirsi su una matrice melvinsiana (diciamo Bullhead) e quanto più volgare possibile: bassi slabbrati, batterie che riecheggiano e tutto il resto. Non possiamo definire la cosa estranea a certi momenti pattoniani, vengono in mente gli episodi meno vezzosi di Fantomas (Director’s Cut) e la stessa relazione di amore-odio con le ipotesi zorniane più orientate ad interagire con l’estremo e la velocità: il corpo metal sezionato con strumenti chirurgici in condizioni operatorie asettiche ed il chaos al limite del rumore bianco che da esso scaturisce, ricostruito con attitudine frankensteiniana a mo’ di rimozione del lutto. Obake si pone in merito con un atteggiamento meno critico e più genuinamente fanatico: la musica diventa il viatico per riflessioni extragenere che poco o nulla hanno a vedere con le concezioni di vero e falso che ancora dominano l’attitudine della fascia d’ascolto dei suoni contemplati all’interno di Obake disco. In altre parole la potenza espressiva di Bernocchi e soci è quella di saper gestire l’emotività legata ad Obake (intesa come ideologia) in maniera estremamente orizzontale, vivendo il flusso da facentene parte, il che è già di suo una ventata di aria fresca sia rispetto al carosello di riflessi extragenere a cui si dedicano i Boris del dopo Flood (per nulla a caso poco fa chi scrive citava Bullhead, del resto), sia dell’algido formalismo parablackmetal delle più recenti incarnazioni art-rock alla corte di Greg Anderson, sia dell’infinita ripetizione di abusati clichè post-apocalittici che continua inspiegabilmente a far vendere il marchio Neurosis e le più sterili derivazioni dello stesso. La più grande vittoria di Obake è questa: quella di essere riusciti a vedere una musica che viene dal cuore e di essere riusciti a replicarne lo spirito senza versare una goccia di sangue. Alzi la mano chi ha creduto anche a una sola delle minchiate che stanno nelle 2400 battute che ho scritto fin qui (dai, era facile, ho messo anche l’acca in CHAOS). Obake è un progetto di Massimo Pupillo assieme a Eraldo Bernocchi ed altra gente ugualmente curricolata che potrei fingere di conoscere da quando avevo 15 anni, è uscito qualche mese fa su RareNoise ed è sostanzialmente un disco sludge metal, concepito in maniera un bel po’ fighetta ma comunque votato al devasto più totale. Come tutti i progetti con Massimo Pupillo sembra un progetto di Massimo Pupillo. Arrivi alla fine che ti senti come se t’avessero pestato con una vanga.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 29 agosto-4 settembre 2011

 
e come ogni anno a Bologna la fine dell’estate è sancita dall’inizio della Festa dell’Unità, di qui ai prossimi venti giorni chi volesse mischiarsi ad altri stronzi a strafogarsi di cibi indigesti a prezzi da seconda ipoteca sulla casa e sentire live i comizietti di qualche politicante forse appena un pelo meno impresentabile delle merde che ci governano sa dove andare, del resto le alternative sono il niente più bieco – almeno per questa settimana. Mercoledì però all’Estragon ci sono gli Hidden Cameras (dalle 21.30, cinque euro per tessera Summer Card valevole per altri otto concerti perlopiù orribili) e non importa qual è la musica che ascoltate di solito, The Smell of Our Own è un capolavoro che non si discute, e pezzi come Ban Marriage, Golden Streams, The Animals of Prey, Day Is DawningBoys of Melody (e verrebbe voglia di riportarne la tracklist per intero) pilastri assoluti di tutto quel che riguarda lo stare bene al mondo, e dovrebbero conoscerli i fan di Vasco Rossi quanto quelli dei Cannibal Corpse… Dal vivo sono quanto di più vicino all’idea di “messa gay” se le chiese fossero un luogo allegro, e bastano trenta secondi di un loro show per far diventare frocio anche Rocco Siffredi; in ogni caso, roba che ti migliora la vita. Giovedì un cazzo, in compenso venerdì una doppia tutta romagnola: delirio noise preso male al Grottarossa a Rimini (per il flyer clicca Qui) e/o delirio noise ben oltre la soglia della pazzia a Russi (tutte le info nel granuloso flyer più sotto). Sabato si recupera lo Stoned Along The River, saltato a fine luglio per condizioni meteorologiche avverse; le coordinate restano le stesse, mail a stonedalongtheriver (at) gmail . com per ricevere indicazioni su come raggiungere il luogo dell’evento, tutto il resto è entropia. Domenica i Face To Face suonano mezz’ora al pomeriggio prima di Simple Plan e Offspring: esiste qualcosa di più triste, ingiusto, offensivo e degradante? Io so solo che invidio mortalmente i fortunelli che se li sono visti a Londra coi Descendents. La bile travasa.

 

Tanto se ribeccamo (speciale crossover): SYSTEM OF A DOWN

I System Of A Down hanno iniziato a starci seriamente sul cazzo, pluralia maiestatis, ai tempi di Steal This Album. Prima di allora li avevamo giudicati grandiosi o quantomeno sopportabili. Per certi versi erano il gruppo giusto al momento giusto: iniziavano ad operare pubblicamente nel ’98 ed erano probabilmente il primo gruppo crossover (o nu-metal o come lo volete chiamare) non-elettronico di quegli anni in cui la componente rap non c’era, o era talmente teorica che potevate tranquillamente taggare tutti gli sproloqui in materia alla voce “fregnacce”. Avevano iniziato a suonare in giro, s’erano fatti una buonissima reputazione ed erano stati presi sotto l’ala di Rick Rubin, geni intoccabili ancor prima che uscisse il disco d’esordio e santi subito una volta uscito il disco. Era un bell’album, d’altra parte: una specie di incrocio tra Faith No More e Dead Kennedys con le chitarre ribassate e un paio di lievissimi accenti zingareschi per confondere le carte. Si diceva che la band scricchiolasse un poco dal vivo, in realtà: una cosa è riuscire a tirar su un bel concerto di fronte a cento/duecento persone, una cosa è venire sbattuti tra i gruppi di punta dell’Ozzfest dalla mattina alla sera. Erano anni di cambiamenti repentini: s’era creata una specie di seconda generazione del nu-metal che guardava con sospetto a gente in attività da anni, tipo Korn o Soulfly, e affidava le chiavi del regno a gruppi tipo Snot, Slipknot, SOAD, (Hed)pe, Puya et similia. Tre anni dopo era –grossomodo- tutto finito. S’era capito che gli (Hed)pe erano un gruppo rapmetal normale, magari un po’ più schizzato della media; il cantante degli Snot era morto e la band era diventata un autentico vivaio di turnisti per una dozzina di gruppi metal di successo; i Puya erano roba per metallari di passaggio con una tossicodipendenza da cocktail con gli ombrellini, gli Slipknot erano in preda a un delirio di onnipotenza tr00 metal che ha allontanato la parte significativa della loro fanbase in favore di gruppi death veri e propri (come era giusto e logico supporre). Al contempo i System of a Down semplicemente ESPLODEVANO: i live s’eran fatti più belli e il gruppo aveva iniziato a girare truccato. Nel 2001 esce Toxicity: quattordici pezzi che sono il risultato di lunghe registrazioni in studio, ancora assieme a Rick Rubin, che hanno fruttato una trentina di canzoni pronte. Il disco contiene tre o quattro ballatone metal che sono probabilmente le cose migliori a cui la band metterà mai mano (Chop Suey, la title-track, Aerials), in mezzo a una scaletta che negli episodi più veloci suona già di seconda mano rispetto alla brutalità dei migliori momenti dell’esordio. Il disco va benissimo, il gruppo diventa la cosa più redditizia del rock pesante d’oltreoceano, nonostante l’immaginario riottoso della band li abbia resi (dopo lo scioglimento dei RATM) la principale voce di protesta per under-16 dell’America neocon di George W Bush. Fino a qui, tuttavia, tutto bene, a parte una parentesi piuttosto comica nella quale Serj Tankian afferma candidamente in sede d’intervista di non avere mai ascoltato i Dead Kennedys prima dell’uscita del loro disco d’esordio. Poco importa, i punk alla fin fine sono una minoranza assoluta tra i loro fan.

Il problema, dicevamo, arriva a brevissimo. I brani scartati delle session di Toxicity finiscono in rete e iniziano a circolare con un successo senza precedenti: non saprei dire se la band avesse in programma una mossa stile Amnesiac, nel caso si vede presa in contropiede e fa buon viso a cattivo gioco pubblicando il disco come se fosse un masterizzato (e la scritta STEAL THIS ALBUM! a pennarello sulla copertina), giustificandolo con la solita scusa dei rough mix (ai tempi andava alla grande: “le versioni in rete non sono finite! qua non ci sono le sovraincisioni di chitarra! questo brano in realtà ha un altro titolo!” etc). Il contenuto sembra una serie di scarti delle session di Toxicity, essendolo: pezzi scrausi, pezzi non all’altezza, un singolino, poco altro. Negli anni in cui esce è in corso la prima e più violenta battaglia delle case discografiche contro il download, quel periodo buio fatto di cd watermarked, cause multimilionarie e triccheballacche assortiti. Fu terribile vedere svilupparsi l’operazione, da cui i SOAD si dissociavano un po’ con la mano sinistra mentre allungavano la mano destra sui contanti. Tre anni dopo la cosa si ripete più o meno identica: il primo singolo BYOB è pauroso (inizia con un riff che sembra uscire da un disco dei Maiden), ma i due album  in uscita (Hypnotize e Mezmerize, realizzati in contemporanea e rilasciati a pochi mesi l’uno dall’altro, tipo l’ultimo film di Harry Potter) sono robetta. Nessuno se ne accorge, ovviamente: a questo punto i System Of A Down sono diventati, non so ben dire a che titolo nè tantomeno quando sia successo, i Metallica della loro epoca. I fan della prima ora se ne sono andati quasi tutti, per motivi sostanzialmente fisiologici. Dopo il tour il gruppo si scioglie, utilizzando la formula fugaziana del cosiddetto indefinite hiatus. Nel frattempo i singoli membri si sono dati alla pazza gioia: etichette, progetti umanitari, dj set, altri gruppi eccetera. Quasi tutta immondizia, ma il primo disco uscito per la EatUrMusic del chitarrista Daron Malakian è Death Before Musick degli Amen, uno dei migliori album degli anni duemila. Quello che sta messo meglio, tra gli ex-SOAD, è il cantante Serj Tankian, vale a dire l’ovvia prosecuzione dell’impresa SOAD (rock zingaresco con proclami a metà tra poesia e rivolta) negli anni del più grande successo: esce fuori nel 2007, un anno dopo lo scioglimento, con un solo-album di cui è anche produttore. La sua backing band si chiama Flying Cunts of Chaos (per un certo periodo ne farà parte anche Larry Lalonde), il disco si chiama Elect the Dead. Si tratta di una violentissima mazzata nei coglioni che impone di rivalutare gli ultimi SOAD. I quali si riformano in pompa magna per un giro dei maggiori festival europei nell’estate del 2011, non abbastanza in fretta da impedire al cantante di fare uscire un secondo disco a suo nome. Naturalmente in Italia NON suonano proprio ad un festival: la data milanese è un concerto dei SOAD punto e basta, con una manciata di gruppi spalla. Il più rilevante è Danzig, seguono i Sick Of It All –in mezzo alla promozione del loro disco più brutto- e altra gente tipo Anti-Flag. La dimensione di un evento a volte è quella monetaria: il concerto dei SOAD costa più del Big Four. Per dire.

Ed è sold out.

SWANS @ Locomotiv (Bologna, 4/12/2010)

 
Non si pretenda mai, da nessun essere umano, di garantire alcunchè: dopo tredici anni Micheal Gira resuscita Swans.”
(Paolo Bertoni)

THIS IS NOT A REUNION. It’s not some dumb-ass nostalgia act. It is not repeating the past. After 5 Angels Of Light albums, I needed a way to move FORWARD, in a new direction, and it just so happens that revivifying the idea of Swans is allowing me to do that.”
(Michael Gira fornisce la sua giustificazione non richiesta)

Decoroso.”
(Reje, a proposito di My Father Will Guide Me ecc. ecc. ecc.)

 

In effetti non si può dire altrimenti del ritorno di Michael Gira alla ragione sociale Swans: il disco è un buon disco che si inserisce agevolmente nel percorso tracciato dal draconiano Gira nei lustri successivi allo split con Jarboe, unico cambio di rotta il ripristino di chitarre acuminate e bordate massimaliste al posto della chitarrina e delle orchestrazioni, comunque il mood alla base resta il medesimo; un disco che hai già metabolizzato al primo ascolto, calligrafico ma (miracolosamente) non opportunistico, blandamente oppressivo e vagamente ispirato, addirittura rassicurante nella sua prevedibile funzionalità da classico minore. Dal vivo è un’altra storia. Dal vivo non è cambiato niente, dici Swans ed è di nuovo ridefinizione radicale di concetti come sopraffazione, prevaricazione e umiliazione applicati alla musica. Brani dilatati sformati trasfigurati che diventano veri e propri strumenti di tortura adoperati scientemente per brutalizzare gli spettatori, sfinirli, prostrarli, annichilirli fino alla sottomissione totale e alla resa incondizionata; evidentemente con gli Angels of Light e i solo show il pubblico non soffriva abbastanza (in effetti ricordo un concerto del ’99, era il tour di New Mother, decisamente tranquillo e perfino piacevole; poi non l’ho più visto live fino ad oggi). Ecco quindi che con i nuovi Swans Michael Gira torna a essere quel che è sempre stato e a fare quel che ha sempre fatto: un sadico sensibile che trae forza vitale dal disagio del suo uditorio, un vampiro emozionale che si nutre esclusivamente di vibrazioni negative, inculcando come un cancro maligno nella mente e nel corpo di chiunque gli stia intorno il suo malessere personale (che poi è il malessere di per sé stesso, la cosmica malvagità dell’universo o come lo vogliate chiamare)  allo stesso modo in cui si marchiano i vitelli, violentemente, irreversibilmente e senza troppe cerimonie.
In questo Gira trova nel Locomotiv il locale ideale per veicolare il suo transfert malsano. Nella bella intervista pubblicata su Blow Up di dicembre aveva dichiarato: Ho scelto in diverse occasioni di spegnere i condizionatori del locale in modo che l’aria sia asfissiante e parte del pubblico per questo sembri al limite dell’essere presa dal panico. Mi piace l’idea che si crei un’atmosfera che sia simile al trovarsi in una delle capanne sudatorie che erano in uso nelle comunità indiane. Detto, fatto: il Locomotiv post-insonorizzazione è a tutti gli effetti un forno crematorio legalizzato, un budello ermeticamente sigillato dove non tira un filo d’aria e il tasso di umidità è superiore alla media pomeridiana di Singapore nel pieno della stagione delle piogge. Risultato: i vestiti zuppi, il fiato cortissimo e l’aria irrespirabile già al secondo pezzo dell’artista di spalla, un cinghialesco James Blackshaw davvero emozionante e comunicativo quanto tristemente fuori contesto – almeno a giudicare dalle reazioni del berciante e molestissimo pubblico, disattento e infastidito come non mai. Per movimentare ulteriormente la situazione, tutti i fari rimarranno costantemente accesi e puntati sul pubblico per l’intera durata dell’esibizione (è per questo che non trovate foto a corredo dell’articolo), aumentando in maniera considerevole la temperatura interna del locale, già insensata di per sé; sono a quanto pare le condizioni climatiche necessarie per un live degli Swans versione 2010. Un lungo drone montante precede l’ingresso in scena dei musicisti, per primo il segaligno Phil Puleo (batteria e xilofono), poi il pelosissimo Thor Harris (neanderthaliano percussionista già negli Angels of Light), quindi il rotondo Chris Pravdica (basso, da subito intento a rinforzare il drone previa massicce iniezioni di ulteriore feedback spaccabudella), l’elegante Christoph Hahn (slide guitar, peraltro molto meno incartapecorito di quanto mostra l’ingannevole ritratto nel booklet del disco), l’allampanato Norman ‘Pertica’ Westberg (chitarra, occhi pallati e tatuaggi orribili) e, da ultimo, il bucolico Michael Gira, camicia da mandriano e portamento solenne da sacerdote pazzo. Parte una gragnuola di riff sopra il drone di cui sopra, che si allunga e cresce e tira e manda in paranoia i centri neuronali; Gira è impossessato, misura il palco con passo febbrile, incassa la testa tra le spalle e scalcia l’aria come un cowboy deforme, è uno spettacolo ipnotico e perturbante al tempo stesso, è l’essenza stessa del dolore. Il suono cresce e si espande come miele caldo misto ad acido corrosivo, la gabbia toracica si squaglia come in un quadro di Francis Bacon, le tempie pulsano come prossime all’esplosione, i vestiti che indossiamo aderiscono al corpo come una seconda pelle. Perdo la cognizione del tempo, di colpo riacquisto un barlume di lucidità quando mi rendo conto con orrore che mi viene da vomitare e da cagarmi addosso simultaneamente, guardo l’orologio e scopro che è passata un’ora; porto alla bocca la bottiglia d’acqua che tenevo in borsa, il liquido è caldo come piscio rimasto a macerare al sole. I Crawled (per l’appunto), e Christoph Hahn a momenti si soffoca da solo per un sorso di cocacola ingurgitato male; sembra che il mondo intero stia sudando peggio che in una fonderia a ferragosto, Gira a petto nudo ci scruta come fossimo tanti piccoli scarafaggi indegni anche di finire schiacciati. Il bis arriva come la liberazione dopo un mese in cella di isolamento, la morsa si allenta, è come iniziare a riemergere dalle profondità degli abissi; in due ore e un quarto hanno suonato nove pezzi. Ho bisogno di ossigeno più di ogni altra cosa al mondo e potrei srotolare un delirio su quanto si esca mondati di parte della merda che abbiamo dentro dopo un’esperienza del genere ma sono troppo provato e debilitato e profondamente esausto e a questo punto mi accorgo che non ho più nemmeno le parole per dirne.
Scaletta:
1. No Words/No Thoughts
2. Your Property
3. Sex, God, Sex
4. Jim
5. ??? (questa non sono riuscito a identificarla)
6. I Crawled
7. ??? (anche questa buio totale, se ne sapete qualcosa fatevi vivi)
8. Eden Prison
9. Little Mouth (bis)

 

 

N.B.: non ricordo da dove ho preso la foto più sopra. Tempo fa ho fatto una ricerca su google immagini inserendo come chiave “michael gira”, ho trovato quella, mi è piaciuta e l’ho salvata ma non ricordo nient’altro. Forse stava sul flickr di qualcuno. In ogni caso, chi volesse reclamarne la proprietà è più che benvenuto.